martedì 31 gennaio 2017

Le trombe di Trump

Donald Trump è all’ordine del giorno: ogni sua mossa, ogni sua decisione, ogni sua legge suscita un vespaio di polemiche  e di rimostranze a livello planetario. Il fatto è che finora avevamo sempre conosciuto uomini politici che in campagna elettorale sostenevano una tesi e poi facevano tutto il contrario di quel che avevano detto o, nella migliore delle ipotesi, annacquavano, fino a renderlo irriconoscibile, il loro programma elettorale. Così si è sempre fatto e così eravamo abituati. Con Trump è diverso: lui sta attuando il suo programma, quello che aveva sempre esposto, e lo sta attuando anche  senza ritardi e senza ripensamenti.
Ah, ma così non si fa, dicono le anime belle; e questo decisionismo di Trump suscita sconcerto. Né vale dire che in fondo le decisioni di Trump ricalcano o sono il compimento di leggi già avviate dai suoi predecessori. Ad esempio, il famoso muro al confine col Messico: Trump l’ha sbandierato, ma il muro l’ha già costruito Bill Clinton nel 1994 e lui intende solo completarlo. O il blocco di ingressi per quattro mesi per i cittadini di sette paesi musulmani in odore di terrorismo: Trump non ha fatto altro che riprendere un’iniziativa già attuata da Obama che nel 2011 bloccò l’ingresso negli USA a tutti gli Iracheni per sei mesi, non per quattro. E Bill Clinton, quando era Presidente, faceva contro i clandestini discorsi e dichiarazioni che al confronto Trump sembra un dirigente della Caritas.
Allora nessuno protestò, invece quelli che allora approvarono quelle norme oggi protestano. Perché? Già, perché? Bella domanda. Comunque la risposta è semplice: perché le leggi, le direttive, le decisioni, nei tempi calamitosi che stiamo vivendo, non hanno un valore assoluto, ma hanno valore e sono più o meno accettabili a seconda dei tempi, dei luoghi in cui vedono la luce e soprattutto a seconda di chi le attua. Le fanno Clinton ed Obama? Vanno bene. Le fa Trump? Vanno male, a prescindere, anche senza entrare nel merito, anche senza discutere, e vanno male già prima che vengano attuate. Così va il mondo, oggi, anno di grazia 2017 dopo la nascita di Cristo.
Ma vogliamo entrare un po’ nel merito di questi provvedimenti contestati? E’ vero o non è vero che le ondate migratorie stanno costando molto all’Occidente, non solo per la spesa che comportano, ma anche, e soprattutto, per il decadimento della qualità della vita che esse provocano? Basta guardarsi un po’ attorno e stare attenti a quello che succede, anche là dove meno te lo aspetteresti. Lascio da parte la prostituzione dilagante e sfacciata, i furti, gli scippi, le rapine, le occupazioni abusive, il commercio abusivo, i posteggiatori abusivi, gli elemosinanti infiniti, gli appartamenti svaligiati, lo spaccio di droga all’aria aperta, le isole di completa illegalità, la ferocia bestiale delle bande di immigrati nei confronti di quelli che cercano di difendersi, l’assenza di freni inibitori,  le molestie e gli stupri o tentati stupri, l’impotenza delle forze dell’ordine: tutte cose che ormai fanno del nostro povero, sfortunato e sgangherato paese anche un paese allo sbando e, io penso, irrecuperabile ad un ordinato vivere civile. Ma, a voler fare solo un esempio, avete mai provato ad entrare in un Pronto soccorso di un qualunque ospedale italiano? Già la Sanità italiana era uno schifo per mancanza di risorse, ma con l’immigrazione clandestina ormai è del tutto fuori controllo. In qualunque Pronto Soccorso parcheggiano tanti immigrati, facilmente identificabili anche perché spesso hanno come accompagnatore  un incaricato di una delle coop che li hanno in gestione. Curiosi poi questi accompagnatori che spesso hanno un atteggiamento dimesso e sembrano voler dire: scusateci, lo facciamo solo per guadagnarci da vivere. Bene. Questi immigrati sono spesso insofferenti, pronti alla protesta e al tumulto, hanno atteggiamenti intimidatori nei confronti di tutti e rendono invivibili le sale d’attesa sempre più simili a delle bolge dantesche. E si può criticare un uomo politico che cerca di porre un freno al dilagare di questa sconcia barbarie e cerca di controllare, di regolamentare, se non di bloccare l’ingresso dei clandestini?
E poi c’è il blocco degli ingressi per qualche mese. Ma fa tanto schifo una decisione del genere? A me fanno schifo le proteste, non il blocco. Vogliamo  convincerci che ormai è in atto una guerra, a volte strisciante, a volte aperta, tra l’Islam e l’Occidente e che in guerra bisogna essere pronti a prendere  decisioni drastiche, anche se spiacevoli? Certo che non tutti i musulmani sono terroristi! Ma nel 1941, quando dopo Pearl Harbor gli Usa entrarono in guerra contro Germania, Italia e Giappone, l’allora presidente Roosevelt creò campi di concentramento in cui furono rinchiusi moltissimi americani originari di quei paesi. Erano tutti nazisti, fascisti e militaristi? No di certo, ma bisognò fare così e gli USA vinsero la guerra, perché vollero vincerla e non esitarono di fronte a niente. Trump vuole vincere la guerra contro il terrorismo islamico e fa quello che deve fare. E spero che la vinca questa guerra, non solo per gli USA, ma anche per noi e per tutto l’Occidente, dal momento che i nostri uomini politici al massimo possono essere considerati delle macchiette.
Io non guardo a Trump con particolare entusiasmo e so bene che il suo compito è molto difficile, ma voglio almeno accordargli il beneficio dell’inventario e stare a vedere quello che farà e come andrà a finire. Il fatto è che non tutti sono disposti ad accordargli questo beneficio e sono contro di lui per partito preso ed a prescindere, sol perché è Trump e non si concilia con la loro visione del mondo.
E’ una storia ormai vecchia. Oggi le divisioni in politica non corrispondono più alle vecchie contrapposizioni ideologiche. Oggi in Occidente esistono due blocchi: uno è formato dai potenti, dalla borghesia danarosa, dalla gente che si potrebbe definire fortunata, dalle persone in vista, che hanno successo, insomma da quelli che contano e sono tutti contro Trump (ed erano per Hillary Clinton); l’altro è formato dalla classe operaia, dalla borghesia impoverita, dai disoccupati, dalle famiglie modeste, da quelli che vivono in difficoltà, dai nuovi poveri, in una parola da quelli che non contano un tubo e sono tutti dalla parte di Trump.
E’ una lotta decisiva, drammatica e per alcuni aspetti all’ultimo sangue. Io spero che vincano i secondi, non solo per motivi di appartenenza, ma anche per un altro motivo. Perché questi ultimi una volta almeno potevano sperare in un compenso nell’altra vita, ma, da quando Jorge Bergoglio ha lasciato chiaramente intendere che quella della vita eterna è una bufala e che tutto si gioca in questa vita, beh, che almeno essi possano giocare e vincere la partita, o almeno possano tentare di vincerla.
Staremo a vedere.
Ezio Scaramuzzino

domenica 29 gennaio 2017

Il tempo di un respiro, cap.I°, di Lucia Romani (3)


