mercoledì 30 dicembre 2015

Santaccia, una prostituta nella Roma papale del Belli


"Ogni ragazza è seduta sulla sua fortuna, e non lo sa", sosteneva Nell Kimball, autrice di Memorie di una maitresse americana. Nella Roma papale del’Ottocento doveva però certamente saperlo  Santaccia, che “esercitava” in piazza Montanara e alla quale Giuseppe Gioacchino Belli dedica due famosi sonetti. Ne vien fuori il ritratto di una donna rude ma non spregevole, che utilizza il suo corpo in maniera industriale, quasi come in una “catena di montaggio” (mi si consenta la battuta), e che sembra utilizzare anzi tempo la teoria generale dei prezzi applicata alla legge della domanda e dell’offerta. Ma Santaccia è anche una donna buona, oltre che “buona donna”(seconda battuta), capace di concedersi gratis, in suffragio delle anime del Purgatorio, se il suo cliente non ha il becco di un bajocco.

SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA (I)
Santaccia era una dama de Corneto(1) 
da toccà ppe rrispetto co li guanti; 
e ppiú cche ffussi de castagno o abbeto,
lei sapeva dà rresto (2) a ttutti cuanti. 
Pijjava li bburini ppiú screpanti (3)
a cquattr’a cquattro cor un zu’ segreto: 
lei stava in piede; e cquelli, uno davanti
fasceva er fatto suo, uno dereto.
Tratanto lei, pe ccontentà er villano, 

a ccorno pístola e a ccorno vangelo (4) 
ne sbrigava antri dua, uno pe mmano. 
E ppe ffà a ttutti poi commido er prezzo (5), 
dava e ssoffietto, e mmanichino, e ppelo (6)
uno pell’antro a un bajocchetto er pezzo.
G. G. Belli     12 dicembre 1832 
1-   Corneto: l’attuale Tarquinia.
2-   dà rresto…: sapeva farsi valere.
3-   screpanti: spacconi.
4-   a ccorno…: a destra e a sinistra. Volgarizzando le parole latine che indicano i due lati dell’altare.
5-   commido er prezzo: un prezzo basso.
6-   soffietto, manichino, ppelo: il didietro, le mani, il davanti.

SANTACCIA DE PIAZZA MONTANARA  (II)
A pproposito duncue de Santaccia 
che ddiventava fica da ogni parte, 
e ccoll’arma e ccor zanto(1) e cco le bbraccia 
t’ingabbiava l’uscelli a cquarte a cquarte; (2)
è dda sapé cc’un giorno de gran caccia (3),
mentre lei stava assercitanno l’arte,
un burrinello co l’invidia in faccia
s’era messo a ggodessela in disparte.
Fra ttanti uscelli in ner vedé un alocco,
"Oh", disse lei, "e ttu nun pianti maggio?" (4)
"Bella mia", disse lui, "nun ciò er bajocco".
E cqui Ssantaccia: "Aló, vvièccelo a mmette:
sscéjjete er búscio,(5) e tte lo do in zoffraggio
de cuell’anime sante e bbenedette".
G. G. Belli        12 dicembre 1832 
1-   arma, zanto: il diritto e il rovescio delle monete papali. Qui, per allusione, il davanti e il didietro.
2-   a cquarte a cquarte: a quattro a quattro.
3-   gran caccia: intenso lavoro.
4-   nun pianti maggio?: lett. non semini a maggio? Allusione per “fare l’amore”.
5-   sscéjjete er búscio:scegliti il buco.

mercoledì 16 dicembre 2015

In famiglia (Racconto) di Guy de Maupassant


IN FAMIGLIA
Il tram di Neuilly aveva superato porta Maillot e ora correva lungo il vialone che porta alla Senna. La piccola macchina, con il vagone attaccato dietro, fischiava per evitare gli ostacoli, sputava vapore, ansimava, simile a una persona che corra trafelata, e gli stantuffi facevano un rumore come gambe di ferro in moto. La pesante calura di fine d’una giornata estiva gravava sulla strada, dalla quale, senza che alitasse il più tenue venticello, si sollevava un polverone bianco, gessoso, opaco, soffocante e caldo, che si appiccicava alla pelle umida, riempiva gli occhi, penetrava nei polmoni.
La gente si affacciava sugli usci, cercando un po’ d’aria.
I vetri della carrozza erano abbassati e le tendine sventolavano, agitate dalla corsa veloce. C’era poca gente dentro, perché nelle giornate calde tutti preferiscono l’imperiale o le piattaforme. Erano grosse signore buffamente vestite, le borghesi della periferia che al posto della distinzione che non possiedono sfoggiano un’intempestiva dignità; e uomini stanchi dell’ufficio, col viso ingiallito, la schiena curva e una spalla più alta dell’altra per via del lavoro che fanno curvi sul tavolino. I loro visi scontenti e tristi rivelavano anche le preoccupazioni domestiche, il continuo bisogno di denaro, le antiche speranze definitivamente deluse: poiché tutti appartenevano a quell’esercito di poveri diavoli spelacchiati che vegetano miseramente in una meschina casetta di gesso, dove una aiola fa da giardino, in mezzo ai terreni di scarico che circondano Parigi.
Proprio accanto allo sportello, un ometto tarchiato, col viso pieno, il ventre che gli ricadeva fra le gambe divaricate, vestito di nero e decorato, stava discorrendo con un uomo alto e magro, di apparenza trasandata, che indossava un vestito di tela bianca molto sporco, e aveva in testa un vecchio panama. Il primo, che parlava adagio, esitando in modo da sembrare balbuziente, era il signor Caravan, archivista capo al ministero della Marina. L’altro, ex ufficiale sanitario a bordo di un piroscafo mercantile, si era stabilito nella frazione di Courbevoie dove applicava su quella misera gente le vaghe cognizioni di medicina che gli erano rimaste dopo la sua vita avventurosa. Il suo nome era Chenet, e si faceva chiamare dottore. Correvano voci sulla sua moralità.

