Tre condizioni sono necessarie per la felicità: essere imbecilli, essere egoisti e godere di buona salute. Ma, se manca la prima, tutto il resto è inutile. (Gustave Flaubert)
domenica 28 luglio 2013
mercoledì 24 luglio 2013
Una battuta di caccia (Racconto) di Alfredo Giglio
Masino Bevilacqua
era un povero contadino di Scandale, figlio di contadini e discendente da una
ininterrotta generazione di contadini. Dal paese fino al suo podere c’era una
distanza di sette chilometri, su un sentiero impervio, che Masino percorreva
quotidianamente in groppa al suo asino, non dimenticando mai di portare con sé
anche la vecchia doppietta da caccia a cani esterni, appartenuta a suo
padre, ma ancora perfettamente funzionante.
La passione per la
caccia l’aveva ereditata dal genitore e dal nonno, come pure quel piccolo podere,
posto su una collina e talmente arido che, camminando fra le piante, non si
poteva fare a meno di sollevare nugoli di polvere. La sua fertilità era
affidata alla pioggia, che oltretutto scorreva via facilmente a causa della
ripidità del terreno. Il podere era
coltivato parte a vigneto e parte ad
uliveto ed il lavoro era tanto: Masino
si spaccava le mani e la schiena, ma la resa era sempre scarsa. Per produrre un quintale di olio all’anno, e solo quando
era “buon’annata”, occorreva raccogliere le olive da terra una ad una: venti giorni di duro lavoro per lui e la povera moglie, costretta ad
affidare ai vecchi nonni i tre figli ancora piccoli. Il vigneto produceva due o
tre quintali di vino, che egli era
costretto a rivendere in parte al minuto, per procurarsi un po’ di denaro
contante. Per cercare di sfruttare al massimo la terra e ricavarne un maggiore
profitto, Masino piantava anche, fra gli ulivi, fave o altre colture che non
necessitavano di acqua.
La caccia la praticava
soprattutto per necessità: portare a casa una lepre, qualche colombaccio, un
tasso, delle tortore, quaglie o tordi non era cosa da poco, perché questa era
l’unica carne che la famiglia poteva permettersi. Aveva poi scoperto che le
pelli di volpe erano ancora richieste da una conceria della Toscana e perciò la
caccia alla volpe era diventata un passatempo impegnativo e fonte di qualche ulteriore
guadagno. Riusciva a collezionare in una stagione di caccia anche venti pelli,
che cospargeva prima di sale e poi di una soluzione arsenicale, per allontanare
il fenomeno della putrefazione. Poi le conservava con cura in un magazzino, al
fresco, fino alla fine di giugno, quando passava il furgone della ditta che le
ritirava, in cambio di un assegno, che
gli consentiva di tirare avanti per qualche mese. Masino non teneva conto dei
periodi di apertura e chiusura della caccia, un po’ perché era analfabeta e un
po’ perchè sapeva benissimo che in quelle campagne assolate, lontano dalle
strade asfaltate, era difficilissimo imbattersi in pattuglie di carabinieri o
di poliziotti. Al massimo si sarebbe imbattuto nelle guardie forestali, che lui
conosceva benissimo e che cercava di intravedere a distanza, per poter cambiare
strada.
Una mattina di
inizio aprile, Masino decise di andare a caccia col suo fedele segugio, nella
speranza di uccidere qualche volpe. Se l’avessero pescato, avrebbe detto che
era a caccia di animali nocivi, perché, secondo una stupida direttiva allora
vigente, tali cacciatori erano tollerati e anzi osannati. In realtà i
cacciatori ne approfittavano per poter sparare, prima dell’apertura della caccia,
alle tortore e alle quaglie che numerose
giungevano dall’Africa sul litorale ionico, per poi proseguire verso l’altopiano
della Sila.
Era partito da casa verso
l’alba, tenendo il fido Liù legato con una lunga corda al basto dell’asino.
Aveva chiamato il cane "Liunu" (Leone), che però riduceva sempre a "Liù": un
segugio coraggioso e resistente, che più volte nei boschi di Turrutio era
riuscito a stanare persino dei grossi cinghiali, che poi Masino, con gioia ed
orgoglio, aveva uccisi e caricati sull’asino per portarli a casa.