Il tempo di un respiro è un libro di memorie (Editore L'Espresso, 2012), in cui l'autrice Lucia Romani ricorda, come nel diario di un dolore, la scomparsa della sorella Grazietta. Per gentile concessione, se ne pubblica il cap.I°.
1

Un anno e sedici giorni. Tanto, e così poco, il tempo che separa la tua nascita dalla mia, così che spesso ci scambiavano per gemelle.
Una vita vissuta tenendoci per mano, come mi aveva sempre chiesto mamma, quella stessa mano che hai potuto stringere, negli attimi della morte, dopo avermi attesa per poter compiere, seguendo la raccomandazione di mamma, l’ultimo grande passo. Non so se è più il dolore o la tenerezza a struggermi, nel ricordare l’immagine delle due sorelle che, tenendosi per mano, si salutano sul limitare della vita.
Dicono che i lutti si debbano “elaborare” per poterne superare o comunque accettare il dolore lacerante ed io, ad oltre sette anni dalla tua morte, mi decido ad approfondire ed indagare quello che, lo so già, mi porterà più lacrime che consolazione.
Eravamo così diverse tu ed io! Tu con la testa fra le nuvole, così presa da tutto quello che stava per aria, sempre rivolta al cielo, tua aspirazione e tuo destino. Io con i piedi per terra. E proprio per questo ci compensavamo.
Eri appena nata e già  il cielo ti pretendeva, forse perché tu non appartenevi a questa terra. Il Creatore in genere suddivide le virtù in modo abbastanza equanime, per cui chi non ne ha una, ne ha un’altra. Con te si era tolto la soddisfazione di vederne un bel po’ tutte insieme: dalla bellezza folgorante, della quale sei sempre stata inconsapevole, alla passione per l’arte e per la musica, al carisma che incantava chiunque ti incontrasse.
Dove sei passata, hai lasciato una traccia indelebile, tanto che ancora oggi ti piangono e ti rimpiangono le persone che ti hanno conosciuta. E mille lacrime non bastano a riempire il vuoto. Eri caparbia: la tua condizione di giovane mamma non ti ha impedito di portare a termine tutti i progetti che avevi in testa, di fretta e a volte in modo frenetico, quasi con la consapevolezza del poco tempo che ti era concesso.
Eri positiva ed ottimista anche quando tutto urlava il contrario. Ti ho salutata mentre entravi in sala operatoria con il sorriso sulle labbra, quasi tu volessi tranquillizzarci: non era ostentazione la tua, era proprio serenità d’animo. Ricordo che ti tracciai sulla fronte il segno della Croce perché in quel momento proprio non potevo fare nulla per te e ti affidavo alla Sua volontà, affinché ti tenesse Lui per mano, mentre io me ne stavo fuori, nel corridoio di fronte alla sala operatoria, buttata lì per un tempo infinito, impotente, ad attendere notizie.
Qualche giorno fa, ho ritrovato dentro una scatolina a forma di gufo che mi avevi regalata un biglietto scritto al computer, quando già la malattia ti aveva rubato la capacità di farlo a mano: “Alla mia sorella “preferita”, compagna di tante mie avventure e disavventure. Ciao, Gra”.
Con quel “ciao” già mi anticipavi il distacco. Le avventure e le disavventure si sono distribuite lungo l’arco di tutta una vita, concentrandosi in modo ostinato proprio nel periodo della tua malattia, quando era divenuta una vera missione la mia: accompagnarti per mano verso la guarigione.
Non avevo assolutamente messo in conto che tu invece potessi morire e, quando è successo, me ne sono fatta una colpa, perché, pur avendoci creduto fino in fondo, non ero riuscita a salvarti. Come se non lo avessi voluto abbastanza o non fossero stati sufficienti la determinazione, la rabbia, l’impegno. Stavi morendo e io non ci volevo credere, non ci pensavo proprio e me ne andavo in giro per mezza Italia con i risultati delle tue analisi che parlavano chiaro, anzi gridavano che stavi morendo, mentre io non lo avevo capito, forse perché non lo volevo capire.
Me lo disse Rossana, in un pomeriggio di Agosto. Anche a lei avevo chiesto di far vedere i risultati ad un luminare di sua conoscenza. Avuta la risposta, mi venne a prendere e mi portò in montagna, senza che durante il viaggio avessimo il coraggio di scambiare una parola. Poi, in un silenzio assordante e mentre il mio cuore era in tumulto, lei fermò la macchina in una radura e mi disse: “Lu’… Grazietta muore!”. Piangemmo insieme, a lungo, ma io non mi fermai.
A Milano, dove per anni a cadenze regolari ti avevo accompagnata a fare le visite di controllo, andai da sola, perché tu non potevi più muoverti, solo per ricevere come risposta uno sguardo compassionevole e rassegnato.
Ci aveva fatto bene sperare la cura dell’I.E.O. di Milano ed ostinatamente prendevamo quel vagone letto delle 24,20 a Chiusi: io e te, sole alla stazione, ad un’ora così insolita, cercando riparo dal vento dietro la colonna del binario numero due. E, quando arrivava il treno, avrei voluto sollevarti con tutte le mie forze, vedendo quanto difficoltoso fosse per te salire quei tre gradini  ed avendo timore che nel ripartire gli scossoni ti potessero far cadere nel tratto per raggiungere le nostre cuccette.
Ogni tanto mi chiamavi al telefono e mi dicevi: “Lu’…sono caduta!” ed a me, lontana quei pochi chilometri che diventavano una distanza siderale, non restava altro che farmi la consueta scazzottata con il destino e rimanere con l’amaro in bocca e la morte nel cuore.
E intanto la malattia ti depredava via via delle virtù più belle: dei capelli corvini, della voce che sapevi così ben modulare nel canto, delle mani che adoperavi con destrezza ed arte, delle gambe che ti avevano fatto correre per essere presente ovunque ci fosse bisogno di te, fino ad arrivare a rubare i tuoi splendidi quarantaquattro anni.
Mi domando se approveresti ciò che sto facendo, ossia andare a rimuginare tutto questo solo per ricavarne dolore. Mi accorgo che di te mi sono rimasti quasi soltanto i ricordi più terribili e devo fare un grande sforzo per ricordare altro. Ma questo sforzo merita di essere affrontato, perché non posso certo ignorare i momenti belli del nostro viaggio lungo la vita.