Caravan aveva sempre fatto la solita vita dei burocrati. Da trent’anni si recava in ufficio ogni mattina, passando sempre per le stesse strade, incontrandovi sempre, alla stessa ora, negli stessi posti, gli stessi uomini che andavano al lavoro; e tornava a casa, ogni sera, rifacendo lo stesso percorso e incontrando di nuovo le stesse facce, che aveva visto invecchiare.
Ogni giorno, dopo aver preso il giornale da un soldo alla cantonata del faubourg Saint-Honoré, andava a comprarsi un paio di panini, ed entrava nel ministero con l’atteggiamento di un colpevole che vada a costituirsi; raggiungeva in fretta l’ufficio, internamente agitato, aspettandosi sempre qualche rimprovero per una qualsiasi negligenza che poteva aver commesso.
Nulla era mai intervenuto a modificare la monotona regolarità della sua esistenza; nessun avvenimento lo interessava che non fosse lavoro d’ufficio, promozioni o gratifiche. Sia al ministero che in casa (aveva sposato, senza dote, la figlia di un collega) parlava soltanto di servizio. Nella sua mente atrofizzata dal bestiale quotidiano lavoro non c’era posto per altri pensieri, per altre speranze, per altri sogni, se non quelli relativi al ministero. Ma le sue soddisfazioni di impiegato erano inquinate da un’amarezza: l’ammissione dei commissari di marina, i lattonieri, come erano chiamati per via dei gradi d’argento, ai posti di sottocapo e capo; e tutte le sere, a cena, discuteva animatamente con la moglie, la quale condivideva il suo odio, per dimostrarle che era ingiusto, sotto qualunque punto di vista, concedere impieghi a Parigi a gente destinata alla navigazione.
Era diventato vecchio, senza essersi accorto che la vita era trascorsa, perché la scuola si era prolungata nell’ufficio, e gli istruttori che in passato lo facevano tremare erano oggi sostituiti dai capi che egli temeva moltissimo. La porta di quei despoti da camera lo faceva fremere da capo a piedi; e quel continuo timore faceva sì che egli avesse un modo impacciato di presentarsi, un atteggiamento umile e una specie di balbuzie nervosa.
Conosceva Parigi quanto può conoscerla un cieco condotto ogni giorno dal cane alla stessa porta; e leggendo nel giornale da un soldo gli avvenimenti e gli scandali, li considerava racconti di fantasia, inventati apposta per distrarre gli impiegatucci. Uomo d’ordine, reazionario senza alcun partito, ma nemico di ogni «novità», saltava le notizie politiche che, d’altronde, la sua gazzetta travisava sempre a beneficio di interessi altrui; e tutte le sere, risalendo gli Champs Elysées, guardava la folla fluttuante a passeggio e l’onda incessante delle carrozze, come fa il viaggiatore forestiero che attraversi lontane contrade.
In occasione del trentennio obbligatorio di servizio, compiuto proprio in quell’anno, gli avevano conferito il 1° gennaio la croce della Legion d’Onore con cui, nelle amministrazioni militari, viene ricompensata la lunga e miserabile servitù - la chiamano: «leali servizi» - dei tristi forzati incollati alle scartoffie. L’inaspettata onorificenza gli diede un nuovo, più alto concetto di sé, e gli fece cambiare abitudini. Non portò più calzoni di colore e giacche fantasia, ma soltanto calzoni neri e lunghe prefettizie sulle quali il suo «nastrino», assai largo, spiccava di più; si faceva la barba tutti i giorni, si puliva le unghie con maggior cura, si cambiava la camicia un giorno sì e uno no: insomma, per un legittimo senso della decenza e per il rispetto dovuto all’Ordine nazionale del quale ora faceva parte, era diventato, da un giorno all’altro, un altro Caravan, ripulito, maestoso e condiscendente.
In casa, diceva ad ogni piè sospinto «la mia croce». Gli era venuto un tale orgoglio, che non poteva più sopportare che altri avesse all’occhiello nastrini di qualunque specie. Soprattutto si irritava nel vedere le decorazioni straniere - «in Francia non dovrebbe essere permesso portarle» - e ce l’aveva in particolar modo col dottor Chenet, che incontrava tutte le sere sulla tramvia, con un nastrino diverso: bianco, azzurro, arancione o verde.
D’altra parte le conversazioni dei due uomini, dall’Arco di Trionfo sino a Neuilly, erano sempre le stesse; e quel giorno, come i giorni precedenti, parlarono prima dei vari abusi locali che indisponevano entrambi, poiché il sindaco di Neuilly faceva il comodaccio suo. Poi, come capita sempre se si è con un medico, Caravan avviò il discorso sulle malattie, sperando così di scroccare gratis qualche piccolo consiglio o addirittura un parere, se avesse saputo farla bene, senza mostrare troppo la corda. Da un po’ di tempo era preoccupato per sua madre. Essa subiva sincopi frequenti e prolungate, e non voleva saperne di curarsi benché avesse novant’anni suonati.
Caravan si commuoveva per la tarda età della madre e andava ripetendo al «dottor» Chenet: - Non sono tanti quelli che arrivano a quest’età... - Si fregava le mani tutto contento, non perché ci tenesse molto nel vedere eternarsi su questa terra la buona donna, ma perché la lunga durata della vita materna era come una promessa per lui.
- Ah, sì, - continuò, - nella mia famiglia si va lontano; io, per conto mio, sono certo che se non mi capita un accidente morirò vecchio.
L’ufficiale sanitario lo guardò con aria di compatimento; diede una rapida occhiata al viso rubicondo del suo vicino, al collo adiposo, al ventre che gli ricadeva tra le gambe flaccide e grasse, a quella rotondità apoplettica di vecchio impiegato rammollito, e, sollevando con un gesto della mano il vecchio panama che aveva in capo, gli disse con un sogghigno:
- Non siatene tanto certo, caro mio; vostra madre è uno stecco, mentre voi siete un bidone gonfio.
Caravan, turbato, non rispose.
Il tram era giunto alla stazione. I due amici scesero, e Chenet offrì il vermut al caffè del Globo, lì di faccia, che tutti e due erano soliti frequentare. Il padrone, un amico, tese due dita che essi strinsero al disopra delle bottiglie del banco, poi andarono a un tavolino ove tre appassionati di domino stavano giocando da mezzogiorno. Vennero scambiati cordiali saluti, con il «Niente di nuovo?» di prammatica. I giocatori ripresero la partita; Chenet e Caravan augurarono la buona sera; gli altri tesero la mano senza alzare il capo, e ognuno dei due s’avviò a casa per la cena.
Caravan abitava vicino all’incrocio di Courbevoie, in una casetta di due piani dove a pianterreno c’era un barbiere.
Due camere, una sala da pranzo e una cucina, da cui alcune seggiole sgangherate giravano da una parte all’altra, secondo le necessità, costituivano tutto l’appartamento. La signora Caravan passava tutte le sue giornate a lustrarlo, mentre i suoi figli, Marie Louise di dodici anni e Philippe Auguste di nove, ruzzavano in mezzo ai rigagnoli della strada assieme a tutti gli altri monelli del quartiere.
Al piano di sopra Caravan aveva sistemato sua madre, famosa in giro per la sua avarizia, e tanto magra che la gente diceva che il «Buon Dio» le aveva applicato i suoi stessi principii di parsimonia. Sempre di cattivo umore, non passava giorno che non s’arrabbiasse e litigasse. Dalle finestre se la prendeva coi vicini che stavano sugli usci, con l’erbaiola, con gli spazzini e anche con i monelli, i quali, per vendicarsi, quand’ella andava fuori la seguivano da lontano e le gridavano dietro: - Befana!

