domenica 28 luglio 2013

Giorni d'estate


By Giuseppe Franco
Crotone, 28 luglio 2013 
Tratto di Viale Gramsci e spiaggia.

mercoledì 24 luglio 2013

Una battuta di caccia (Racconto) di Alfredo Giglio

                                       

Masino Bevilacqua era un povero contadino di Scandale, figlio di contadini e discendente da una ininterrotta generazione di contadini. Dal paese fino al suo podere c’era una distanza di sette chilometri, su un sentiero impervio, che Masino percorreva quotidianamente in groppa al suo asino, non dimenticando mai di portare con sé anche la vecchia doppietta da caccia a cani esterni, appartenuta a suo padre,  ma ancora perfettamente funzionante.
La passione per la caccia l’aveva ereditata dal genitore e dal nonno, come pure quel piccolo podere, posto su una collina e talmente arido che, camminando fra le piante, non si poteva fare a meno di sollevare nugoli di polvere. La sua fertilità era affidata alla pioggia, che oltretutto scorreva via facilmente a causa della ripidità del terreno.  Il podere era coltivato parte  a vigneto e parte ad uliveto ed  il lavoro era tanto: Masino si spaccava le mani e la schiena, ma la resa era sempre scarsa. Per produrre  un quintale di olio all’anno, e solo quando era “buon’annata”, occorreva raccogliere le olive da terra una ad una: venti giorni di duro lavoro per lui e la povera moglie, costretta ad affidare ai vecchi nonni i tre figli ancora piccoli. Il vigneto produceva due o tre  quintali di vino, che egli era costretto a rivendere in parte al minuto, per procurarsi un po’ di denaro contante. Per cercare di sfruttare al massimo la terra e ricavarne un maggiore profitto, Masino piantava anche, fra gli ulivi, fave o altre colture che non necessitavano di acqua.
La caccia la praticava soprattutto per necessità: portare a casa una lepre, qualche colombaccio, un tasso, delle tortore, quaglie o tordi non era cosa da poco, perché questa era l’unica carne che la famiglia poteva permettersi. Aveva poi scoperto che le pelli di volpe erano ancora richieste da una conceria della Toscana e perciò la caccia alla volpe era diventata un passatempo impegnativo e fonte di qualche ulteriore guadagno. Riusciva a collezionare in una stagione di caccia anche venti pelli, che cospargeva prima di sale e poi di una soluzione arsenicale, per allontanare il fenomeno della putrefazione. Poi le conservava con cura in un magazzino, al fresco, fino alla fine di giugno, quando passava il furgone della ditta che le ritirava, in cambio di un  assegno, che gli consentiva di tirare avanti per qualche mese. Masino non teneva conto dei periodi di apertura e chiusura della caccia, un po’ perché era analfabeta e un po’ perchè sapeva benissimo che in quelle campagne assolate, lontano dalle strade asfaltate, era difficilissimo imbattersi in pattuglie di carabinieri o di poliziotti. Al massimo si sarebbe imbattuto nelle guardie forestali, che lui conosceva benissimo e che cercava di intravedere a distanza, per poter cambiare strada.
Una mattina di inizio aprile, Masino decise di andare a caccia col suo fedele segugio, nella speranza di uccidere qualche volpe. Se l’avessero pescato, avrebbe detto che era a caccia di animali nocivi, perché, secondo una stupida direttiva allora vigente, tali cacciatori erano tollerati e anzi osannati. In realtà i cacciatori ne approfittavano per poter sparare, prima dell’apertura della caccia, alle tortore e alle quaglie  che numerose giungevano dall’Africa sul litorale ionico, per poi proseguire verso l’altopiano della Sila.
Era partito da casa verso l’alba, tenendo il fido Liù legato con una lunga corda al basto dell’asino. Aveva chiamato il cane "Liunu" (Leone), che però riduceva sempre a "Liù": un segugio coraggioso e resistente, che più volte nei boschi di Turrutio era riuscito a stanare persino dei grossi cinghiali, che poi Masino, con gioia ed orgoglio, aveva uccisi e caricati sull’asino per portarli a casa.
Quella mattina, giunto su una collinetta ricca di piante di lentisco, aveva liberato il cane, che col naso incollato al terreno cercava di individuare la traccia da seguire. Dopo una decina di minuti, i guaiti concitati dell'animale attirarono l’attenzione di Masino, che subito nascose l’asino nel folto della vegetazione profumata di lentischi frammisti a rovi intricati, lecci e tamerici, mimetizzandosi lui stesso nella fitta macchia verde e ponendosi in posizione di mira. Il sole era sorto da poco e le ombre degli alberi erano lunghe come fantasmi. Ma, pur in quell’atmosfera di luci e di ombre, il cacciatore non tardò ad individuare la preda: una volpe dava fondo a tutta la sua astuzia e a tutta la sua esperienza per seminare il segugio, che l’inseguiva e non le dava respiro. Già una volta  i due animali erano passati a tiro davanti a Masino, che non aveva potuto sparare perché Liù era troppo vicino alla volpe.
Ad un tratto i guaiti del segugio incominciarono ad affievolirsi fino a non sentirsi più e Masino capì che preda ed inseguitore si erano allontanati parecchio. Rimase fermo e pensieroso, tenendo in mano la sua vecchia doppietta e, dopo una ventina di minuti, abbassò i cani del fucile, che sistemò sulla spalla.
