Per
una metafisica del Sud
Se c’è qualcosa che
conserva ancora un certo fascino, lì nelle lande desolate del Sud, arse dalla
calura estiva e accarezzate dalla brezza marina, è la superba concessione che
il Padreterno dona, quasi per farsi perdonare per la sua malcelata presenza, a
chi vuole scappare da una vita artefatta, condotta nella tristezza di una
metropolitana milanese o nella sudata quotidiana replicata per acchiappare il
primo autobus servibile, un topaio. Dimenticate le corse affannate e le
bestemmie pendenti sulla bocca, qua si campa d’aria! È una vita a
rilento, una proiezione all’indietro, il passato che risorge e si fa presente:
il Profondo Sud è una condizione ontologica.
Il viaggio per
arrivare alla punta dello stivale, partendo da Milano, dal lato opposto della
Penisola, non conosce disponibilità di mezzi: l’alta velocità termina a Salerno
per chi scende dalla Tirrenica, e, al massimo, il Profondo Sud consente una
media velocità, con un Frecciabianca diretto a Lamezia Terme. Chiama a sé, il
Profondo Sud: non col treno, ma con l’autobus, viatico per un viaggio
metafisico, intessuto di sedici interminabili ore e due fermate in oasi dal
gusto metropolitano: Autogrill, falsa pizza napoletana, prezzi nordici: il
viaggio è ancora lungo!
«Cu ta fici fari?»
- domanda il Profondo Sud. «’A spiranza mi fici partiri, ma jeu non vojjiu
cchjiù restari!», è la risposta che ognuno dà, che ognuno si dà. Perché il
Profondo Sud è la coscienza ascondita dei suoi figli, che domanda per quanto il
distacco sarà ancora lasciato a maturare, è la voce interiore che mai reclama
la resa. Una voce che non parla italiano, che chiede e risponde nella parlata
rude dell’Aspromonte o del Palermitano, in quella serena della Sila o del
Salento, in quella musicale del Napoletano o dell’Arbëreshë.
Il Profondo Sud è la resilienza di una donna di Curinga che raggiunge in
Svizzera il marito emigrato senza mai disfare la valigia, pensando che presto, annavota,
ritornerà. Non ritornerà più – eterno fascino dell’oblio.
Così, il viaggio
verso Sud si configura come un viaggio nel tempo: più ci si distacca dai grandi
centri urbani, più si sprofonda in un’umanità radicata nelle proprie tradizioni
e nei propri costumi, che si arrabatta tra un prete e un farmacista, un trattore
e un motocarro, mezzi che, da qualche tempo, hanno sostituito le fatiche del
mulo o dell’asino, compagni di vita di generazioni di contadini. Il Profondo
Sud si fa vivo imboccando la Jonica, la Statale 106, nota nelle cronache dei
giornali come la strada della morte. Preludio all’Inferno, la tratta che
collega Taranto a Reggio Calabria, a parte qualche eccezione, vede, nel tratto
calabrese, rimasto fedele all’arretratezza religiosa dell’intera regione, la
presenza di una sola carreggiata a due corsie. Quattrocentoquindici chilometri
d’asfalto che fendono, grosso modo, i centri urbani della Calabria. Terra di
sacrificio e terra di dolore, non si dimentica dei suoi figli. Martoriata, sì,
ma benevola, li saluta dal Castello di Roseto Capo Spulico, tra i primi paesi
che inaugurano il tratto calabrese della Statale 106. Il Castrum, che
scende a picco sul mare, fu ricostruito per volontà di Federico II di Svevia.
Quando i raggi del sole trafiggono le acque dello Jonio, il Castello, a ridosso
della strada, si impone all’occhio umano in tutto il suo fascino. L’azzurro
profondo dell’acqua fa da contrasto con le pareti pietrose del Castello e
richiama alla mente i fasti dei tempi antichi.
«Visto dall’alto
l’inferno degli italiani è bellissimo. Dalla rocca di Erice, dall’aereo che
scende sul mare verde e franto di Punta Raisi, dalle radure del Pollino su cui
trascorrono nubi leggere fra i due mari esso sembra disegnato per gli dèi –
scriveva Giorgio Bocca ne L’Inferno -. Alle porte di questo inferno,
dentro questo inferno ti avvolgono i profumi forti dei mirti, della macchia,
degli aranceti, del salso che arriva dall’isola delle Femmine sulla strada di
Palermo, dentro i calori della terra calda. Questo inferno degli italiani pieno
di linfe sulfuree, di sorgenti fumanti, di lave scorrenti senza il quale noi
del settentrione che ci portiamo addosso gli odori scialbi delle marcite, i
gusti tenui dei pesci del lago, non ci sentiremmo mediterranei, non ci
sentiremmo anche noi figli della terra “in cui fioriscono i limoni”».