Una servetta normanna, sventata in modo inverosimile, faceva le faccende, e dormiva al secondo piano, vicino alla vecchia, per paura di qualche malore.
Quando Caravan rincasò, la moglie, che aveva la malattia cronica della pulizia, stava strofinando con uno straccio di flanella le sedie d’acagiù sperdute nella solitudine delle stanze. Portava sempre i guanti di filo, e in capo, di traverso, una cuffietta guarnita di nastri multicolori; ogni volta che si faceva trovare intenta a incerare, spazzolare, lucidare o lavare, diceva: - Io non sono ricca, in casa mia tutto è modesto, ma la pulizia è il mio lusso, e in fondo è un lusso come un altro.
Dotata di un caparbio buon senso, in ogni cosa era di guida a suo marito. Tutte le sere a tavola e poi a letto, discorrevano a lungo delle cose d’ufficio e, benché avesse vent’anni di più, Caravan si affidava a lei come a un direttore spirituale e seguiva in tutto e per tutto i suoi consigli.
Bella non era mai stata; ora era proprio brutta, piccola e magrolina. La sua incapacità a vestirsi aveva sempre occultato i suoi scarsi attributi femminili, che avrebbero dovuto esser messi in risalto con degli abiti appropriati. Pareva che avesse sempre la gonna di sghimbescio; si grattava spesso, in qualsiasi punto, senza curarsi dei presenti, per una specie di mania che era quasi un tic. Il suo unico ornamento era una profusione di nastri di seta, intrecciati sulle pretenziose cuffiette che aveva l’abitudine di portare in casa.
Appena vide il marito si alzò, e baciandolo sulle fedine, gli chiese: - Caro, ti sei ricordato di Potin? - (Era una commissione che egli aveva promesso di farle.) Caravan si lasciò andare sgomento su una sedia: se n’era dimenticato per la quarta volta.
- È una fatalità, - disse, - una vera fatalità; ci penso tutto il giorno, e la sera me ne dimentico sempre.
Era tanto afflitto che la moglie lo consolò:
- Non importa, ci penserai domani. Al ministero, niente di nuovo?
- Sì, una notizia importante; un altro lattoniere nominato sottocapo.
Ella si fece seria:
- In quale ufficio?
- L’ufficio degli acquisti all’estero.
Ella si arrabbiò:
- Cioè al posto di Ramon, proprio quello che avrei voluto per te. E Ramon, a riposo?
- A riposo - balbettò lui.
La donna s’infuriò e la cuffia le s’inclinò sulla spalla:
- È finita, ecco, partita chiusa, capisci? lì dentro non c’è più niente da fare. E come si chiama questo commissario?
- Bonassot.
Ella prese l’Annuario della Marina, che teneva sempre a portata di mano, e cercò: «Bonassot - Tolone - Nato nel 1851 - Allievo commissario nel 1871, vicecommissario nel 1875».
- È stato mai imbarcato?
A questa domanda Caravan si sentì riavere. Venne preso da un’allegria che gli faceva ballonzolare il ventre:
- Come Balin, proprio come Balin, il suo capo.
E aggiunse, ridendo più forte, una vecchia storiella che deliziava tutto il ministero:
- Guai se li mandassero in vaporino a fare un’ispezione alla stazione navale del Point-du-Jour, si sentirebbero male durante il tragitto!
Ma la moglie rimaneva seria, come se non avesse inteso, e grattandosi adagio il mento mormorò:
- Se almeno avessimo un deputato dalla parte nostra! Se alla Camera venissero a sapere quel che succede là dentro, il ministero salterebbe subito...
Le sue parole vennero interrotte da alcune grida che provenivano dalle scale. Marie Louise e Philippe Auguste, di ritorno dalla strada, a ogni scalino si davano schiaffi e calci. La madre accorse, inviperita, li prese ognuno per un braccio, e li tirò in casa a forza di energici strattoni.
Appena videro il padre si precipitarono su di lui, ed egli li baciò con tenerezza e a lungo; poi si sedette, e se li prese sulle ginocchia per far due chiacchiere con loro.
Philippe Auguste era un brutto bambino, spettinato, sudicio da capo a piedi, con una faccia da cretino. Marie Louise già rassomigliava a sua madre, parlava come lei, ripeteva le sue parole, ne imitava anche i gesti. Anche ella chiese:
- Niente di nuovo al ministero?
Caravan le rispose allegramente:
- Il tuo amico Ramon, quello che tutti i mesi viene a cena da noi, sta per lasciarci, pupetta. C’è un nuovo sottocapo al suo posto.
Ella alzò gli occhi verso il padre e con un compatimento da ragazzina precoce:
- Eccone un altro che ti ha fatto lo sgambetto.
Caravan smise di ridere e non rispose; poi per cambiare argomento si rivolse alla moglie che ora stava pulendo i vetri:
- La mamma, su, sta bene?
La signora Caravan smise di strofinare, si girò, rimise a posto la cuffia che le era andata a finire sulla schiena, e con le labbra tremanti:
- Ah! sì, parliamo un po’ di tua madre! Me ne ha combinata una davvero carina! Figurati che poco fa la signora Lebaudin, la moglie del barbiere, è venuta su per chiedermi in prestito un pacchetto d’amido; siccome io ero uscita tua madre l’ha buttata fuori trattandola da «mendicante». Allora, capirai, gliene ho dette quattro, alla vecchia. Ha fatto finta di non capire, come tutte le volte che le si dice ciò che merita... ma è sorda come sono sorda io, son finzioni e nient’altro, tant’è vero che è risalita subito in camera sua, senza aprir bocca.
Caravan, sconcertato, taceva. In quel momento entrò di corsa la servetta annunciando la cena. Allora, per avvertire la madre, prese un manico di scopa, che tenevano riposto in un angolo, e batté tre volte contro il soffitto. Quindi passarono in sala da pranzo, e la signora Caravan scodellò la minestra, mentre aspettavano la vecchia. Ma costei non veniva, e la minestra si freddava. Perciò si misero a mangiare adagio adagio, e quando le scodelle furono vuote, aspettarono un altro poco. La signora Caravan, furente, se la prendeva col marito:
- Lo fa apposta, sai. E tu la difendi sempre.
Egli, molto perplesso e combattuto, disse a Marie Louise di andare a chiamare la nonna, e rimase fermo, con gli occhi bassi, mentre sua moglie con la punta del coltello picchiava rabbiosamente il piede del bicchiere.
La porta si aprì all’improvviso, e ricomparve la bambina, sola, pallidissima e senza fiato. Disse in gran fretta:
- La nonna è caduta in terra.
Caravan si alzò di scatto, e, buttando il tovagliolo sulla tavola, si slanciò su per le scale facendole risuonare col suo passo pesante e precipitoso, mentre sua moglie, certa che si trattasse di uno stratagemma della suocera, gli andava dietro adagio scrollando le spalle con disprezzo.
La vecchia giaceva distesa bocconi in mezzo alla camera, e quando il figlio l’ebbe rivoltata, apparve immobile e asciutta, con la pelle ingiallita, rugosa, incartapecorita, gli occhi chiusi, i denti stretti e il magro corpo irrigidito.
Caravan, in ginocchio accanto a lei, gemeva:
- Oh! povera mamma, povera mamma!
Ma l’altra signora Caravan, dopo averle dato una rapida occhiata, dichiarò:
- Bah! Ha avuto un’altra sincope, ecco; tanto per impedirci di cenare, puoi esserne certo!
La misero sul letto, la svestirono completamente, e si misero tutti, Caravan, sua moglie e la serva, a farle delle frizioni. Ma, nonostante i loro sforzi, non rinveniva. Allora Rosalie fu mandata a chiamare il «dottor» Chenet che abitava lungo la Senna, verso Suresnes. Era lontano, e l’attesa fu lunga. Finalmente giunse, e dopo aver visitato, palpato, auscultato la povera vecchia, disse: - È finita.
Scosso dai singulti Caravan si lasciò andare su quel corpo baciando con frenesia il volto rigido di sua madre, piangendo tanto che i suoi lacrimoni cadevano come gocce d’acqua sul viso della morta.
La signora Caravan giovane ebbe una appropriata crisi di dolore: in piedi, dietro il marito, gemeva piano, stropicciandosi gli occhi con ostinazione.
Caravan, con il viso gonfio, gli scarsi capelli arruffati, bruttissimo nel suo sincero dolore, si rialzò all’improvviso:
- Ma... siete sicuro, dottore... siete proprio sicuro?...
L’ufficiale sanitario si avvicinò rapidamente e maneggiando il cadavere con destrezza professionale, come un negoziante che metta in valore la sua merce: - Ecco, mio caro, guardate l’occhio. - Rialzò la palpebra e videro immutato lo sguardo della vecchia, forse con la pupilla alquanto ingrandita. Caravan sentì una stretta al cuore e un brivido di spavento gli percorse le ossa. Chenet afferrò il braccio rattrappito, fece forza sulle dita per distenderle e, irritato come di fronte a qualcuno che lo contraddicesse: - Guardate un po’ questa mano, guardate: io non sbaglio mai, siatene certo.
Caravan ricadde contorcendosi sul letto, quasi mugghiando, mentre sua moglie, continuando a piagnucolare, cominciò a fare le operazioni necessarie. Avvicinò il comodino, vi stese una tovaglietta, vi pose sopra quattro candele e le accese, prese un rametto di bosso che era infilato dietro allo specchio del camino, lo mise tra le candele, dentro un piattino che riempì d’acqua fresca, in mancanza di quella benedetta. Poi, dopo aver riflettuto un istante, buttò nell’acqua un pizzico di sale, immaginando certo con quell’atto di fare una specie di consacrazione.
Quando ebbe terminato la figurazione che deve accompagnare la Morte, ella rimase ferma, in piedi. L’ufficiale sanitario, che l’aveva aiutata a disporre gli oggetti, le disse all’orecchio:
- Bisogna portar via Caravan.
Ella fece un cenno di assenso e, avvicinatasi a suo marito, sempre inginocchiato e singhiozzante, lo prese per un braccio, mentre Chenet lo prendeva per quell’altro.
Dapprima lo fecero sedere, e sua moglie, baciandolo in fronte, prese a parlargli. L’ufficiale sanitario sosteneva i ragionamenti della donna, consigliava fermezza, coraggio, rassegnazione, proprio ciò che non si può conservare in simili fulminee sciagure. Poi lo ripresero sotto braccio e lo portarono via.
Piangeva come se fosse un grosso bambino, con singulti convulsi, affranto, con le braccia penzoloni, le gambe fiacche; discese la scala senza rendersene conto, muovendo i piedi macchinalmente.
Lo misero nella poltrona in cui sedeva di solito a tavola, dinanzi alla scodella quasi vuota, nella quale era rimasto il cucchiaio con un pochino di minestra. Rimase lì, senza fare un gesto, con lo sguardo fisso al bicchiere, talmente inebetito che non pensava a nulla.
La signora Caravan, in un canto, stava parlando col dottore, informandosi sulle formalità necessarie, sulle cose pratiche da farsi. Alla fine Chenet, che pareva aspettar qualcosa, prese il cappello e, dicendo che non aveva ancora cenato, salutò e fece per andarsene. La signora esclamò:
- Ma come, non avete cenato? Restate con noi, dottore, restate. Vi daremo quello che c’è, perché capirete bene che noi non mangeremo molto.
Egli rifiutò, si scusò. Ella insistette:
- Ma via, rimanete. In momenti come questi si è contenti di avere un amico a fianco, e voi forse potreste convincere mio marito a prendere qualcosa; ha tanto bisogno di tenersi su.
Il dottore s’inchinò, e, posando il cappello su un mobile:
- Se è per questo, accetto volentieri, signora.
Costei diede qualche ordine alla spaurita Rosalie, e si mise ella stessa a tavola - per far finta di mangiare - disse - e tener compagnia al dottore.
Fu servita la minestra fredda. Chenet ne prese due scodelle. Poi comparve un vassoio di trippa alla lionese odorosa di cipolla, e la signora Caravan decise di assaggiarla.
- Buonissima - disse il dottore.
Ella sorrise:
- Vero?
Poi, rivolta al marito:
- Prendine un pochino, povero Alfred, tanto per non restare a stomaco vuoto; pensa che dovrai far nottata!
Caravan porse docilmente il suo piatto, così come si sarebbe messo a letto, se glielo avessero ordinato, obbediente a tutto, senza resistere né riflettere. Mangiò.
Il dottore si serviva da sé e per tre volte si rivolse al vassoio; invece la signora Caravan infilzava di tanto in tanto con la punta della forchetta un bel pezzo di trippa e lo ingoiava con una specie di studiata disattenzione.
Quando venne portata una zuppiera piena di maccheroni, il dottore esclamò:
- Perbacco, che buona roba!
E stavolta la signora Caravan servì tutti. Riempì anche le ciotole in cui intrugliavano i bambini, i quali, non sorvegliati, bevevano il vino puro, e già avevano cominciato a prendersi a calci sotto la tavola.
Chenet rammentò quanto quel piatto italiano piacesse a Rossini, e all’improvviso: - Guarda, fa anche rima, potrebbe essere l’inizio di un poemetto:
Il Rossini molto buoni
Riputava i maccheroni...
Nessuno lo stava a sentire. La signora Caravan, divenuta a un tratto pensierosa, rifletteva alle probabili conseguenze dell’accaduto; suo marito stava facendo delle palline di mollica e le metteva in fila sulla tovaglia guardandole fisso, come un idiota. La sete gli bruciava la gola, e portava incessantemente alle labbra il bicchiere colmo di vino; la sua mente, già sconvolta dal colpo subìto e dal dolore, era oscillante, gli pareva che ballasse nel subitaneo sbalordimento della difficile digestione che era principiata.