Dopo più di un’ora, il sole era alto nel cielo e faceva sentire il suo tepore. L’aria si riempiva di moscerini e di farfalle. Masino salì in groppa all’asino e si diresse verso il fondovalle dove, a circa due chilometri di distanza, si intravedeva un burrone, coperto da una vegetazione folta, spinosa ed intricata, quasi impenetrabile: probabilmente la volpe aveva attirato il cane proprio lì. Lei, più agile e più piccola, si sarebbe mossa agevolmente nel sottobosco e sarebbe sfuggita alla  caccia spietata del cane.
Giunto al burrone, che rimaneva sottostante al sentiero, Masino sistemò l’asino all’ombra di un leccio e proseguì a piedi. Finalmente, dopo una mezz’ora di cammino, sentì lontano l’abbaiare stentato del cane, molto diverso dal guaire frenetico e gioioso di prima. Capì che Liù doveva essere arrivato al limite delle forze e si inoltrò  decisamente nel folto della vegetazione, che ricopriva il letto di un torrente ormai secco e pietroso. Camminava più svelto che poteva, tendendo l’orecchio per individuare l’esatta posizione dei due animali. Dopo un po’, la voce del segugio, che forse aveva avvertito la presenza del padrone, si udì netta e ferma. Masino, col cuore in gola, s’avvicinò circospetto, aspettando che la volpe balzasse fuori per darsi alla fuga: un minuto, due minuti, non succedeva nulla!
Spiò nel folto della vegetazione ed intravide una scena che non si aspettava proprio. In quel punto gli argini del burrone erano franati e la corsa della volpe, ormai stanchissima come il cane, era terminata. Il segugio era immobile su di lei, che si era posizionata a zampe in aria in segno di resa e forse attendeva l’assalto finale, che l’avrebbe condotta a morte sicura. Masino era contento, ma commosso: non aveva il coraggio di infierire su una combattente valorosa, contro la quale anche il cane si era fermato, quasi a  renderle l’onore delle armi. Chiamò Liù al suo fianco e attese che la volpe si movesse. L’animale era ferito, insanguinato, ma ancora vivo: si fermò solo  un attimo ad osservare i suoi antagonisti, poi si girò e, trotterellando, si allontanò, perdendosi fra la macchia. Masino notò che la volpe aveva le mammelle turgide e capì che, da qualche parte nei dintorni, doveva esserci la nidiata dei volpacchiotti. Maturò l’idea di catturare proprio quei volpacchiotti, che avrebbe potuto allevare e poi vendere, e per quel giorno decise di lasciar perdere.
Il giorno seguente, sempre all’alba, partì senza il cane. Aveva già capito dove potesse essere la tana di quella volpe e portava con sé solo una corta vanga. Dopo quasi mezz’ora di ricerche, quando c’era già luce sufficiente, individuò, ai piedi di una collina d’arenaria, un buco per terra, largo circa 25 centimetri: fuori erano visibili numerose impronte di volpe adulta e di almeno due cuccioli.
Scese dall’asino, lasciandolo libero di pascolare sul terreno arido, e cominciò a scavare con la vanga per allargare l’ingresso della tana: era deciso a catturare i piccoli, che probabilmente erano anche più di due. Dopo avere allargato abbastanza il foro d’ingresso della tana, si piegò e s’infilò, strisciando per terra come un serpente, per circa due metri, fino a sentire dei rumori. Non vedeva nulla a causa del buio, ma anche perché il cunicolo faceva una leggera curva a sinistra. Masino, che non era tipo da arrendersi, pensò che fare altri due o tre metri fosse cosa ardua ma non impossibile. Continuò ad avanzare caparbiamente e percorse un altro metro, quando avvertì un leggero flusso d’aria e capì che la tana doveva avere un’altra uscita, cosa che non aveva preso in considerazione. Decise di uscire da quella trappola, perché intuì che  non avrebbe trovato niente.
Ma ormai era troppo tardi: era penetrato troppo ed uscire spingendosi all’indietro, senza poter muovere le braccia che erano rimaste bloccate in avanti, era praticamente impossibile. Si sentì perduto, perse la calma, si dimenò un pochino e, facendo forza sulla schiena e sui fianchi, causò una frana  che si richiuse sopra di lui, togliendogli il respiro e la vita.
A sera inoltrata iniziarono le ricerche della famiglia e degli amici, al chiarore di una luna piena che impassibile illuminava  il cielo, e solo verso la mezzanotte il suo fedele Liù lo ritrovò sepolto sotto la collina. Cominciò ad abbaiare ed a smuovere il terreno con le zampe, attirando l’attenzione di quella decina di persone che si erano impegnate a trovarlo. Dopo un’ora di scavo, Masino venne tirato fuori, morto, coi vestiti strappati nell’immane sforzo di uscire da quella tana. La moglie, che era presente, pianse disperatamente, si graffiò il volto e si strappò i capelli, inutilmente trattenuta dai presenti. Tutti piangevano per la sua morte e per il destino di quella povera donna che  da sola avrebbe dovuto accudire i suoi tre bambini. Poi gli amici costruirono una rudimentale lettiga con rami e vimini variamente intrecciati e vi adagiarono il povero Masino, limitandosi a ricoprirne il volto con una giacca. La mesta processione si mosse, superò strade e viottoli di campagna e giunse in paese, quando la notizia si era già sparsa. Tanti si fecero il segno della Croce al passaggio e tanti si accodarono per accompagnare  Masino nel suo ultimo ritorno a casa.
Da quel giorno in paese si sparse  la leggenda che le tane delle volpi erano protette da una divinità malefica, che dava la morte a chi avesse osato profanarle.

