martedì 16 luglio 2013

Le voci del silenzio: Maria Scaramuzzino


Con le mie gambe malferme, lentamente, mi muovevo per arrivare a casa tua. Attraversavo quasi tutto il paese e ogni tanto mi soffermavo per cercare di riconoscere i pochi che mi sfioravano, squadrandoli  o girandomi indietro per inseguirli con lo sguardo nel loro cammino. Ma in ogni tempo, col freddo dell’inverno o nella calura dell’estate, custodivo bene stretta una lettera che veniva da lontano. Se non c’eri,  ti aspettavo con trepidazione e, quando arrivavi, tu aprivi  subito la lettera che io riponevo nelle tue mani. Stavi attento a non lacerarla troppo, perché quella lettera probabilmente conteneva dei dollari, che avevano superato i mari e i monti, ma soprattutto avevano superato  la bramosia e la mancanza di scrupoli  degli impiegati  di due continenti. Erano i miei figli a mandarmi quei soldi, quelli, tra i miei figli, che un giorno erano partiti per terre lontane. Io parlavo con loro attraverso di te e tu, giovane studente, mi seguivi  con lo sguardo e badavi a non sciupare l’incanto di quel dialogo che superava le barriere dello spazio e del tempo. Ogni tanto mi commuovevo. Poi tua madre veniva immancabilmente  a portare della frutta, magari un cesto di pere o un vassoio pieno di fichi d’india già sbucciati, ed io ero contenta di quel dono. Dimenticavo per un attimo le  gioie e i dolori della vita.

Ho conosciuto giorni lieti e tristi, ma ho accettato la vita, godendo e assaporando la linfa del giorno. Non ho gioito oltre misura e non ho imprecato o gridato, perché sapevo che la vita è un dono e  che, in ogni caso, essa è degna di essere vissuta. Nella luce che mi circonda, ora la mia famiglia è diventata tanto più grande e nessuno abbandona più il luogo che gli è stato assegnato. Noi siamo qui per l’eternità.

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