Il dottore beveva come una spugna, s’ubriacava a vista d’occhio, e anche la signora Caravan subiva la reazione prodotta dalle scosse nervose, ed era agitata, turbata anzi, e, benché bevesse soltanto acqua, si sentiva la testa piuttosto annebbiata.
Chenet s’era messo a raccontare storie di decessi che gli parevano buffe. Nella periferia parigina, abitata da gente di provincia, si nota nei riguardi della morte la stessa indifferenza che hanno i contadini, anche se si tratta del padre e della madre; quella mancanza di rispetto, quell’inconscia ferocia tanto comuni nelle campagne e tanto rare a Parigi.
- L’altra settimana, per esempio, mi chiamarono d’urgenza in via Suteaux; corro e trovo che il malato era già morto. La famiglia, ai piedi del letto, si stava scolando una bottiglia di anisetta comprata il giorno prima per soddisfare un capriccio del moribondo.
La signora Caravan non lo ascoltava, pensava sempre all’eredità, e Caravan, svanito, non capiva nulla.
Venne servito il caffè, molto forte per sostenere il morale. Ogni tazzina, annaffiata di cognac, fece imporporare le guance, rimescolando le poche idee rimaste nei cervelli di già vacillanti.
Tutt’a un tratto il dottore si impadronì della bottiglia e versò a tutti l’«ammazzacaffè». Senza parlare, intorpiditi dal dolce calore della digestione, ovattati loro malgrado dal benessere animalesco prodotto dall’alcool dopo il pasto, centellinavano adagio il cognac zuccherato che lasciava uno sciroppo giallastro in fondo alle tazzine.
Rosalie mise a letto i bambini che si erano addormentati.
Caravan, spinto dal bisogno di stordimento che si prova nelle sciagure, bevette parecchie volte; e gli occhi inebetiti gli luccicavano.
Finalmente il dottore si alzò per andarsene, e preso per il braccio l’amico gli disse:
- Via, venite con me; un po’ d’aria vi farà bene, non bisogna star fermi quando si soffre.
L’altro ubbidì con docilità, si mise il cappello, prese il bastone, e uscì. Tenendosi a braccetto, discesero verso la Senna sotto le stelle limpide.
Nella notte calda vagavano nubi odorose, perché in quella stagione tutti i giardini lì intorno erano pieni di fiori i quali, addormentati durante il giorno, pareva che si risvegliassero con l’avvicinarsi della notte, esalando profumi che si frammischiavano alle leggere brezze vaganti nell’oscurità.
L’ampio viale era deserto e silenzioso, fiancheggiato dai lampioni a gas che si distendevano fino all’Arco di Trionfo. E laggiù, Parigi rumoreggiava tra vapori rossastri. Era una specie di continuo brontolio, al quale pareva che talora rispondesse in lontananza, nella pianura, il fischio di un treno che arrivava a tutto vapore, o che si allontanava, attraverso la provincia, verso l’Oceano.
L’aria libera sorprese i due uomini colpendoli in pieno viso sconvolse l’equilibrio del dottore e aumentò le vertigini di Caravan. Egli camminava come in sogno, con la mente intorpidita, paralizzata, senza provare gran dolore, preso da una specie di torpore morale che non lo faceva soffrire, e provando anzi un sollievo che le tiepide esalazioni diffuse nella notte rendevano più forte.
Giunti al ponte, svoltarono a destra, e vennero investiti dalla fresca brezza del fiume. La Senna scorreva malinconica e placida davanti a un sipario di alti pioppi; pareva che le stelle navigassero sull’acqua, mosse dalla corrente; una nebbiolina biancastra ondeggiava sulla riva opposta recando umidi effluvi ai polmoni. Caravan si fermò all’improvviso, colpito da quell’odore di fiume che gli rimescolava nel cuore vecchissimi ricordi.
Rivide a un tratto la madre, nei lontani tempi della sua infanzia, inginocchiata davanti alla porta di casa, laggiù in Piccardia, presso il ruscelletto che attraversava il giardino, intenta a lavare i panni ammucchiati accanto a lei. Riudiva i tonfi nel placido silenzio della campagna, e la sua voce che chiamava: - Alfred, portami il sapone. - Sentiva, allora, il medesimo odore d’acqua che scorre, di nebbia che si alza dalla terra grondante, di leggero vapore d’acquitrinio, di cui aveva serbato indimenticabile il sapore, e che ora ritrovava proprio la sera della morte di sua madre.
Si fermò irrigidendosi, ripreso da uno slancio di disperazione, come se un lampo avesse rischiarato ad un tratto tutta la vastità della sua disgrazia, e l’odore del fiume l’avesse sprofondato nell’abisso oscuro dei dolori senza conforto. Si sentì il cuore straziato al pensiero della separazione senza fine. La sua vita veniva tagliata in due e tutta la sua giovinezza scompariva inghiottita da quella morte. Tutto il passato era finito, tutti i ricordi dell’adolescenza svanivano, nessuno avrebbe più parlato di vecchie cose, di gente conosciuta in passato, del paese, di
lui stesso, dei suoi affetti trascorsi; una parte del suo essere aveva finito di esistere, toccava a quell’altra, ora, di morire.
Cominciò la rievocazione dei ricordi. Rivedeva la mamma più giovane, coi vestiti che si erano logorati su di lei, indossati per tanto tempo che parevano inseparabili dalla sua persona; la ritrovava in mille circostanze dimenticate: certe espressioni ormai svanite, il tono della voce, le sue abitudini, le sue manie, le sue collere, le rughe del volto, i movimenti delle dita magre e tutti gli atteggiamenti familiari che ora non avrebbe avuto più.
Egli gemeva, aggrappandosi al dottore. Le flaccide gambe gli tremavano, il suo corpo grasso era squassato dai singulti, e balbettava:
- La mia mamma, la mia povera mamma, la mia povera mamma!...
E il dottore, ancora brillo e desideroso di finire la serata in quei luoghi che frequentava di nascosto, si spazientì all’acuta crisi di dolore, fece sedere il suo compagno per terra, sull’erba della riva, e quasi subito lo lasciò, con la scusa di una visita da fare.
Caravan pianse a lungo; poi quando non ebbe più lacrime, quando la sua sofferenza fu, per così dire, trascorsa, sentì di nuovo una tranquillità, un sollievo, un riposo subitanei.
La luna si era levata e bagnava l’orizzonte con la sua placida luce. Gli alti pioppi si drizzavano con riflessi d’argento, e la nebbia sulla pianura pareva neve che galleggiasse; il fiume non era più solcato dalle stelle natanti e scorreva ricoperto di madreperla, corrugato da luccicanti tremori. L’aria era dolce e la brezza odorosa. C’era una sorta di abbandono nel sonno della terra, e Caravan beveva la dolcezza della notte, respirava profondamente, credendo di far penetrare sino alle estremità delle sue membra una freschezza, una pace, una consolazione sovrumane.
Tuttavia lottava contro il benessere che lo stava invadendo, e ripeteva: - Mamma, mia povera mamma, - sforzandosi di piangere per una specie di dovere di uomo perbene; ma non ci riusciva più, e non risentiva più la tristezza di poco prima ai dolorosi pensieri che l’avevano fatto singhiozzare così a lungo.
Si alzò, per tornare a casa, e cominciò a camminare a passettini, avvolto dalla tranquilla indifferenza della natura serena, e placato suo malgrado.
Appena fu arrivato sul ponte, vide il fanale dell’ultimo tram che stava per partire e, dietro, i vetri illuminati del caffè del Globo.
Provò, allora, il bisogno di raccontare a qualcuno la sua disgrazia, di muover la compassione, di rendersi interessante. Assunse un aspetto pietoso, spinse la porta del caffè, e andò verso il banco dove il padrone troneggiava in permanenza. Sperava di far colpo, che tutti si alzassero in piedi, gli venissero incontro porgendogli la mano: «Che c’è, cosa avete?».
Ma nessuno si accorse della desolazione del suo volto. Si appoggiò al banco coi gomiti, e prendendosi la fronte con le mani sussurrò:
- Dio mio, Dio mio!
Il padrone lo guardò:
- Vi sentite male, signor Caravan?
Egli rispose:
- No, caro amico; ma è morta mia madre.
L’altro fece un «Ah!» distratto, e siccome in quel momento nel fondo della sala un avventore chiedeva ad alta voce: - Una birra, per favore, - rispose subito con voce tonante: - Ecco, bum!... vengo subito, - e corse a servirlo lasciando Caravan sbalordito.
Alla stessa tavola di prima, i tre appassionati di domino stavano ancora giocando, immobili e assorti. Caravan si avvicinò a loro, in cerca di compassione. Sembrava che non lo vedessero ed egli si decise a parlare:
- Da quando ci siamo lasciati, - disse, - mi è capitata una gran disgrazia.
Sollevarono un poco la testa tutti e tre insieme, ma tenendo sempre lo sguardo al gioco che avevano in mano.
- E così, che è successo?
- È morta mia madre.
Uno di essi mormorò: - Ah! perbacco - con il tono di falso dolore di chi è indifferente. Un altro, che non sapeva cosa dire, scosse il capo ed emise una specie di sibilo triste. Il terzo si rimise a giocare come se avesse pensato: «Tutto qui?».
Caravan si aspettava una di quelle frasi che si dicono «sgorgate dal cuore». Vedendosi accolto a quel modo, si allontanò indignato dalla loro calma davanti al dolore di un amico, benché il dolore, in quel momento, si fosse tanto assopito che quasi non lo sentiva più.
Uscì.
Sua moglie lo aspettava in camicia da notte, seduta su di un panchetto accanto alla finestra aperta, e continuava a pensare all’eredità.
- Spogliati, - gli disse, - parleremo a letto.
Egli alzò il capo, e indicando il soffitto con lo sguardo:
- Ma... di sopra... non c’è nessuno...
- Chiedo scusa, ora c’è Rosalie, e tu andrai a sostituirla verso le tre, dopo aver dormito un po’.
Nondimeno Caravan rimase in mutande per essere pronto ad ogni occorrenza, si annodò una pezzuola attorno al capo, poi raggiunse sua moglie che si era già infilata sotto le lenzuola.
Rimasero per un poco seduti accanto. La donna era pensierosa.
La sua cuffia, anche a quell’ora, era adorna di un fiocco rosa e messa di traverso, sull’orecchio, come per un’inveterata abitudine di tutte le cuffie che ella si metteva.
Voltando improvvisamente il capo verso suo marito gli chiese:
- Sai se tua madre abbia fatto testamento?...
Egli era esitante:
- Io... non saprei... No, non c’è dubbio, non l’ha fatto.
La signora Caravan fissò suo marito negli occhi, e con voce bassa e rabbiosa:
- È una vergogna, ecco; perché, insomma, sono dieci anni che ci ammazziamo a curarla, a darle da dormire e da mangiare! Tua sorella non avrebbe certo fatto altrettanto, e neanche io, se avessi saputo qual era la ricompensa! Sì, è proprio una vergogna per la sua memoria. Mi dirai che ci pagava la pensione: è vero, ma le premure dei figli non si pagano col denaro, si devono riconoscere nel testamento, dopo la morte. La gente perbene fa così! E così io ho buttato fatiche e cure, a vuoto! Ah! bella roba! bella roba!
Caravan, smarrito, ripeteva: - Tesoro, tesoro, ti prego, ti scongiuro.
Alla fine la donna si calmò, e riprese col suo solito tono: - Domattina bisognerà avvertire tua sorella.
Egli trasalì: - Hai ragione, non ci avevo pensato; manderò un telegramma appena sarà giorno.
Ella l’interruppe, da donna che ha pensato a tutto.
- No, mandaglielo tra le dieci e le undici, perché si abbia almeno il tempo di respirare prima del suo arrivo. Da Charenton a qui ci vorranno sì e no due ore.
Diremo che avevi perso la testa. Avvertendola in mattinata non ci compromettiamo mica!
Caravan si batté la fronte, e col tono timido che aveva sempre ogni qualvolta parlava del suo superiore - tremava soltanto a pensarci - disse:
- Bisognerà che avverta il ministero.
La moglie rispose: - Perché avvertire? In casi come questo, una dimenticanza è sempre scusata. Non ti muovere, dammi retta; il tuo superiore non potrà dirti niente e lo metterai in un bell’impiccio.
- Oh, certo, - egli disse, - e diventerà furioso non vedendomi arrivare. Sì, sì, hai ragione, è una magnifica idea. Quando gli dirò che mi è morta la madre, sarà costretto a chetarsi.
E mentre di sopra il corpo della vecchia giaceva accanto alla serva addormentata, l’impiegato, entusiasta del bello scherzo, si fregava le mani pensando alla faccia che avrebbe fatto il suo superiore.
La signora Caravan era pensosa, come assillata da una preoccupazione che non poteva esprimere. Finì per decidersi:
- Tua madre non ti aveva regalato la pendola, quella con la ragazzina e il misirizzi?
Egli frugò nella memoria e rispose: - Sì, sì, me lo disse; ma tanto tempo fa, quando venne a star qui, mi disse: «La pendola sarà tua, se avrai cura di me».
La signora Caravan si rasserenò, tranquillizzata: - E allora bisognerà prenderla, perché se viene tua sorella ce lo impedirà.
Egli esitava: - Credi?
La donna si arrabbiò: - Certo che credo, se è in casa nostra ci appartiene. E lo stesso è per il canterano di camera sua, quello col marmo; me l’ha regalato a me un giorno che era di buonumore. Lo porteremo giù assieme alla pendola.
Caravan pareva incredulo: - Ma è una grande responsabilità, mia cara.
Ella si rivoltò furente: - Ah, davvero? Non cambierai proprio mai? Lasceresti morire di fame i tuoi figlioli, tu, piuttosto di muovere un dito. Quel canterano, visto che me l’ha regalato, è nostro, non ti pare? E se tua sorella non è contenta, verrà a dirmelo a me! Io me ne infischio di tua sorella. Su, alzati, portiamo subito giù ciò che ci ha regalato tua madre.
Vinto e tremante, Caravan si alzò dal letto, e fece per infilarsi i calzoni, ma la moglie glielo impedì: - Via, non ne vale la pena, resta in mutande, basta, anch’io vengo su come mi trovo.
E tutti e due si mossero, nel loro abbigliamento notturno. Salirono la scala senza far rumore, aprirono la porta con precauzione, ed entrarono nella camera dove pareva che soltanto le quattro candele accese attorno al piattino del bosso benedetto vegliassero il rigido riposo della vecchia, perché Rosalie, sdraiata nella poltrona, con le gambe distese, le mani incrociate in grembo, la testa reclinata, immobile anch’essa, e con la bocca socchiusa, dormiva, russando leggermente.
Caravan prese la pendola. Era uno di quegli oggetti grotteschi come ne produsse tanti l’arte dell’Impero. Una giovinetta di bronzo dorato, col capo adorno di diversi fiori, teneva in mano un misirizzi, che con la sua palla faceva da bilanciere.
- Dallo a me, - gli disse sua moglie, - tu prendi il marmo del canterano.
Egli obbedì ansimando, e con grande sforzo si mise il marmo sulle spalle.
Tornarono giù. Caravan dovette piegarsi sotto la porta, e si mise a scendere la scala traballando; mentre sua moglie con la pendola sotto un braccio scendeva all’indietro, e con la mano libera gli faceva lume.
Quando furono nelle loro stanze ella mandò un gran sospiro: - Il più è fatto, - disse, - ora andiamo a prendere il resto.
I cassetti del canterano erano pieni degli stracci della vecchia. Bisognava nasconderli in qualche posto.
La signora Caravan ebbe un’idea:
- Vai a prendere la cassa della legna che è nell’ingresso; è di abete, non vale due franchi, possiamo benissimo metterla qui.
Quando l’ebbero portata, cominciarono il trasloco.
Tirarono fuori, uno dopo l’altro, i polsini, i colletti, le camicie, le cuffiette, tutti i poveri stracci della buona donna distesa dietro di loro, e li disposero con metodo nel cofano della legna, in modo da ingannare la signora Braux, l’altra figlia della defunta, che sarebbe venuta l’indomani.
Quando ebbero finito, portarono giù, prima i cassetti, poi il mobile, reggendolo dalle parti; poi, insieme, studiarono per parecchio tempo dove potesse far più bella figura.