Lucia Romani*


*Lucia Romani vive e lavora ad Abbadia San Salvatore (SI). Con questo post inizia la sua collaborazione al blog. La ringrazio. 







venerdì 27 gennaio 2017

Jendu vinendu10: Trump-Provolo-Amato

Donald Trump
Diabolico Trump! Si è insediato solo da pochi giorni ed ha già costruito il muro di separazione con il Messico! La cosa è venuta fuori quando un gruppo di dimostranti, con tanto di bandiere al vento e cartelloni di protesta, si è diretto dalla California verso il confine per manifestare, protestare e scassare tutto secondo le migliori tradizioni della sinistra-gauche-left-izquierda, e, toh!, ha trovato il muro già costruito. Sconcerto, incredulità, rabbia e infine una rapida ricerca su Wikipedia per sapere come stavano effettivamente le cose. E’ saltato fuori che il muro esisteva già dal 1994, che l’aveva costruito Bill Clinton e che Trump voleva e vuole solo ultimarlo.
Allora con chi se la prendeva il gesuita-peronista-sinistrista Jorge Bergoglio quando, alla vigilia delle presidenziali americane, si opponeva a chi aveva intenzione di costruire muri invece di costruire ponti? Nel 1996 lo scrittore sudamericano Alvaro Vargas Llosa scrisse un famoso pamphlet, Manuale del perfetto idiota di sinistra latino americano. Per caso aveva conosciuto Bergoglio e si ispirava a lui?

Francesco Provolo
Non so se sapete chi è Francesco Provolo (mai nome fu più azzeccato). Bene. Trattasi di Sua Eccellenza (così vengono ancora chiamati i prefetti nell’Italia repubblicana) l’illustrissimo Signor Prefetto di Pescara Francesco Provolo, ovvero il diretto superiore della funzionaria improvvisatasi centralinista-modello, che ha ritenuto una bufala le disperate richieste di soccorso per l’Hotel Rigopiano, arrivando perfino a deriderle.
Prima di Pescara era in carica a Rovigo. Qui (riprendo i dati dal sito Imola oggi) i suoi meriti sono stati quelli di aver inaugurato la strategia dei centri d’accoglienza piazzati a macchia di leopardo in minuscoli paesini del Polesine e di aver ordinato la requisizione del famoso hotel di Ficarolo, con susseguenti proteste della popolazione. Poi, purtroppo, lo hanno mandato a far danni a Pescara.
Ponete un po’ mente alla filiera di comando. La signora X, funzionaria di cui ignoriamo il nome perché è protetta dai superiori, ha sopra di sé il prefetto Francesco Provolo (bisogna ricordarselo questo nome), che certamente ha fatto carriera sotto il ministro Angelino Alfano, che aveva come capo del governo Matteo Renzi, che a sua volta aveva come punto di riferimento il Presidente Sergio Mattarella. Con questi genî politici e amministrativi del nostro sgangherato e sfortunato Paese i risultati non potevano che essere i 29 morti dell’Hotel Rigopiano.
Un’ultima annotazione. I responsabili dell’attuale tragedia gridano che  dobbiamo essere uniti nei momenti di difficoltà. Bisogna ricordare che, all’epoca del terremoto dell’Aquila nel 2009, l’opposizione PD delirava e sbavava contro Bertolaso, capo della Protezione Civile, ed organizzava i “carriolanti”, che fingevano di raccogliere con le carriole le macerie del terremoto, creando non pochi problemi ed inveendo contro Berlusconi, che invece (secondo loro) pensava solo a ricostruire le case. Orbene quell’invito va rispedito al mittente per un solo motivo: perché è semplicemente stomachevole.

Giuliano Amato
Il nome di Giuliano Amato forse dice poco ai giovani di oggi,  ma per coloro che hanno molti ricordi (come me, purtroppo) quel nome evoca molte sensazioni. Giuliano Amato fu tra gli esponenti di spicco del Partito Socialista all’epoca di Bettino Craxi ed in tale veste egli ricoprì molti incarichi: fu suo uomo di fiducia, Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, Ministro del Tesoro e, quando Craxi fu costretto a riparare in Tunisia a causa delle note vicende giudiziarie, fu il suo naturale successore, ricoprendo per ben due volte la carica di Presidente del Consiglio. Questo comunque non gli impedì di disconoscere il suo capo, talché, quando Craxi morì “in esilio” nel 2000, egli ritenne opportuno  e conveniente (per lui) non partecipare ai funerali ad Hammamet. In seguito egli ha abbandonato la politica attiva, ma non l’esigenza di cumulare cariche, per cui negli ultimi tempi è stato Presidente dell’Istituto Treccani ed attualmente è giudice costituzionale, non disdegnando, presumo, futuri incarichi, nel caso gli dovessero essere offerti.
Attualmente è ufficialmente in pensione e, in tale veste, ha un triste primato: l’INPS gli corrisponde varie pensioni, per un ammontare complessivo di circa 32 mila Euro mensili, suscettibili di aumento, man mano che gli incarichi e gli emolumenti si accumulano.
Pare che nei giorni scorsi sia stato decisivo un suo intervento come giudice costituzionale, per dirimere i problemi relativi al “Consultellum”, come in gergo è chiamato l’ultimo sistema elettorale partorito dai nostri legislatori. Inutile dire che il “Consultellum” fa acqua da tutte le parti e quasi certamente avrà bisogno di ulteriori ritocchi.
Diceva Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. Io, più modestamente, dico: “Beati i popoli che non hanno bisogno di personaggi come Giuliano Amato”.
Ezio Scaramuzzino