Quella mattina,
giunto su una collinetta ricca di piante di lentisco, aveva liberato il cane,
che col naso incollato al terreno cercava di individuare la traccia da seguire.
Dopo una decina di minuti, i guaiti concitati dell'animale attirarono l’attenzione
di Masino, che subito nascose l’asino nel folto della vegetazione profumata di
lentischi frammisti a rovi intricati, lecci e tamerici, mimetizzandosi lui
stesso nella fitta macchia verde e ponendosi in posizione di mira. Il sole era
sorto da poco e le ombre degli alberi erano lunghe come fantasmi. Ma, pur in
quell’atmosfera di luci e di ombre, il cacciatore non tardò ad individuare la
preda: una volpe dava fondo a tutta la sua astuzia e a tutta la sua esperienza
per seminare il segugio, che l’inseguiva e non le dava respiro. Già una
volta i due animali erano passati a tiro
davanti a Masino, che non aveva potuto sparare perché Liù era troppo vicino
alla volpe.
Ad un tratto i
guaiti del segugio incominciarono ad affievolirsi fino a non sentirsi più e Masino
capì che preda ed inseguitore si erano allontanati parecchio. Rimase fermo e
pensieroso, tenendo in mano la sua vecchia doppietta e, dopo una ventina di
minuti, abbassò i cani del fucile, che sistemò sulla spalla.
Dopo più di un’ora,
il sole era alto nel cielo e faceva sentire il suo tepore. L’aria si riempiva
di moscerini e di farfalle. Masino salì in groppa all’asino e si diresse verso
il fondovalle dove, a circa due chilometri di distanza, si intravedeva un burrone,
coperto da una vegetazione folta, spinosa ed intricata, quasi impenetrabile:
probabilmente la volpe aveva attirato il cane proprio lì. Lei, più agile e più
piccola, si sarebbe mossa agevolmente nel sottobosco e sarebbe sfuggita alla caccia spietata del cane.
Giunto al burrone,
che rimaneva sottostante al sentiero, Masino sistemò l’asino all’ombra di un
leccio e proseguì a piedi. Finalmente, dopo una mezz’ora di cammino, sentì
lontano l’abbaiare stentato del cane, molto diverso dal guaire frenetico e
gioioso di prima. Capì che Liù doveva
essere arrivato al limite delle forze e si inoltrò decisamente nel folto della vegetazione, che
ricopriva il letto di un torrente ormai secco e pietroso. Camminava più svelto
che poteva, tendendo l’orecchio per individuare l’esatta posizione dei due
animali. Dopo un po’, la voce del segugio, che forse aveva avvertito la
presenza del padrone, si udì netta e ferma. Masino, col cuore in gola,
s’avvicinò circospetto, aspettando che la volpe balzasse fuori per darsi alla
fuga: un minuto, due minuti, non succedeva nulla!
Spiò nel folto della
vegetazione ed intravide una scena che non si aspettava proprio. In quel punto
gli argini del burrone erano franati e la corsa della volpe, ormai stanchissima
come il cane, era terminata. Il segugio era immobile su di lei, che si era
posizionata a zampe in aria in segno di resa e forse attendeva l’assalto
finale, che l’avrebbe condotta a morte sicura. Masino era contento, ma
commosso: non aveva il coraggio di infierire su una combattente valorosa,
contro la quale anche il cane si era fermato, quasi a renderle l’onore delle armi. Chiamò Liù al suo
fianco e attese che la volpe si movesse. L’animale era ferito, insanguinato, ma ancora vivo: si fermò
solo un attimo ad osservare i suoi
antagonisti, poi si girò e, trotterellando, si allontanò, perdendosi fra la
macchia. Masino notò che la volpe aveva le mammelle turgide e capì che, da
qualche parte nei dintorni, doveva esserci la nidiata dei volpacchiotti. Maturò
l’idea di catturare proprio quei volpacchiotti, che avrebbe potuto allevare e
poi vendere, e per quel giorno decise di lasciar perdere.