Decisero di metterlo in camera, di faccia al letto, tra le due finestre.
Dopo averlo messo a posto, fu la signora Caravan che lo riempì con la sua biancheria. La pendola fu messa sul piano del caminetto, in sala da pranzo, e i coniugi si misero a guardare che effetto facesse. Ne rimasero deliziati:
- Sta molto bene - disse la moglie.
Il marito rispose: - Sì, molto bene.
Tornarono a letto. La donna spense la candela, e poco dopo, nei due piani della casa, tutti dormivano.
Quando Caravan riaprì gli occhi era giorno fatto. Si svegliò con la mente confusa, e gli tornò a mente l’accaduto soltanto dopo qualche istante. Insieme al ricordo sentì una grande stretta al cuore e balzò dal letto, di nuovo commosso e sul punto di piangere.
Salì in fretta alla camera di sopra, dove Rosalie stava ancora dormendo, nella stessa positura della sera prima, avendo fatto tutt’un sonno. La rimandò alle sue faccende, cambiò le candele che s’erano consumate, guardò a lungo sua madre, rimuginando nel cervello quelle parvenze di profondi pensieri, quelle banalità tra religiose e filosofiche che nascono negli intelletti mediocri al cospetto della morte.
Si sentì chiamare dalla moglie, e discese. Ella aveva compilato l’elenco di ciò che bisognava fare nella mattinata, e glielo diede, spaventandolo.
Lesse:
1) fare la dichiarazione al municipio;
2) chiamare il medico dei morti;
3) ordinare la bara;
4) passare in chiesa;
5) alle pompe funebri;
6) alla tipografia per le partecipazioni;
7) dal notaio;
8) al telegrafo per avvertire i parenti.
In più, un’infinità di piccole commissioni. Egli prese il cappello e uscì.
La notizia si era diffusa e i vicini stavano arrivando per vedere la morta.
A questo proposito, una scenetta si svolgeva dal barbiere del pianterreno, tra moglie e marito, mentre questi faceva la barba a un cliente.
La moglie, che stava facendo la calza, mormorò: - Un’altra di meno; e un’avarona, questa, come ce ne sono poche. Non mi era tanto simpatica, ma bisognerà che vada a vederla lo stesso.
Il marito, seguitando a insaponare il mento del paziente, brontolò: - Che idea! Ci vogliono proprio le donne per questo! Non son contente di infastidirvi per tutta la vita: non vi lasciano in pace neanche dopo morte.
Ma sua moglie, senza scomporsi: - È più forte di me, bisogna che ci vada. Ci sto pensando da stamattina. Mi pare che se non andassi a vederla, non starei bene per tutta la vita. Dopo che l’avrò guardata bene, perché mi rimangano impresse le sue fattezze, sarò soddisfatta.
L’uomo col rasoio si strinse nelle spalle e confidò al cliente che stava raschiando: - Mi domando e dico che razza di idee possono venire a queste dannate donne! Non sono proprio io il tipo che si diverte a vedere un morto!
Sua moglie aveva sentito, e senza scomporsi, gli rispose: - È come ti dico io, come ti dico io.
E posato il lavoro sulla cassa, salì al primo piano.
Erano già arrivate altre due persone vicine, e parlavano dell’accaduto con la signora Caravan, la quale raccontava i particolari.
Andarono verso la camera mortuaria. Le quattro donne entrarono in punta di piedi, e una dopo l’altra aspersero il lenzuolo con l’acqua salata; poi si inginocchiarono, si fecero il segno della croce, borbottando una preghiera; infine si rialzarono, e con gli occhi spalancati, la bocca semiaperta, osservarono ben bene il cadavere, mentre la nuora della morta si teneva il fazzoletto sul viso per simulare un singulto disperato.
Quando si voltò per uscire, vide Marie Louise e Philippe Auguste in piedi accanto alla porta, tutti e due in camicia, che guardavano incuriositi. Dimenticò il suo finto dolore, piombò su di loro con la mano alzata, esclamando rabbiosa: - Filate via, monellacci che non siete altro!
Risalì dieci minuti dopo con un’altra infornata di vicini, e dopo aver scrollato di nuovo il bosso sul letto della suocera, dopo aver pregato, lacrimato, e compiuto tutti i suoi doveri, voltandosi rivide i due bambini che erano dentro insieme a lei. Li prese a scappellotti, per dovere di coscienza; ma la volta dopo non ci fece più caso; e, a ogni gruppo di visitatori, i due fanciulli si accodavano, si inginocchiavano e rifacevano pari pari tutto quanto vedevano fare alla madre.
Nel primo pomeriggio la folla dei curiosi diminuì. A un certo punto non venne più nessuno. La signora Caravan, tornata nel suo appartamento, si diede da fare per preparare la cerimonia funebre; e la defunta rimase sola.
La finestra della camera era aperta. Insieme a folate di polvere entrava una torrida calura; le fiammelle delle candele, vicino al corpo immobile, tremolavano; e sul lenzuolo, su quel volto con gli occhi chiusi, sulle mani distese, le mosche andavano e venivano, s’arrampicavano, passeggiavano senza posa, facevano visita alla vecchia, in attesa della loro ora.
Marie Louise e Philippe Auguste erano ridiscesi a girellare per la strada. Furono subito attorniati dai compagni, soprattutto femmine, più sveglie e più pronte a presentire i misteri della vita. Facevano domande come le persone grandi:
- È morta la tua nonna?
- Sì; ieri sera.
- Com’è un morto?
Marie Louise dava spiegazioni, descriveva le candele, il bosso, il volto. Nei fanciulli si risvegliò una grande curiosità e chiesero di salire anche loro dalla morta.
Marie Louise organizzò subito un primo gruppo, cinque bambine e due bambini: i più grandi e i più svegli. Li obbligò a levarsi le scarpe per non far rumore, e li fece entrare in casa di nascosto. Salirono lesti come un branco di topi.
Giunti in camera, la bambina imitò la madre nel regolare il cerimoniale. Guidò con solennità i suoi compagni, si inginocchiò, si fece il segno della croce, mosse le labbra, si rialzò, asperse il letto, e mentre i bambini, in gruppo serrato, si avvicinavano tra spaventati, incuriositi e felici, per contemplare il viso e le mani, tutt’a un tratto, ella finse di singhiozzare e si coprì gli occhi col fazzolettino. Si consolò subito pensando agli altri che aspettavano di sotto davanti all’uscio, e allora trascinò via di corsa i visitatori, e condusse su un altro gruppo, poi un terzo, perché tutti i monelli della borgata, perfino i piccoli straccioni che chiedevano l’elemosina, erano accorsi al nuovo divertimento; la bambina ogni volta rifaceva a perfezione le finte smorfie materne.
Finì per stancarsi, i fanciulli se ne andarono ad altri giochi e la vecchia nonna rimase sola, dimenticata da tutti.
Il buio invase la camera e sul viso risecchito e rugoso le fiammelle tremolanti delle candele suscitavano danzanti chiarori.
Verso le otto Caravan venne su, chiuse la finestra e cambiò le candele. Ormai entrava tranquillamente, già abituato alla vista del cadavere, come se fosse lì da mesi. Constatò come ancora non si fosse manifestata la decomposizione, e lo fece rilevare a sua moglie mentre si mettevano a tavola per la cena. Ella rispose: - Non lo sai che è di legno, durerebbe un anno...
Mangiarono la minestra senza scambiarsi una parola. I bambini, lasciati liberi tutto il giorno, erano affranti dalla stanchezza e sonnecchiavano sulla sedia: rimasero tutti silenziosi.
Ad un tratto la luce della lampada diminuì.
Caravan girò subito la chiave, ma la macchinetta fece un rumore cavernoso, come un prolungato raschio, e la luce si spense. S’erano dimenticati di comprare l’olio! Andando dal droghiere si sarebbe ritardata la cena; cercarono delle candele, ma c’erano rimaste soltanto quelle accese di sopra, sul comodino.
La signora Caravan, pronta nel decidere, mandò Marie Louise a prenderne due; e l’aspettarono al buio.
