Sosteneva Michelangelo che la
scultura era soltanto “arte del levare”, nel senso che l’artista si limitava a togliere il di più
che si trovava nel marmo grezzo, fino ad arrivare alla statua già nascosta
nella materia. Se ne deduce pertanto che il suo Mosè esisteva ab aeterno e
che era lì ad attendere che un artista
si decidesse a metterlo alla luce e rivelarlo agli altri.
A voler portare alle estreme
conseguenze un simile discorso, penso che la stessa cosa si possa dire, anche
in altri ambiti, di tutti i capolavori che nel corso dei millenni hanno
affascinato l’umanità. Mi piace pensare, ad esempio, che “L’infinito” di Giacomo Leopardi esistesse già al primo apparire
degli esseri umani sulla scena del mondo e che quel genio immenso, quando nel 1819
si decise a comporlo, si sia limitato in realtà a togliere, nel groviglio
inestricabile di tutte le parole, quelle che apparivano superflue ed
inutili, fino ad arrivare alla scoperta del suo idillio.
Forse un discorso del genere si può fare
anche per il secondo goal di Maradona in Argentina-Inghilterra ai Mondiali del
1986, come lo si può fare per un film come La
dolce vita di Federico Fellini, o per un romanzo come Anna Karenina di Lev Tolstoj.
Certo il mistero dell’arte è a volte
insondabile e non esclude che i gusti possano essere relativi e soggettivi. Ma
ritengo che almeno in ambito musicale la teoria possa avere una sua
plausibilità. Pensiamo infatti ad un capolavoro assoluto, quale, per opinione
comune, è il brano Lacrimosa nel Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart. La
successione delle note, delle pause, delle battute, appare così naturale e
cogente da far pensare che al momento della composizione, se anche Mozart
avesse voluto cambiare una sola nota, non avrebbe potuto. Perché quel brano
esisteva già, era preesistente all’autore e quest’ultimo si limitò a togliere
il velo che lo copriva ed a farcelo conoscere nella sua perfezione assoluta.
Ma, sia ben chiaro, questo discorso è
applicabile solo ai capolavori, non a tutto ciò che si produce, specie là dove
si avverte il sapore di sabbia e di ruggine che emana dalla mancanza di
ispirazione. Penso che valga per il teatro di Sakespeare, non certo per quello
di Dario Fo, per le canzoni dei Beatles e di Fabrizio De Andrè, non per quelle
di Roberto Vecchioni o di Jovanotti, per i romanzi di Gustave Flaubert non per
quelli di Roberto Saviano.
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