Nell’inferno
degli italiani, laddove ancora la vita sembra essere scandita da un
personale codice d’onore, resistente a qualsiasi forma di scandinava civiltà,
il Progresso conduce la sua eterna lotta contro riti e tradizioni, rischiando
di rimetterci la pelle. Rischia, ma non demorde. Camminando tra le ruve
desolate dei borghi calabresi, ove ancora si respira l’odore solenne del pino e
della quercia, si vedono ancora flotte di teste fresche tirare calci ad un
Super Santos, giocare alla vecchia zoppa, bussare alle porte degli
anziani e scappare, beccarsi poi qualche insulto e attendere le scazzottate dei
genitori. Il chiacchiericcio alacre degli anziani riuniti in gruppo nella
quotidiana passeggiata, anima la vita paesana. Non è raro vederli seduti in
piazza, sul sagrato della chiesa matrice, a passare l’acqua e ricordare,
come un mantra, quello che c’era e si faceva un tempo: portano sulle spalle il
peso della memoria cittadina.
Folle
di braccianti verso il nord/ come uliveti fuggenti/ incrocianti i treni del
sud. È la metafora di Gino Scalise, poeta calabrese, morto in
odore di santità. Sta in questi versi ermetici la descrizione di settanta anni
di sofferenza, vissuta sulla pelle di nonni e padri, partiti verso le terre del
Canada, dell'Argentina su navi cariche di speranze. Oltre l'oceano portarono i
loro cuori e i loro affetti. Da lì mai fecero ritorno. I più fortunati
trovarono impiego a Nord, a Torino e a Milano, a prestare lavoro a gloria della
Patria. "La speranza che conduce i braccianti verso il nord, uomini
sensitivi e vivi, come sensitivi e vivi sono gli uliveti di una arcana
sensibilità e vita, come gli uliveti, in realtà, restano bloccati al loro
stato: corrono le illusioni e le speranze in un incontro che è scontro; gli
uomini e gli alberi restano abbarbicati al loro stato iniziale, anche se
corrono verso una nuova sede, un nuovo lavoro che molto raramente li riscatta.
I sogni di coloro che vanno non valgono di più della parvenza di fuga degli
alberi incrocianti i treni del sud" (Angela Cortese in Sui fiumi di Babilonia, Gino Scalise -
Fasano editore, Cosenza). Uliveti fuggenti: quelli che si vedono stagliarsi dai
finestrini dei treni. Compaiono e scompaiono, in un gioco quasi shakespeariano,
tra i treni della jonica. Chi non è nato in questi luoghi dilaniati
dall’emigrazione, vittime di uno spaesamento continuo e di un abbandono
istituzionale che alimenta il senso di estranea diversità tra questa e quella
Italia, non può capire quale segreto riposi nello spirito del Profondo Sud. Il
Sud è una categoria dello spirito, non adatto per chi trova la sua triste
realizzazione in una non ben definita emancipazione umana, livellatrice e
dimentica delle proprie origini e fondamenta. È il luogo
in cui il sacro ed il profano coabitano nella Madonna portata a spalla e nelle
bancarelle delle feste cittadine, nei Santi portati nelle viuzze del paese ai
quali la pietà paesana confida speranze e paure. È il luogo in cui, mentre la
Madonna, Gesù Cristo, Sante e Santini, passano per benedire case, vicoli, sani
e malati, le questue dei chierichetti si riempiono di oro e di sordi.
Scontroso, riottoso, a tratti bestiale e testardo, questo spirito è il primo
nemico della civiltà dei consumi. Qui, dove Dio ha cessato di porre la sua mano
santa, comparendo di tanto in tanto a soddisfare le richieste di vecchierelle
affrante, impegnate a sgranare rosari con la mano, si nasconde l'avanguardia
per gli anni a venire. Nei contadini affaccendati, con le mani grezze e le
spalle gonfie, giace la speranza del domani.
Eppure,
tra le meraviglie di questa terra, tra i suoi anfratti depressi e stagliati,
metafora esteriorizzata del carattere aspro e fiero del calabrese, si nascondono
le sue più piaghe più purulenti. Non sbagliava Leonida Répaci nell’intitolare
il suo libro inchiesta Calabria grande e
amara. Grande come la storia di questa terra, cui la cultura occidentale,
almeno fino al XVI secolo, deve rendere elogi e grazie, amara come la sua
miseria e la sua condizione sociale. Gli anni sono passati, le condizioni di
vita – per fortuna o purtroppo – sono migliorate, e la miseria che Répaci
ravvisava nei suoi scritti, non esiste più. Non almeno in quelle proporzioni.