Il giorno seguente,
sempre all’alba, partì senza il cane. Aveva già capito dove potesse essere la
tana di quella volpe e portava con sé solo una corta vanga. Dopo quasi mezz’ora
di ricerche, quando c’era già luce sufficiente, individuò, ai piedi di una
collina d’arenaria, un buco per terra, largo circa 25 centimetri: fuori erano
visibili numerose impronte di volpe adulta e di almeno due cuccioli.
Scese dall’asino,
lasciandolo libero di pascolare sul terreno arido, e cominciò a scavare con la
vanga per allargare l’ingresso della tana: era deciso a catturare i piccoli,
che probabilmente erano anche più di due. Dopo avere allargato abbastanza il foro
d’ingresso della tana, si piegò e s’infilò, strisciando per terra come un
serpente, per circa due metri, fino a sentire dei rumori. Non vedeva nulla a
causa del buio, ma anche perché il cunicolo faceva una leggera curva a
sinistra. Masino, che non era tipo da arrendersi, pensò che fare altri due o
tre metri fosse cosa ardua ma non impossibile. Continuò ad avanzare caparbiamente e percorse un altro metro,
quando avvertì un leggero flusso d’aria e capì che la tana doveva avere
un’altra uscita, cosa che non aveva preso in considerazione. Decise di uscire
da quella trappola, perché intuì che non
avrebbe trovato niente.
Ma ormai era troppo tardi:
era penetrato troppo ed uscire spingendosi all’indietro, senza poter muovere le
braccia che erano rimaste bloccate in avanti, era praticamente impossibile. Si
sentì perduto, perse la calma, si dimenò un pochino e, facendo forza sulla schiena
e sui fianchi, causò una frana che si richiuse
sopra di lui, togliendogli il respiro e la vita.
A sera inoltrata
iniziarono le ricerche della famiglia e degli amici, al chiarore di una luna
piena che impassibile illuminava il
cielo, e solo verso la mezzanotte il suo fedele Liù lo ritrovò sepolto sotto la
collina. Cominciò ad abbaiare ed a smuovere il terreno con le zampe, attirando
l’attenzione di quella decina di persone che si erano impegnate a trovarlo.
Dopo un’ora di scavo, Masino venne tirato fuori, morto, coi vestiti strappati
nell’immane sforzo di uscire da quella tana. La moglie, che era presente,
pianse disperatamente, si graffiò il volto e si strappò i capelli, inutilmente
trattenuta dai presenti. Tutti piangevano per la sua morte e per il destino di
quella povera donna che da sola avrebbe
dovuto accudire i suoi tre bambini. Poi gli amici costruirono una rudimentale
lettiga con rami e vimini variamente intrecciati e vi adagiarono il povero
Masino, limitandosi a ricoprirne il volto con una giacca. La mesta processione
si mosse, superò strade e viottoli di campagna e giunse in paese, quando la
notizia si era già sparsa. Tanti si fecero il segno della Croce al passaggio e
tanti si accodarono per accompagnare
Masino nel suo ultimo ritorno a casa.
Da quel giorno in paese si
sparse la leggenda che le tane
delle volpi erano protette da una divinità malefica, che dava la morte a chi
avesse osato profanarle.
Alfredo Giglio
Alfredo Giglio
venerdì 19 luglio 2013
"Il tempo di un respiro" di Lucia Romani
Lucia Romani
è una giovane signora toscana. Un anno fa ha pubblicato il libro Il tempo
di un respiro. Ne riporto la presentazione.
Ho conosciuto Lucia Romani qualche anno fa
su Internet, in uno dei tanti social
network che oggi costituiscono la croce
e la delizia dei tempi che viviamo. La persona mi incuriosiva per tanti motivi.
Lucia, o Lu’, come tutti la chiamavano, diceva cose non banali e rivelava nelle
sue parole un’intensità di vita, che non è dato riscontrare normalmente nei
discorsi che si fanno in tali siti.
Dopo i primi scambi di battute, rituali e scontati in simili circostanze, passammo a
parlare d’altro. Così seppi che Lu’ viveva ad Abbadia San Salvatore, che era
sposata ed aveva due figli, che lavorava in uno studio notarile. Pensai in un
primo momento al caso, non infrequente, di una persona che cerca di
interrompere il grigiore e la routine della vita quotidiana, ma fui anche
felicemente sorpreso di constatare che lei aveva gusti estetici raffinati: cantava
come soprano nel locale coro di Abbadia, amava Ivano Fossati e Zucchero,
prediligeva Mozart, leggeva l’ Imitazione
di Cristo di Tommaso da Kempis e i grandi romanzieri della seconda metà
dell’Ottocento, come Gustave Flaubert e Leone Tolstoj.
