Quando il giudice della corte d’assise di Crotone lesse la sentenza, mi cadde il mondo addosso. “Ergastolo”, per l’ omicidio di Violetta Bersi. Certo, io, io, il carabiniere scelto Demetrio Barbuto, di San Mauro Marchesato, l’avevo uccisa, ma non perché fossi un assassino. Per troppo amore io l’avevo uccisa, per non vederla soffrire, perché Violetta era una creatura fragile, assetata d’amore anche lei, che viveva soffrendo e cercava di lenire la sua sofferenza amando gli uomini e a tanti concedendo una briciola, una scintilla del suo cuore infuocato. Io fui l’ultimo di questi uomini.
I giorni scorrevano lenti nel carcere di Catanzaro. Speravo di
poter uscire un giorno, di fare in tempo
a rivedere i luoghi che avevano visto il nostro amore, di respirare l’aria che
noi un giorno avevamo respirato. Ma fui colpito da un male che non perdona e mi
rassegnai. Si nasce a fatica, si cresce a fatica, si vive a fatica e di solito
si fa fatica anche a cedere. Però si cede lo stesso. Quando capii che era
arrivato il mio ultimo giorno, chiesi soltanto di poter essere seppellito nel
piccolo cimitero di Scandale, lo stesso dove era seppellita Violetta. Avevo
scontato solo dieci anni di pena.
Ora sono qui, tra persone che non ho conosciuto o che ho conosciuto appena. La mia tomba è spoglia. Tanti, che sollevano lo sguardo ad osservare il
mio ritratto in divisa, forse non sanno nemmeno chi io sia. Da qui vedo di
scorcio, in lontananza, la tomba di Violetta. Anche la sua è spoglia. Sono
passati tanti anni da allora e ad altri oggi è sortito l'assaporare l’aura del giorno e i raggi del sole. Mi
piacerebbe poter godere soltanto di un
po’ di luce, un po’ di luce…
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Le voci del silenzio:Violetta Bersi
Violetta spensierata
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