Ha subito però un mutamento, o forse un riciclaggio. Si è ripresentata in
abbandono istituzionale da una parte e in senso di passiva accettazione
dall’altro, quasi che il destino avesse regalato questa e non altra realtà alla
Calabria. O, forse, più semplicemente, ci sbagliamo, perché è sempre stato
così. Appartiene alla linfa vitale di questa terra. Sono pagine bellissime
quelle dello scrittore di Palmi, il quale, quasi per rivendicare l’orgoglio di
appartenere ad una terra dalla scintilla divina, immagina il vigore creativo di Dio nella creazione
di un’opera «più bella della California e
delle Hawaii, più bella della Costa Azzurra e degli arcipelaghi giapponesi» Ma
non era detta l’ultima parola e la bellezza, dolce Venere rubiconda, reca i
segni dello strabismo: «[…] Operate tutte
queste cose nel presente e nel futuro il Signore fu preso da una dolce
sonnolenza, in cui entrava il compiacimento del creatore verso il capolavoro
raggiunto. Del breve sonno divino approfittò il diavolo per assegnare alla
Calabria le calamità: le dominazioni, il terremoto, la malaria, il latifondo,
le fiumare, le alluvioni, la peronospora, la siccità, la mosca olearia,
l’analfabetismo, il punto d’onore, la gelosia, l’Onorata Società, la vendetta,
l’omertà, la violenza, la falsa testimonianza, la miseria, l’emigrazione. Dopo
le calamità, le necessità: la casa, la scuola, la strada, l’acqua, la luce,
l’ospedale, il cimitero. Ad esse aggiunse il bisogno della giustizia, il
bisogno della libertà, il bisogno della grandezza, il bisogno del nuovo, il
bisogno del meglio. E, a questo punto, il diavolo si ritenne soddisfatto del
suo lavoro, toccò a lui prender sonno mentre si svegliava il Signore».
Solo
che lo strabismo è diventato trascuratezza, la bellezza, per chi ne sa cogliere
il profumo, riposa tra le foglie del fico e del bergamotto. Il paradiso perduto
è qui. Se tale è, forse, il prezzo da pagare per raggiungerlo ed abitarvi è
l’arretratezza, la desolazione, l’emigrazione, il sacrificio. Allora, la
metafisica del Profondo Sud, di questo Profondo Sud, non può che risiedere
negli orizzonti dello spirito. Allo spirito puro, forse, è dato scorgervi non
un inferno, ma un meraviglioso giardino edenico, cui approdarvi dopo infinite
peripezie. La meta si fa lunga e faticosa. Questa fu la Parola del Signore: «questi mali e questi bisogni sono ormai
scatenati e debbono seguire la loro parabola. Ma essi non impediranno alla
Calabria di essere come io l’ho voluta. La sua felicità sarà raggiunta con più
sudore, ecco tutto. Utta a fa juorni c’a notti è fatta. Una notte che già
contiene l’albore del giorno».
Intanto,
al calar della sera, negli autobus che a rilento risalgono la Jonica, la
Calabria saluta i suoi figli per il prossimo arrivederci. Da lì, sempre dal
Castello di Roseto, perché il rito è tradizionale e alla Calabria non piace
cambiarlo. Non piace neanche al Profondo Sud. Ma, in fondo, chi siamo noi per
operare distinzioni metafisiche? Faccia ognuno come crede, venga qui o sui
Colli del Cilento, o nella Valle dei Templi; respiri, e se il Profondo Sud lo
riterrà degno, uscirà dai meandri rocciosi di Chianalea di Scilla o dalle acque
solenni del golfo di Squillace a regalare estatiche contemplazioni paradisiache.
Ippolito
Emanuele Pingitore
(Il
Bestiario degli Italiani, n.4/2016)
Classe 1994, I.E. Pingitore* è redattore della sezione culturale de L’Intellettuale Dissidente.
Collaboratore, in passato, de Il Quotidiano della Calabria, ha scritto
per diverse testate online e riviste cartacee, tra le quali Antarès
(Bietti edizioni) ed Il Bestiario degli Italiani. Dopo aver frequentato
il Liceo Classico "D. Borrelli" di Santa Severina, ha lasciato
Scandale per trasfersi a Milano, dove frequenta la Facoltà di Filosofia
dell'Università Statale. Attualmente è responsabile del Circolo
Proudhon Milano, con cui organizza eventi e conferenze.
* Con questo articolo Ippolito Emanuele Pingitore inizia la sua collaborazione al blog. Lo ringrazio.
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