Poi, con il passare del tempo, venni a
sapere altro. Fu lei stessa a dirmi che era reduce da due lutti familiari, che avevano profondamente
segnato la sua vita. Nel 1989 era morta la madre Giovanna Antida e nel 1994 era
morta, in giovane età, la sorella Grazietta. Me ne parlò con pudore, con
l’esitazione tipica delle persone che quasi hanno paura di dare libero sfogo
all’onda dei sentimenti. Fui io ad insistere perché mi raccontasse tutto, un
po’ perché sono naturalmente desideroso di conoscere gli accadimenti umani di
chi per un verso o per l’altro entra nella mia vita, ma anche, e soprattutto,
perché mi venne voglia di sapere tutto di lei e della sua famiglia.
Poi, per un lungo periodo di tempo, non
parlammo più di queste vicende. Proprio in quel periodo avevo iniziato a
collaborare con una rivista mensile, per la quale scrivevo dei racconti. Lei molte volte lesse questi racconti in
anteprima e mi fu utile in molte circostanze, suggerendomi qualche titolo e
rivelando inoltre un vivo interesse per quello che scrivevo.
Un giorno le suggerii, senza troppa
convinzione e quasi per un riflesso automatico, di cimentarsi nella scrittura
e di raccontare le vicende della sorella
Grazietta. Speravo, forse in maniera inconscia,
di avere in tal modo un quadro completo e organico delle vicende che lei
mi aveva raccontato in momenti diversi e in modo frammentario.
Lu’ prese molto seriamente il suo compito e,
nell’arco di un mese o poco più, ne cavò fuori questo libro. Me lo mandò in lettura via e-mail in un
pomeriggio di Settembre e lo lessi con un’ emozione, che mi impedì di staccare
gli occhi dal testo prima di essere arrivato alla parola “Fine”.
Non ho esitazione a dire che questo
libro non solo mi ha emotivamente
coinvolto, ma mi ha anche profondamente commosso, tanto che, quando Lu’ ha
deciso di pubblicarlo e me ne ha chiesto
una presentazione, ho accettato con piacere di scrivere queste brevi note.
Potrà sembrare strano che ciò accada, ma
bisogna dire per prima cosa che la narrazione è pacata e tranquilla e che proprio per questo ha una forza emotiva straordinariamente intensa.
Le sue parole, prive di orpelli e di ridondanze, sembrano ricondotte al loro
significato primigenio e colpiscono con la forza del ricordo la mente e il
cuore di chi già sa o vuole sapere che
cosa significhi l’affetto tra sorelle, un affetto grande, più grande della vita
e della morte.
Per uno strano caso ho avvertito , sia nel
titolo, sia nella narrazione, l’eco lontana di un libro che a suo tempo fu
famoso. In quel libro, Breve come un
sospiro, Anne Philippe raccontò nel 1964 la scomparsa del marito, l’attore francese
Gérard Plilipe, morto all’età di 37 anni per un tumore. Il racconto di Anne
Philipe ebbe allora un grande successo ed è ancora considerato un piccolo
gioiello della letteratura memorialistica.
Orbene, con la stessa convinzione sento di
poter dire che anche il lungo racconto di
Lucia Romani, questo diario di un dolore, deve essere considerato un piccolo
gioiello e merita di essere conosciuto.