mercoledì 25 gennaio 2017

Come è cambiata la TV di Franco Federico


      Papa Bergoglio ha affermato che le televisioni dei giorni nostri preferiscono orientarsi verso le cose brutte, perché queste non annoiano come le cose belle. Il che - a ben considerare - è dato riscontrare in non pochi degli odierni programmi televisivi, qualcuno dei quali come, per fare un esempio, “Undressed”, appare tanto bizzarro quanto assurdo: in ogni sua puntata un uomo e una donna, sconosciuti l’uno all’altra, si spogliano e si mettono a letto, per capire nell’arco di una mezz’ora se fra loro scocca l’amore. Nemmeno “Grande fratello” era riuscito a banalizzare in questi termini la delicatissima e complessa fase dell’innamoramento, riducendo il fattore-attrazione tutto alla mera sfera fisico-sessuale. È proprio il caso di ritenere che oggi si viva in un nuovo medioevo, in cui regna ormai sovrana la confusione e si è perso ogni riferimento etico.
       Ma la bruttezza di cui parla Papa Francesco è arrivata a diffondersi persino nei telegiornali, non pochi dei quali, pur di attrarre un quanto più elevato numero di spettatori, finiscono con l’assecondare la più becera forma di curiosità, mettendo in prima pagina, ovvero dandole come prime notizie, quelle che riguardano i fatti più efferati di cronaca nera. E, per sollecitare la morbosa curiosità di coloro che risultano più appassionati a tale genere di notizie, sono nati degli appositi programmi, in cui il fattaccio è setacciato da ogni punto di vista come in un’aula di tribunale. Proprio in questi giorni è intervenuto il notissimo personaggio dello spettacolo Fiorello, il quale molto giustamente si è lamentato di siffatte trasmissioni televisive che vanno a snocciolare i più gravi episodi di cronaca nera, oltretutto in orario pomeridiano. Detti programmi, indubbiamente, sono figli della selvaggia concorrenza che tra una rete televisiva e l’altra è venuta a scatenarsi dalla nascita delle tv commerciali in poi.
    Anche “Uomini e donne”, che va avanti ormai da 20 anni e che risulta devastante sotto il profilo (dis)educativo nei confronti delle nuove generazioni, non fosse per altro che per il fatto che inculca in esse l’idea che nel rapporto amoroso ciò che più conta sia la bellezza fisica, rigidamente intesa secondo i canoni impersonati dai protagonisti della trasmissione, quasi tutti palestrati e tatuati, va in onda in orario pomeridiano, così da intercettare soggetti molto giovani e, per lo più, di sesso femminile, notoriamente più sensibili a trasmissioni di questo tipo. Quanto possano importare gli effetti assolutamente negativi di questa trasmissione alla sua nota conduttrice, Maria De Filippi, il cui stare continuamente seduta su una scala in atteggiamento sornione bene simboleggia l’estrema pochezza del suo ruolo, o alla rete televisiva che da anni ormai la propone al pubblico dei giovanissimi, non si fa alcuna fatica a comprendere.
    Una sorte non migliore è toccata alla politica nel trattamento che della stessa è fatto dalle odierne televisioni, le quali, oltre che dedicarle uno spazio di gran lunga maggiore rispetto al più o meno lontano passato, ne offrono un’immagine non certo esaltante e tale da alimentare non poco il disinteresse già provato dai più verso la politica. Il format televisivo più in voga, per quanto riguarda la politica, è, come è noto, quello del talk show, presente in quasi ogni principale canale e la cui formula prevalente si basa non tanto sulla funzione informativa, ovvero sull’approfondimento analitico, quanto invece sulla spettacolarizzazione, nel senso che un politico, diciamo così di parte governativa, viene contrapposto ad un altro appartenente ad un partito di opposizione. Quanto più aspri nel corso della trasmissione si fanno i toni tra l’una e l’altra parte, tanto più si eleva il grado di spettacolarizzazione della trasmissione. Se si sconfina, poi, nella rissa vera e propria e volano parole forti e ingiuriose, vola anche lo share, ovvero l’indice di ascolto.
       Le prime volte assistere ad una bella litigata, basata tutta su parolacce ed offese personali, può anche divertire un po’; a lungo andare, tuttavia, lo spettatore meno sprovveduto finisce con lo stancarsi, considerato oltretutto che gli ospiti, spostandosi da un talk show all’altro, sono quasi sempre i soliti e che, gira e rigira, ripetono sempre le stesse cose.  Forse non tutti sanno che prendere parte ad un talk show dà diritto ad un gettone di presenza che varia tra i 1000 e i 2000 euro, per cui, i giornalisti che vi partecipano intascano belle sommette, che vanno ad aggiungersi a quanto già guadagnano attraverso il lavoro ordinario. Nel caso dei politici, le ospitate tv consentono un guadagno in termini di visibilità e di consenso: il caso più emblematico in tal senso è quello di Meloni, Salvini, Di Maio, Di Battista, ecc. i quali devono la loro grande popolarità proprio alle fittissime e quasi quotidiane ospitate televisive, oltre che alle abilità comunicative, basate su un linguaggio dalle tinte forti, talvolta volgare, che si pone in perfetta sintonia con gli istinti e la pancia della gente meno pretenziosa e più semplice che mai. A qualcuno come Renzi, che ha davvero esagerato in fatto di presenzialismo televisivo, è capitato l’effetto contrario, nel senso che ha suscitato verso di sé ampia antipatia e una reazione di vero e proprio rifiuto.
      Va fatto, infine, un riferimento a “Dalla vostra parte”, che si può tranquillamente definire una vera e propria “macchina da guerra”, dal momento che il suo scopo principale sembra essere quello di diffondere paura, allarmismo, intolleranza religiosa, rabbia, sfiducia nelle istituzioni, razzismo e quant’altro. Nel corso della trasmissione ci si collega con quella che impropriamente è chiamata piazza, ma effettivamente trattasi più o meno di “quattro gatti”, tutti casualmente dello stesso orientamento politico e di pensiero; e tra i suoi ospiti quasi stabilmente presenti figurano alcuni degli esponenti più “duri” della Lega Nord, come Marcato, o di Forza Italia, come Santanchè. In un paese “normale” programmi simili verrebbero fatti chiudere già dopo poche puntate, ma il sistema televisivo italiano, che al suo interno ha ormai da più decenni un’anomalia grande quanto una casa, non consente purtroppo un provvedimento del genere.
Franco Federico
    

     

lunedì 23 gennaio 2017

Nell’aria umida, poesia di Alfredo Giglio


Mentre mucido verde
Come muschio,
La fredda pietra
Di muri annosi avvolge,
Nell’aria tetra
Che spande odor di pioggia,
S’ode soltanto
Un brontolar di roggia
Al par d’un mesto pianto.
Un raggio di sole,
Pallido e malato
Par che  si dolga
Tra  nubi furibonde
E dietro a queste
Più timido s’asconde.
Un vento umido e caldo
Spinge nei viali d’una città,
Ch’odora di vecchiume
Ogni sorta
Di resti di pattume.
M’aggiro
Come spettro solitario
Per vie deserte,
In attesa del gelo dell’inverno
Che la carne trafigge 
E l’ossa mi distrugge.
Così,  
I miei pensier seguendo,
Sento ch’il cor più non m’aita
Perché  su me già incombe
L’inverno della vita.
  
Alfredo Giglio*

*Alfredo Giglio, poeta e scrittore crotonese, con questa poesia inizia la sua collaborazione al blog. Lo ringrazio.