Si sentiva chiaramente il passo della bambina che saliva la scala. Seguì qualche istante di silenzio, poi la bambina ridiscese precipitosamente. Aprì la porta, atterrita, più sconvolta di quando, la sera prima, aveva annunziato la catastrofe, e mormoro, senza flato:
- Oh! papà, la nonna si sta vestendo!...
Caravan si rizzò con un tale slancio che mandò la sedia a sbattere contro il muro.
- Cosa dici?... - balbettò, - cosa mi stai dicendo?
Marie Louise, strozzata dalla paura, ripeté: - La nonna... la nonna si sta vestendo... sta per scender giù...
Caravan si slanciò per le scale come un pazzo, seguito dalla moglie sbalordita, ma davanti alla porta del secondo piano si fermò, tremante di paura, senza avere il coraggio di entrare. Cosa mai avrebbe visto? La signora Caravan, più ardita, girò la maniglia ed entrò.
La stanza pareva che fosse diventata più buia, e nel mezzo si muoveva una grande ombra magra. Era la vecchia, in piedi; svegliandosi dal sonno letargico, e prima ancora di aver ripreso conoscenza si era rigirata su di un fianco, e sollevatasi su un gomito aveva spento tre delle quattro candele che ardevano accanto al letto mortuario. Poi, ripigliando forza, si era alzata per cercare i suoi panni. Dapprima si era stupita per la sparizione del canterano, ma poi aveva trovato la sua roba nella cassa della legna e si era vestita tranquillamente. Dopo aver versato via l’acqua dal piattino, e aver rimesso il bosso dietro la specchiera e le sedie al loro posto, era pronta per scendere quando le comparvero davanti il figlio e la nuora.
Caravan si slanciò avanti, le afferrò le mani, la baciò con le lacrime agli occhi, intanto che dietro di lui sua moglie ripeteva con aria ipocrita:
- Che fortuna, oh! che fortuna!
Ma la vecchia non si commosse, pareva perfino che non capisse, e rigida come una statua, con lo sguardo gelido, chiese soltanto:
- Ci manca molto alla cena?
Caravan balbettò sgomento: - Certo, mamma, ti stavamo aspettando.
Con insolita premura la prese sottobraccio; e la signora Caravan giovane, presa la candela, fece lume per le scale, scendendo avanti a loro, all’indietro, facendo uno scalino per volta, come aveva fatto quella stessa notte, davanti al marito che portava il marmo.
Al primo piano poco mancò che non urtasse contro della gente che saliva. Erano i parenti di Charenton, la signora Braux accompagnata dal suo sposo.
La donna, alta e grossa, con una pancia da idropica che le spostava il torso all’indietro, spalancò gli occhi inorridita, pronta a scappare. Il marito, un calzolaio socialista, un ometto peloso fino al naso, una specie di scimmia, mormorò senza commuoversi:
- E allora? È risuscitata?
Non appena la signora Caravan li ebbe riconosciuti, si mise a far loro dei cenni disperati, e a voce alta disse:
- Guarda, guarda... come mai siete venuti? Che bella sorpresa!
La signora Braux, sbalordita, non capiva, e rispose a mezza voce:
- Siamo venuti per via del vostro telegramma; credevamo che fosse tutto finito.
Suo marito, dietro di lei, le dava dei pizzicotti per farla star zitta, e con un sorriso maligno nascosto dalla sua folta barba, soggiunse:
- Molto gentile da parte vostra di averci invitati. Siamo venuti subito... - alludendo all’attrito che c’era da tempo tra le due famiglie.
Quando la vecchia fu agli ultimi scalini, andò verso di lei con vivacità, le sfregò contro le guance il pelo che ricopriva le sue e le gridò nell’orecchio, per via della sordità:
- Come va, mamma; sempre in gamba, eh?
La signora Braux, stupita di ritrovare viva e vegeta colei che s’aspettava di vedere morta, non osava neanche abbracciarla, e con il suo enorme pancione ingombrava il pianerottolo, impedendo agli altri di procedere.
La vecchia, inquieta e sospettosa, ma muta, guardava tutta la gente che le stava attorno, e i suoi occhietti grigi, duri e scrutatori fissavano ora questo ora quello, pieni di visibili pensieri, che mettevano i figli nell’imbarazzo.
A mo’ di spiegazione Caravan disse: - Si è sentita poco bene, ma ora sta benissimo, benone: vero, mamma?
Allora la vecchia, riprendendo a camminare, rispose con voce tremolante, come lontana: - È stata una sincope; sentivo tutto quello che dicevate.
Seguì un silenzio imbarazzato. Entrarono nella sala da pranzo; e si sedettero dinanzi a una cena improvvisata in pochi minuti.
Soltanto Braux si sentiva a suo agio. La sua faccia di gorilla cattivo era tutta smorfie; diceva frasi a doppio senso che mettevano tutti nell’imbarazzo.
Il campanello d’ingresso suonava continuamente e Rosalie, smarrita, veniva a chiamare Caravan il quale si alzava in fretta buttando via il tovagliolo. Il cognato gli chiese addirittura se fosse giorno di ricevimento. Egli balbettò: - No, soltanto delle commissioni, nient’altro.
Portarono un pacchetto e Caravan soprappensiero lo aprì. Apparvero le lettere di partecipazione, listate di nero. Arrossì fino alle orecchie e s’infilò il pacchetto sotto il panciotto.
Sua madre non aveva visto nulla; continuava a fissare con ostinazione la sua pendola col misirizzi dorato che si dondolava sul caminetto. L’imbarazzo aumentava, in un silenzio gelido.
A un certo punto la vecchia, volgendo verso la figlia il suo viso rugoso di strega, ebbe un lampo di malizia nello sguardo e disse:
- Lunedì mi porterai la tua piccina, voglio vederla.
La signora Braux, raggiante, le gridò:
- Sì, mamma, - mentre la signora Caravan giovane impallidiva e si sentiva venir meno dall’angoscia.
Tuttavia gli uomini, un po’ per volta, cominciarono a discorrere; e a proposito di un nonnulla intavolarono una discussione di politica. Braux, che professava le dottrine rivoluzionarie e comuniste, si dimenava, con gli occhi accesi nel viso peloso, e gridava:
- La proprietà, signore mio, è un furto; la terra è di tutti; il diritto all’eredità è una infamia e una vergogna!...
Ma si fermò di colpo, confuso come chi sa di aver detto una bestialità, e aggiunse, con tono più dolce:
- Non è il momento di discutere di queste cose.
Si aprì la porta; comparve il «dottor» Chenet. Rimase un momento incerto, ma si riprese subito, e avvicinatosi alla vecchia:
- Ah! ah! la mamma sta bene oggi. Oh! ne ero certo, vedete; e proprio adesso salendo le scale mi dicevo: «Scommetto che la nonna sarà in piedi».
E battendole qualche leggero colpettino sulla schiena, aggiunse:
- È solida come il Ponte Nuovo; ci sotterrerà tutti, vedrete.
Si sedette, accettò il caffè che venne offerto e s’intromise nella conversazione dei due uomini, appoggiando Braux, poiché anche lui si era compromesso nella Comune.
La vecchia si sentì stanca e volle andarsene. Caravan accorse. Allora ella gli piantò gli occhi in faccia e gli disse:
- Tu riportami subito su il canterano e la pendola.
E mentre egli balbettava: - Sì, mamma, - prese il braccio della figlia e se ne andò con lei.
I due Caravan erano spaventati, ammutoliti, sprofondati in una paurosa rovina; Braux, invece, sorseggiava il caffè fregandosi le mani.
Improvvisamente la signora Caravan, impazzita dalla collera, si gettò su di lui urlando: - Siete un ladro, un mascalzone, una canaglia... Vi sputo in faccia, vi... vi...
Non sapeva più cosa dire, soffocata; e quello rideva, e continuava a bere.
In quel momento ridiscese la cognata e la signora Caravan le si slanciò contro: entrambe, l’una enorme col suo pancione minaccioso, l’altra secca ed epilettica, con la voce alterata, le mani tremanti, si gettarono addosso torrenti d’ingiurie.
Chenet e Braux si intromisero, e quest’ultimo, afferrando sua moglie per le spalle, la buttò da una parte gridandole: - Vattene, ciuca, ragli troppo!