Ezio Scaramuzzino
martedì 16 luglio 2013
Le voci del silenzio: Maria Scaramuzzino
Con le mie gambe malferme,
lentamente, mi muovevo per arrivare a casa tua. Attraversavo quasi tutto il
paese e ogni tanto mi soffermavo per cercare di riconoscere i pochi che mi
sfioravano, squadrandoli o girandomi indietro
per inseguirli con lo sguardo nel loro cammino. Ma in ogni tempo, col freddo dell’inverno
o nella calura dell’estate, custodivo bene stretta una lettera che veniva
da lontano. Se non c’eri, ti aspettavo
con trepidazione e, quando arrivavi, tu aprivi subito la lettera che io riponevo nelle tue
mani. Stavi attento a non lacerarla troppo, perché quella lettera probabilmente
conteneva dei dollari, che avevano superato i mari e i monti, ma soprattutto
avevano superato la bramosia e la
mancanza di scrupoli degli
impiegati di due continenti. Erano i
miei figli a mandarmi quei soldi, quelli, tra i miei figli, che un giorno erano
partiti per terre lontane. Io parlavo con loro attraverso di te e tu, giovane
studente, mi seguivi con lo sguardo e
badavi a non sciupare l’incanto di quel dialogo che superava le barriere dello
spazio e del tempo. Ogni tanto mi commuovevo. Poi tua madre veniva
immancabilmente a portare della frutta,
magari un cesto di pere o un vassoio pieno di fichi d’india già sbucciati, ed
io ero contenta di quel dono. Dimenticavo per un attimo le gioie e i dolori della vita.
Ho conosciuto giorni lieti e tristi,
ma ho accettato la vita, godendo e assaporando la linfa del giorno. Non ho gioito
oltre misura e non ho imprecato o gridato, perché sapevo che la vita è un dono
e che, in ogni caso, essa è degna di
essere vissuta. Nella luce che mi circonda, ora la mia famiglia è diventata
tanto più grande e nessuno abbandona più il luogo che gli è stato assegnato.
Noi siamo qui per l’eternità.
sabato 13 luglio 2013
sabato 6 luglio 2013
Le voci del silenzio: Violetta Bersi
Sin
da bambina mi è piaciuto sognare e, per alimentare i miei sogni, ho letto Grand Hotel, Le grandi firme, Bolero. Su quelle pagine ho immaginato avventure
meravigliose ed ho dato alimento alle mie fantasie. Poi quei sogni ho cercato
di viverli nella realtà.
Io
so bene quel che dicevano gli Scandalesi,
quando mi vedevano passare con il mio Alfredo. Lo capivo da quello che farfugliavano
sottovoce e che si scambiavano l’un l’altro. Dicevano che ero una poco di buono
e talvolta anche di peggio: che non ci stavo con la testa e per questo
bisognava essere indulgenti con me. Anche i bambini mi additavano ed io non
potei sfuggire al mio destino: ero segnata ormai.
E’
vero: ho amato molto ed ho conosciuto degli uomini. Ma in realtà io ho amato
l’amore e la vita e nell’ amore terreno ho solo cercato una scintilla di quello
celeste. Ora che sono qui, posso anche dirlo. Qui nessuno mi accusa ed anzi ciò
che mi è stato dato è la ricompensa per ciò che io ho dato.
Ditelo
al mio Alfredo, che trascina stancamente gli ultimi anni della sua vita. Il mio
amore coniugale non è venuto mai meno e, quando
Demetrio mi ha sottratta con la violenza alla luce effimera del giorno, il mio ultimo pensiero è stato per
lui. Continuo a serbarlo nella memoria e, nella luce imperitura che adesso mi avvolge, prego.
lunedì 1 luglio 2013
Le voci del silenzio: Giovannina Belvedere
Ero “la maestra
Belvedere”, per tutti. La vita era per me una missione ed io non mi sono
sottratta a quanto il destino aveva stabilito. Per anni, ogni giorno sono
uscita di casa per ritrovare i miei bambini, che erano anche i tanti miei figli. Si viveva
di poco allora. Nelle aule fredde e nude, d’inverno appena riscaldate dalla
carbonella accesa, su lavagne scrostate, su cattedre e banchi sconnessi, ho
insegnato loro a leggere e a scrivere, a far di conto, ho insegnato come è
fatto il mondo e quel che gli uomini hanno operato nel corso del tempo. Ma
soprattutto ho insegnato loro l’amore per la vita. Ora che vivo lungo i pascoli
del cielo, non ho più nulla da insegnare. Insieme ai tanti che mi hanno
raggiunta, vivo nella luce e non avverto nemmeno il bisogno di apprendere. Ora so ed
intuisco nel balenio della mente che cosa è
l’Alfa e l’Omega, l’Essere, il
Tutto, l’Infinito.
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