sabato 21 gennaio 2017

Era Trump, anno I°

Il 20 gennaio, con il giuramento alla Casa Bianca, è iniziata ufficialmente l’era Trump. Ovviamente è ancora presto per esprimere un giudizio, ma le sue prime mosse lasciano sperare bene. Mi limito, a mo’ di esempio, ad un solo fatto significativo. Trump prenderà lo stipendio simbolico di un dollaro all’anno, il che, nei tempi dell’antipolitica, è una mossa indovinata. Mi ricorda un po’ il nostro Mario Monti, il quale, per fare il Presidente del Consiglio, pretese e ottenne preliminarmente da Napolitano di essere nominato senatore a vita, in modo da farsi mantenere vita natural durante dal popolo italiano. E’ vero: Trump è già ricco di suo, ma non so quanti altri al posto suo avrebbero fatto la stessa cosa. Quanto ad un altro personaggio che per alcuni aspetti gli somiglia, Silvio Berlusconi, durante la sua lunga Presidenza non è mai stato chiaro che cosa abbia fatto in merito, ma ritengo che con la sua “discesa in campo” (come egli la definiva), alla fine egli ci abbia rimesso, tra sovvenzioni al partito, condanne e risarcimenti miliardari impostigli dal partito dei giudici e da quella che, solo per convenzione, siamo soliti chiamare la “giustizia italiana”.
Ovviamente un politico non si può giudicare solo da questo e nel caso di Trump staremo a vedere quel che saprà fare. Intanto la sua elezione può essere considerata una sorta di pernacchia (o pernacchio?, come diceva Eduardo De Filippo) al trombonismo e al paraculismo universali e questo è già qualcosa. Trump ha dimostrato che si può essere eletti Presidente degli Stati Uniti, facendo una pernacchia
- a George Soros, il miliardario americano di origini ungheresi e suo acerrimo nemico, che fa miliardi a palate speculando ogni giorno sui mercati finanziari, ma dicendo un giorno sì e l’altro pure che bisogna aiutare i diseredati del mondo;
- a Barack Hussein Obama, che ha avuto il premio Nobel per la pace sulla fiducia, ma che tra tutti i Presidenti americani è quello che detiene il record per numero di bombe disseminate e lanciate in molte aree del mondo, mentre ogni giorno rivendica (anzi rivendicava) il suo anelito alla diffusione della libertà e della giustizia per tutti i popoli della terra;
- a Hillary Clinton, corrotta ed incapace ex Segretario di stato, che si atteggiava a paladina del politicamente corretto e dei diritti delle donne, sempre pronta a bacchettare Trump durante la campagna elettorale, ma incapace di vedere quel che accadeva a casa sua, quando suo marito Bill, da lei perdonato, passava il tempo alla Casa Bianca facendosi fare p…… da Monica Lewinsky;
- al bel mondo hollywoodiano magnificamente rappresentato da Robert De Niro e Madonna, i quali sostenevano che, in caso di vittoria di Trump, avrebbero cambiato nazione e invece sono sempre lì, ad imprecare ed a cercare di fare soldi, come prima, meglio di prima;
- al mondo dell’editoria e della TV, magnificamente rappresentato rispettivamente dalla grande stampa cosiddetta “progressista” (“liberal” negli USA, vedi Washington Post) e dalla Cnn, che consideravano Trump un impresentabile  e che non riuscivano a capire, nella loro cecità, che di impresentabile c’era solo la faziosità dei loro servizi;
- al tradizionale mondo politico americano, che vedeva accomunati, in un unico intento, democratici e repubblicani, senza più alcuna distinzione  sul piano pratico, per cui un Bush poteva disinvoltamente essere scambiato con un Clinton e viceversa;
- al mondo politico (poteva mancare? ) che gravita intorno all’UE, quello che fa riferimento a personaggi come Angela Merkel, François Hollande, al nostro caricaturale Matteo Renzi, quel mondo che fa i gargarismi ogni giorno con belle parole tipo “accoglienza diffusa, bontà, integrazione”,  che ancora non si è ripresa dal colpo della Brexit e che inorridisce quando Trump dice che vuole sterminare il terrorismo islamico.
 A questo gagliardo mondo si potrebbe ancora aggiungere molto altro, come il mondo della contestazione permanente, dei Black bloc, dell’LGBT(Lesbian, Gay, Bisexual, Transexual), del no a tutto, del femminismo arrabbiato e professionale. Ma di tutto questo si può anche non tener conto, trattandosi di un mondo folkloristico e sempre più prevedibile e scontato, che ormai fa quasi parte del paesaggio.
Ecco, l’elezione di Trump è stata quasi una pernacchia (o pernacchio?) a quel mondo sopra elencato. Solo per questo valeva e vale la pena di continuare a vivere per vedere come va a finire e per assistere al dilagare della bava che fuoriesce dai denti di tutti quelli che ancora non riescono a rassegnarsi. 
Bene. Per il futuro staremo a vedere, ma già tutto questo vi sembra poco?
P.S. Per chi volesse approfondire, nel film L'oro di Napoli Eduardo De Filippo spiega il pernacchio.  Vedi qui

Ezio Scaramuzzino

mercoledì 18 gennaio 2017

Jendu vinendu9: Attianese-Fedeli-Tajani-Minniti


Pasquale Attianese
Notizia  boom a Crotone: Pasquale Attianese tratto in arresto perché considerato, addirittura, il capo di una banda di tombaroli che  trafficavano nella vendita clandestina di reperti archeologici.
Con  Pasquale Attianese ho avuto una certa frequentazione professionale, che nel corso di tanti anni mi ha consentito di conoscerlo bene. Pasquale Attianese era, ed è, il massimo esperto di archeologia magno-greca dell’Italia meridionale, perito del Tribunale di Crotone, docente di Latino e Greco, autore di vari testi sulla numismatica magno-greca e sull’archeologia nella provincia di Crotone. Sono convinto che riuscirà a dimostrare la sua estraneità ai fatti contestatigli. 
Gli inquirenti parlano di intercettazioni telefoniche. Pasquale era, ed è, un estroverso, solo un po’ spensierato ed incline a prendere sotto gamba certe situazioni. Immagino che, se qualcuno per telefono gli chiedeva un consiglio, lui non si tirava indietro e magari gli poteva anche capitare di parlare a ruota libera. Ma da questo a passare per capo di una banda di malfattori ce ne corre.
E poi conosco Pasquale anche sotto altri aspetti. Siamo stati colleghi per tanti anni e ricordo bene le sue difficoltà, quando aveva qualche spesa imprevista o quando doveva cambiare gli pneumatici dell’auto. Insomma: cerco di stare con i piedi per terra e mi è difficile pensare al capo di una banda che ha problemi quando deve andare dal gommista.
Caro Pasquale, ti aspettiamo, non per una cena, ma per una pizza, che è uno dei pochi lussi che ancora possiamo permetterci con le nostre pensioni. Ciao, a presto.

Valeria Fedeli
Di Valeria Fedeli ormai sappiamo tutto o quasi. Al momento della sua nomina a Ministro dell’Istruzione, Università e Ricerca, il grosso pubblico sapeva poco di lei, ma tutti erano convinti che, chiunque essa fosse, non poteva certo far peggio dell’accoppiata Giannini-Faraone che l’aveva preceduta. E invece lei c’è riuscita; probabilmente ci ha dovuto mettere un po’ di impegno, ma c’è riuscita: con i falsi curriculum, le sue mielose giustificazioni e la sua falsa laurea. Ora però, passata la tempesta, ci ha preso gusto e, approfittando della  delega prevista dalla “Buona scuola”, vuole riformare gli Esami di stato. Alla Maturità niente più minimo sei in tutte le materie, basterà la media del sei, che è cosa ben diversa; niente più quizzone, le prove scritte saranno due; niente più tesina, basterà aver fatto l’alternanza scuola-lavoro (una vera perdita di tempo) ed aver partecipato (non superato, partecipato) alle prove Invalsi, finora facoltative. Alla terza Media abolizione della prova Invalsi e riduzione degli scritti.
Quando scoppiò il caso della laurea inesistente, sui social si disse che nel nostro Paese, per fare il Ministro dell’Istruzione, bastavano la Licenza Media e l’iscrizione al PD. Non è che per caso, per superare la Maturità, si arriverà allo stesso punto?!