giovedì 10 dicembre 2015

Buoni e buonisti


Da qualche tempo si parla un po’ dappertutto di “buonismo” e “buonista”, spesso in accoppiata con “radical chic” e quasi sempre  con toni vagamente denigratori o sfottitorî.

Ma che differenza c’è tra l’essere buoni e l’essere buonisti? I buoni sono le persone gentili e premurose, le persone disposte a qualunque sacrificio per aiutare gli altri. I buonisti sono invece quelli che della bontà fanno un uso politico-ideologico. Questi ultimi, quando vogliono, sanno odiare cordialmente i loro avversari, ma utilizzano la bontà come alibi per mettersi la coscienza a posto e per giustificare un permissivismo ecumenico, costituente una delle cause non ultime dell’attuale marasma che rischia di travolgere il nostro stile di vita.

Ad esempio, il buono è quello che offre 5 euro ad una ONLUS per alleviare la fame nel mondo, o colui che è disponibile  a fare il volontario per una causa nobile, o ancora colui che è pronto a prendere personalmente una scopa per ripulire un giardinetto pubblico.

Il buonista invece non è generalmente disponibile a fare queste cose. Egli sostiene che già paga le tasse e che a queste cose deve provvedere, giustamente, lo Stato (con la S maiuscola). Invece egli è per l’accoglienza indiscriminata di tutti i perseguitati e i sofferenti del mondo, di tutti coloro che per un motivo o per un altro scappano dai loro Paesi, di tutti coloro che in un modo o nell’altro si presentano alle nostre frontiere e chiedono di entrare. Egli non si pone nemmeno il problema della opportunità o della possibilità di un’accoglienza indiscriminata, anche se poi delega il problema dell’accoglienza allo Stato (sempre quello con la S maiuscola), cioè a tutti noi.

Il buonista ancora è per il relativismo culturale, ideologico, religioso. Per lui tutte le culture si equivalgono e  tutte le religioni sono sullo stesso piano. In particolare, secondo lui, non esiste un terrorismo islamico  e quelli che sgozzano in nome di Allah semplicemente non sono Musulmani.  Lui non giustifica le  vignette blasfeme su Maometto, anche se giustifica quelle, peggiori,  contro Gesù Cristo. Lui non si sogna di attaccare o di sfottere gli Imam o gli Ayatollah, anche se non si fa scrupolo di dileggiare il Papa.

Considerato che da noi, se attacchi l’Islam, ti puoi aspettare una fatwa o una coltellata, mentre, se attacchi il Cristianesimo, hai diritto ad una medaglia; considerato che da noi, se attacchi un Imam,  puoi considerarti in pericolo di vita, mentre attaccare il Papa è un po’ come sparare sulla Croce Rossa. Ecco, considerato tutto questo, non sarebbe più giusto chiamare il buonista in altro modo? Ad esempio paraculo, o paraculista?! Scegliete voi.

sabato 21 novembre 2015

ISIS, Catari e Boko Haram

Si può ridere anche in tempi di tragedia. Tutti sanno che nell’assalto all’Hotel di Bamako, nel Mali, i terroristi Islamici hanno liberato solo coloro che sapevano recitare i versetti del Corano. Sistema forse troppo semplice e sbrigativo per distinguere gli amici dai nemici, ma, tutto sommato, efficace. Poche domande e via.
-Tu, alzati! Che cosa dice il Profeta, che Dio lo benedica e gli dia pace, nella Sura al-Baqarah, Versetto 23?
- Il loro caso è simile a quello di coloro che accendono un fuoco e, quando illumina i dintorni, Allah porta via la loro luce e li lascia in tenebre nelle quali nulla vedono.
-Risposta esatta. Puoi andare. Sei libero. Avanti un altro.
-Tu, alzati! Che cosa dice la Sura Al-Ghâfir al Versetto 4?  
- Solo i miscredenti polemizzano sui segni di Allah. Non ti lasciar suggestionare dal loro andirivieni in questa terra. 
-Risposta esatta. Puoi andare anche tu. Sei libero. Avanti un altro.

E così di seguito per altre 30 persone, di fede musulmana, tutte liberate.

In momenti di emergenza, nell’incalzare della battaglia, è sempre importante poter distinguere quelli che ti sono davanti, sapere se sono alleati o avversari, decidere se devi ammazzarli o salvarli.
Forse pochi sanno che il 22 luglio 1209, durante la crociata indetta da papa Innocenzo III contro i Catari, furono uccise circa 2000 persone, comprese donne e bambini. In quell’occasione il messo papale Arnaud Amaury, richiesto da un soldato su come poter distinguere gli eretici dai Cattolici, rispose: "Uccideteli tutti, Dio riconoscerà i suoi".

Forse nessuno sa che qualche mese addietro, nella Nigeria insanguinata dai terroristi islamici di Boko Haram, anche i Cristiani di quel paese, stanchi di subire vessazioni, attacchi  e stragi, hanno deciso di costituire dei gruppi armati idonei a difenderli e, se necessario, contrattaccare. Nella sua prima azione di tipo militare un gruppo denominato “Guerriglieri di Cristo Re” ha occupato un villaggio nella periferia di Lagos. Nella retata sono finiti molti Nigeriani ma anche molti Italiani, che lì operavano  per conto dell’ ONU e di varie organizzazioni  umanitarie occidentali. Il capo dei guerriglieri, che portava sul petto una vistosa immagine della Madonna  e al collo una grossa Corona del Rosario, ha cercato di capire chi erano, tra gli ostaggi, i Cristiani da salvare. Ha individuato un biondino.
-Tu, alzati! Da dove vieni?
-Sono Italiano.
-Sei Cristiano?
-Sì, sono Cristiano.
-Sei stato battezzato?
-Certo, sono stato battezzato.
-Quali furono le ultime parole di Gesù sulla Croce?
-…Uhm…Sto morendo…, disse.
-Uhm…Un’altra domanda. Conosci il “Padre Nostro”? Il suo no, ma il mio sì. Si chiama Antonio Scognamiglio ed abita a Napoli in via Caracciolo.
-Uhm… Forse è il caso di passare ad un altro… Tu, da dove vieni?
-Sono Italiano. Vengo dalla Sicilia.
-Sei Cristiano?
-Certo.
-Sai che cosa dice il Decimo Comandamento?
-No, non lo so.
-Sai perché è importante la Via Crucis?
-L’hanno asfaltata?
-Ho capito…Forse è il caso di liberare tutti…

Considerazione finale. Finiamola di ridere. Probabilmente la nostra civiltà, quella che una volta era definita la “civiltà occidentale”, merita di scomparire. Noi meritiamo di scomparire e meritiamo di essere sostituiti da orde di uomini col turbante e di donne col burqa o col chador.
Perché noi, pur di  sopravvivere e di difendere il nostro miserabile benessere, siamo disponibili ad ogni compromesso, anche il più vergognoso. Perché da anni, ormai, noi siamo intossicati dal relativismo religioso e culturale e non crediamo più in niente. Loro, invece, saranno terroristi, saranno fanatici, saranno spregevoli e magari qualche volta faremo anche fatica a considerarli come appartenenti al consorzio umano, ma almeno credono in qualcosa.