Antonio Tajani
Antonio Tajani è stato eletto Presidente del Parlamento europeo. Siamo contenti per lui e siamo contenti anche per l’Italia, che così raggiunge un trittico di presenze importanti dalle parti di Bruxelles (Tajani, Mogherini, Draghi). La stampa di riferimento ha salutato l’elezione con toni commossi e trionfalistici, considerandola l’inizio di una ripresa continentale delle istanze moderate. Ci andrei un po’ cauto. Tajani, a quel che se ne sa, è una brava persona. Tra i fondatori di Forza Italia, è sempre rimasto vicino a Berlusconi, il che costituisce un titolo di merito se solo si pensa a quel che è avvenuto negli ultimi venti anni intorno al Cavaliere, e quindi, solo per questo, bisognerebbe dare un premio alla sua lealtà. Ma, a parte questa lealtà, non risultano altre particolari benemerenze dell’uomo politico. Staremo a vedere, ma da questa elezione esce confermata una tendenza, che sembra consolidarsi nel corso degli anni. Quella di assegnare all’Italia, in ambito europeo, incarichi di facciata, più che di sostanza. A parte il caso di Mario Draghi, che dirige la BCE, Federica Mogherini, alto rappresentante dell'Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza (mai definizione fu più altisonante e più vuota), si ritrova a dirigere una politica estera che in realtà non esiste ed Antonio Tajani avrà il compito di moderare i dibattiti di un Parlamento che non conta nulla, o quasi. Del resto tutto si tiene. I nostri rappresentanti sono l’espressione di un’Italia che, con il suo mostruoso debito pubblico, ormai conta poco o niente e che viene trattata come e per quello che conta.


Marco Minniti 
Marco Minniti è il nuovo Ministro dell’ Interno e, da quando è stato nominato, si respira un’aria nuova al Viminale. Si ritorna a parlare di CIE, Centri di identificazione ed espulsione,  una volta innominabili a Sinistra,  e di maggiore celerità ed efficienza nell’iter di attribuzione del diritto d’asilo e nelle espulsioni dei non aventi diritto. Parole? Vedremo. Minniti è Calabrese ed ha la testa dura, per cui penso che non si rassegnerà facilmente e non getterà la spugna, prima di aver tentato tutto il possibile. Oltre tutto è  abituato ad agire in modo riservato e parla poco, a differenza di Renzi  e di Alfano che l’ha preceduto, per cui in genere non promette ciò che poi ritiene di non poter mantenere. Se una cosa gli manca, a mio modesto parere, è una visione complessiva dei problemi e del contesto in cui si trova ad operare. Lo sa Minniti quello che lo attende? Conosce le incrostazioni, gli interessi, gli intrallazzi contro cui gli toccherà muoversi?
Perché c’è qualcosa di pateticamente tragico in questo nostro sgangherato Paese. L’Italia ha milioni di cittadini che vivono sotto la soglia di povertà, eppure…eppure questo nostro sgangherato ed amato Paese si è messo in testa di risolvere i problemi di assistenza dell’universo mondo. Cerca clandestini dappertutto, li trasporta, li accoglie, li paga anche, perché stiano buoni. Per ora si limita all’Africa ed al Medioriente. Ma perché limitarsi? Ammesso che ci riesca, perché non andare a raccogliere quelli dell’Asia, dell’America latina, del pianeta Marte pure, se ce ne sono? Perché i primi sì e gli altri no? La bontà o è totale o non è.
Capito Minniti? Bastera un CIE per ogni Regione? O ce ne vorrà uno  per ogni Comune? Auguri, Minniti, ne hai bisogno.
Ezio Scaramuzzino

martedì 17 gennaio 2017

Principali linee guida di didattica del Latino di Franco Federico

      

      E’ nel periodo ginnasiale e durante il biennio del Liceo Scientifico che si costruisce l’abilità del tradurre. Questi primi passi dello studio risultano decisivi non solo per favorire l’insorgere nello studente di un giusto atteggiamento nei confronti del Latino, ma anche per orientare in un senso o nell’altro l’andamento del profitto. E’ dalle modalità del primo approccio con la lingua latina che discendono l’interesse, la motivazione e la sensazione di agiatezza dello studente. Nel caso contrario, viene a determinarsi il cosiddetto blocco psicologico che, nella maggior parte dei casi, abbassando nettamente il senso di autostima provato dallo studente nei confronti della disciplina, finisce di fatto con l’inibire ogni suo futuro miglioramento.
       Seguire pedissequamente l’impianto del libro di testo, se, da una parte, può risultare rassicurante e deresponsabilizzante, dall’altra, finisce a lungo andare col distogliere l’attenzione e l’interesse dello studente, facendo nel contempo apparire agli occhi di questi il docente come privo di alcuna rilevanza sotto il profilo didattico. Il libro, quand’anche sia provvisto di ogni pregio, non risulta certamente in grado, come invece può e deve fare il docente, di adattarsi al ritmo di apprendimento e alle necessità proprie di questo o di quel discente. Al docente spetta, altresì, procedere a quel lavoro di dosaggio e di essenzializzazione delle regole e delle nozioni grammaticali, che è assolutamente indispensabile nello studio di una lingua così complessa, come quella latina. Ove la molteplicità delle nozioni venga, infatti, a riversarsi sulla mente del povero discente, senza che le stesse siano state preliminarmente selezionate ed organizzate in base a ben precisi criteri di efficienza didattica, ciò inevitabilmente determina nel ragazzo l’effetto di un rigetto, ovvero di un rifiuto bell’e buono delle medesime. I docenti che vantano una lunga esperienza sanno bene quanto sia importante mettere su un percorso di lavoro ben studiato, fortemente coerente e dalla struttura quanto più semplificata. 
      Nel “fare Latino” con i ragazzi che si siano impratichiti già dell’antica lingua, invece, la cosa più importante di tutte è cercare di suscitare in essi interesse per l’opera della quale vengono letti in classe i brani più rappresentativi. Un ruolo decisivo il docente lo svolge, nel momento in cui è alle prese con la scelta dei brani da far leggere ai propri discenti e delle modalità secondo cui presentare gli stessi. Se i brani sono stati scelti in modo da adeguarli bene alla sensibilità degli studenti a cui sono destinati, non si può non suscitare negli stessi grande meraviglia nel constatare quanto attuali siano i temi affrontati in opere così antiche e quanto risultino profonde le verità espresse da Autori di epoche così lontane dalla loro. E tra l’attenzione indirizzata al piano critico-ideologico di un testo e quella che è opportuno rivolgere agli aspetti stilistico-formali di fatto non viene a determinarsi alcuna opposizione; anche se da parte delle ultime generazioni sembra manifestarsi una maggiore propensione per gli aspetti di contenuto.
         Quanto ai cosiddetti “compiti in classe”, va detto che non sempre allo studente è dato cogliere la logica attraverso la quale gli stessi si colleghino alle restanti attività della stessa disciplina. Quel che si riesce facilmente a comprendere è che i compiti si devono fare, perché così è prescritto da una qualche norma. Nella scelta dei brani idonei ad una prova scritta di Latino, due sono i criteri attraverso i quali detti compiti possono trovare una loro legittima collocazione, ovvero concatenarsi a tutto il resto. I brani per lo svolgimento del compito si possono trarre dall’opera che si sta già procedendo a leggere e ad analizzare in classe; oppure i brani possono riferirsi alla struttura grammaticale o all’insieme di strutture grammaticali il cui esame sia stato da poco ultimato. Non ha senso provvedere a questa così delicata scelta in modo illogico e disordinato, ovvero del tutto casualmente.
        Nel tentativo di adattare il grado di difficoltà propria del brano alle abilità traduttive dello studente, bisogna considerare non tanto la complessità linguistico-grammaticale del brano, quanto in particolar modo la semplicità o meno dell’argomento in esso affrontato. Insomma, a facilitare la traduzione di un brano è, molte volte, più il suo contenuto che la sua forma. E certamente è per il docente un compito alquanto arduo quello di scegliere i brani di una prova di verifica: in più di un caso, il diffuso esito negativo di una prova è da ascriversi al docente che non è riuscito ad adattare le difficoltà del brano assegnato al livello abilitativo dello studente, nel senso che è venuta a crearsi una netta sproporzione tra l’una e l’altra cosa. Ma può capitare anche il contrario: che cioè il brano o i brani risultino troppo al di sotto delle capacità di traduzione dello studente, per cui si viene a compromettere a priori la funzione accertativa della prova.
      Le verifiche orali di Latino, alla pari di quelle di qualunque altra disciplina, dovrebbero essere tali, da far conoscere in anticipo agli studenti le modalità di svolgimento delle stesse. Tanto più ampia e particolareggiata è la verifica orale, quanto più si amplia l’orizzonte dell’accertamento che è operato attraverso la medesima. Oggi, si va, purtroppo, diffondendo la verifica-questionario che, piuttosto che affiancarsi a quella orale, esclude tanto ineluttabilmente quanto sbrigativamente quest’ultima. Che dire, poi, di quei docenti che basano tutta la valutazione sull’esito dell’ultimo compito scritto o su qualche “domandina dal banco” che bisogna avere la “fortuna” di riuscire ad intercettare. Il fatto che di queste dolenti ed alquanto detestabili situazioni i dirigenti rimangano, in molti casi, completamente all’oscuro non fa che legittimare la sempre maggiore diffusione di dette detestabili pratiche, specie in realtà come le nostre in cui le famiglie o non sanno come difendersi o temono omertosamente di aggravare le cose a rivendicarne da sole l’abolizione. Sta di fatto che non pochi sono i ragazzi che a fine anno si buscano il debito proprio in questo modo. 
       Riguardo ai “Corsi di Recupero” - sia quelli tenuti durante l’anno scolastico, che quelli del periodo estivo -, contrariamente a quanto sarebbe stato naturale aspettarsi, in pochissimi istituti è stata fino ad oggi realizzata alcuna seria iniziativa, volta a sviluppare un minimo di ricerca sui modi più efficienti di organizzarli. Per cui, nella maggior parte dei casi, accade che agli studenti col debito sia propinata la stessa pappardella e che a propinargliela siano proprio i docenti che si possono oggettivamente considerare, se non del tutto responsabili, quanto meno corresponsabili di detto debito. Tant’è che le famiglie, preso contezza di questa triste contraddizione, si trovano, loro malgrado, costretti a provvedere a proprie spese alla soluzione del debito del figlio. Quel che è certo è che sarebbe opportuno disegnare itinerari ben calibrati sotto ogni punto di vista, in modo da rispondere a ciascuna situazione di bisogno nella quale venga a trovarsi lo studente di una classe e dell’altra.
Franco Federico

    


sabato 14 gennaio 2017

La post-verità: da Ponzio Pilato a Bello Figo

Il  Vangelo (Giovanni 18,38) ci fa sapere che Ponzio Pilato concluse il suo dialogo con Gesù chiedendogli: “Quid est veritas?”, “Che cos’è la verità?” e che, senza dargli il tempo di rispondere, si rivolse alla folla. Pilato è in quel momento il simbolo dell’uomo che, pur ricercando la verità, dispera di trovarla, perché sa che la verità non esiste e che, se anche esiste, egli non può conoscerla.
La ricerca della verità aveva già in precedenza affascinato la mente dei filosofi greci. I Sofisti avevano detto che la verità non esiste, perché l’uomo è la misura di tutte le cose, e quindi esistono tante verità per quanti uomini respirano sotto la volta celeste. Sulla loro scia anche Socrate aveva fatto della ricerca della verità il fulcro della sua ricerca filosofica, mentre Platone era l’unico che si diceva convinto di essere in possesso della verità, la sua verità, talché Aristotele, pur dichiarandosi suo amico, ne prendeva le distanze (Amicus Plato, sed magis amica veritas).
Così in seguito nel corso dei secoli, da Tommaso d’Aquino a Cartesio, da Locke a Popper, da Einstein a Pirandello, è stato tutto un susseguirsi di ricerche e di effimere conclusioni sulla ricerca della verità e sulla possibilità di conoscerla.
Ed oggi come siamo messi? Nel mese di Novembre  2016 l’Oxford English Dictionary ha deciso di eleggere “post-truth” (post-verità) come parola dell’anno e da allora è tutto un tripudio di discussioni e  polemiche su questa magica parola.
La post-verità è diventata di moda, sui social, nella carta stampata e nel mondo variegato che gravita intorno alla politica, soprattutto dopo la Brexit, la vittoria di Trump e la vittoria del NO nel referendum in Italia. Il suo significato ha una connotazione chiaramente negativa e, nelle intenzioni di coloro che l’hanno lanciata e la usano continuamente, ha ormai assunto il significato di falsa notizia, bufala (fake news).
Sostengono infatti quelli della compagnia di giro che certe vittorie politiche, certi risultati referendari sono talmente inconcepibili ed assurdi da potersi spiegare solo con una sorta di obnubilamento generale che avrebbe offuscato la coscienza e la mente degli elettori, in seguito alla diffusione massiccia ed incontrollata di false notizie, ritenute vere.
Sono disperati quelli della compagnia di giro. Una volta bastava diffondere le loro notizie sul Guardian, su Le Monde, su Repubblica, sul Corriere, sul Financial Times, su qualche canale televisivo (e la RAI si distingueva per zelo); bastava ogni tanto l’esternazione di qualche attore o di qualche cantante, quasi tutti con il cuore a sinistra ed il portafoglio a destra; bastava qualche esternazione di Papa Bergoglio e dell’ormai ex Presidente Hussein Obama; bastava l’esternazione di qualche ambasciatore o di alcuni di coloro che piacciono alla gente che piace: il gioco era fatto e la partita era chiusa.
Negli ultimi tempi però si è verificato un fatto forse inaspettato, il boom della Rete, di Internet, dei Social Network, che hanno consentito di far conoscere una verità parallela a quella diffusa dalla compagnia di giro e che ha consentito il realizzarsi di una famosa frase di Antonio Gramsci, seppur formulata allora con altri intenti, e cioè che la verità è sempre un fatto rivoluzionario, talché nel mondo dell’informazione sta nascendo una vera e propria rivoluzione.
Sono disperati quelli della compagnia di giro, perché non riescono più a controllare pienamente il flusso delle notizie, perché si accorgono che il controllo delle coscienze sta loro sfuggendo di mano. La realtà non è più quella che essi sostengono? Peggio per la realtà, perché essi sono nel vero. La gente non crede più alle loro scemenze? Peggio per la gente, perché sarà portata alla rovina.
Ma non si rassegnano quelli della compagnia, non si danno pace e da un po’ di tempo  incominciano a dare segni evidenti di delirio. Ogni tanto se ne escono con commissioni che dovrebbero controllare le notizie, con organismi che dovrebbero sorvegliare i grandi social network, per ammonire, per consigliare, e infine per reprimere. Con le loro proposte fanno venire in mente quello che George Orwell raccontava nel suo famoso romanzo 1984. Lì lo scrittore inglese prevedeva l’avvento di un regime che avrebbe istituito il Ministero della Verità, un Ministero che quotidianamente avrebbe informato i cittadini su ciò che era vero e ciò che era falso, su ciò che si poteva o non si poteva dire, sulle parole che si potevano o non si potevano usare.
Ma quello che comunque squalifica gli esponenti della compagnia di giro non sono tanto le farneticazioni su ipotetiche proposte e realizzazioni da attuarsi in futuro, li squalifica già abbondantemente quello che hanno già detto, fatto e realizzato nel passato.
Loro sono quelli che una volta sostenevano che il Socialismo avrebbe portato il Paradiso in terra. Ed ancora oggi sono quelli che dicono in giro che in Italia non esistono clandestini, perché gli immigrati sono tutti profughi che scappano dalla guerra; che i clandestini sono il futuro dell’Italia, perché fanno i lavori che gli Italiani non vogliono più fare e quindi ci pagano e ci pagheranno le pensioni; che l’Islam è una religione di pace e che il terrorismo islamico non esiste; che Bello Figo rappresenta il futuro dell’arte e della musica italiana (vedi Gad Lerner); sono quelli che sognano sindaci africani (vedi Roberto Saviano).
C’è bisogno di aggiungere altro?
Ezio Scaramuzzino

mercoledì 11 gennaio 2017

Israele e l'Occidente

Ancora morti e feriti in un attentato terroristico a Gerusalemme, l’ultimo l’8 Gennaio scorso, come a Berlino, come a Parigi, come ad Istanbul, in una sequenza di lutti e di sofferenze che sembra non aver mai fine. Certo, non è la prima volta che il terrorismo islamico colpisce e quelli di Gerusalemme non sono i primi morti e certamente non saranno gli ultimi di questa scia di sangue, che è sempre più intollerabile e che sembra voler diventare sempre più una parte ineliminabile del nostro vivere quotidiano.
Pare che l’attentato sia da attribuire all’ISIS, non ad Hamas, non ai Palestinesi, ma questo non cambia la sostanza delle cose. C’è un di più di angosciante, di straziante in queste notizie, quando esse arrivano dalla terra d’ Israele: angoscia e strazia l’ululato animalesco dei musulmani che festeggiano e che offrono pasticcini ai passanti nella striscia di Gaza. Le immagini del camion che si lancia sui soldati si alternano a quelle dei morti riversi sulla strada e a quelle degli attivisti di Hamas che alzano le dita in segno di vittoria.
E poi non ci si indigna più di tanto per questi atteggiamenti, o almeno non ci si indigna più di quanto si possa fare per il freddo dell’Inverno o per una calamità naturale che colpisca all’improvviso. La ferocia di queste persone fa ormai parte del paesaggio, è un dato della natura, come il sorgere del sole o il precipitare della pioggia. Bisogna rassegnarsi, prenderne atto, difendersi, contrattaccare senza esitazione, con la consapevolezza che, purtroppo, la lotta sarà lunga e di non facile soluzione.
E c’è ancora altro che sgomenta e che indigna e questo altro è rappresentato dal silenzio o al più dalle parole di circostanza dell’Occidente dinanzi a simili abominî. Ma perché l’Occidente tace e, invece di difendere Israele, favorisce il delirio antisemita all’Unesco, sostenendo che il Muro del Pianto non ha nulla a che vedere con l’Ebraismo, oppure condanna Israele sostenendo che gli insediamenti a Gerusalemme (a Gerusalemme, non in Cisgiordania) sono illegali? Perché l’Occidente tace anche di fronte alle stragi?
L’Occidente, purtroppo, non è nuovo a questi atteggiamenti vili e pilateschi. La memoria va al 1938, alla conferenza di Monaco, alla vigilia della Seconda Guerra Mondiale. In quella circostanza Francia ed Inghilterra (l’Occidente di allora), impaurite, sacrificarono il destino della Cecoslovacchia alle voglie di Hitler. Lo fecero, così sostenevano, per salvare la pace, talché si può dire, con le parole di Winston Churchill, che esse potevano scegliere tra l’onore e la guerra da una parte e il disonore e la pace dall’altra: scelsero il disonore ed ebbero poi ugualmente la guerra. Ma esse, così sostenevano, l’avevano fatto per la pace.
Oggi Israele sembra diventata come la Cecoslovacchia del 1938 ed appare come l’agnello che l’Occidente impaurito è disposto a sacrificare per salvare i suoi rapporti con il mondo dell’Islam. Con una differenza fondamentale, però. Che nel 1938 l’Occidente si preoccupava di mantenere la pace, ritenendola, anche se a torto, un bene da salvaguardare ad ogni costo. Oggi il sacrificio di Israele è favorito, non per mantenere la pace, ma per mantenere il miserabile petrolio, i miserabili affari, il miserabile denaro, i miserabili rapporti con un mondo che ci sta sommergendo e che, con la nostra voluttà di autodistruzione, ci porterà all’estrema rovina. Ed in questo tragico ripetersi della Storia il nostro miserabile Paese, come nel 1938 con Mussolini, oggi con Renzi e Gentiloni ha tutta l’aria di voler recitare con diligenza il miserabile ruolo assegnatogli dai poteri finanziari e politici che ormai agiscono alla luce del sole, non avendo nemmeno più la preoccupazione di nascondere le loro intenzioni nei nostri confronti.
E con un’altra differenza importante rispetto al 1938. Che allora la Cecoslovacchia era un Paese inerme  e, di fronte al voltafaccia dell’Occidente, si rassegnò al suo destino di morte. Israele invece è un Paese che vuole vivere, a dispetto di tutto e di tutti, che non si lascia intimidire e che alla fine vincerà. Per due motivi semplicissimi. Primo perché l’Islam sarà pure una potenza religiosa, economica e finanziaria, ma militarmente è ancora al livello della ferocia belluina e quindi vale zero, secondo perché, come sosteneva Qualcuno, gli Arabo-Musulmani hanno spazî e territori immensi a disposizione, mentre il piccolo Stato di Israele, pur volendo, non avrebbe e non saprebbe dove spostarsi.
Detto questo, voglio anche mettermi nei panni dei Musulmani e di quel popolo creato per motivi politici comunemente chiamato “I Palestinesi”. C’è qualche buon motivo alla base del loro odio? Può darsi. E d’altra parte le ragioni non stanno mai tutte da una sola parte. A causa di questo odio essi sono ossessionati da Israele e ne sognano la fine? Padroni di farlo, ma non pretenderanno che in questo tentativo di distruzione Israele dia loro una mano.
Ezio Scaramuzzino