Alfredo Giglio


venerdì 19 luglio 2013

"Il tempo di un respiro" di Lucia Romani

Lucia Romani è una giovane signora toscana. Un anno fa ha pubblicato il libro  Il tempo di un respiro. Ne riporto la presentazione. 


Ho conosciuto Lucia Romani qualche anno fa su Internet, in uno dei  tanti social network  che oggi costituiscono la croce e la delizia dei tempi che viviamo. La persona mi incuriosiva per tanti motivi. Lucia, o Lu’, come tutti la chiamavano, diceva cose non banali e rivelava nelle sue parole un’intensità di vita, che non è dato riscontrare normalmente nei discorsi che si fanno in tali siti.
Dopo i primi scambi di battute, rituali  e scontati in simili circostanze, passammo a parlare d’altro. Così seppi che Lu’ viveva ad Abbadia San Salvatore, che era sposata ed aveva due figli, che lavorava in uno studio notarile. Pensai in un primo momento al caso, non infrequente, di una persona che cerca di interrompere il grigiore e la routine della vita quotidiana, ma fui anche felicemente sorpreso di constatare che lei aveva gusti estetici raffinati: cantava come soprano nel locale coro di Abbadia, amava Ivano Fossati e Zucchero, prediligeva Mozart, leggeva l’ Imitazione di Cristo di Tommaso da Kempis e i grandi romanzieri della seconda metà dell’Ottocento, come Gustave Flaubert e Leone Tolstoj.
Poi, con il passare del tempo, venni a sapere altro. Fu lei stessa a dirmi che era reduce da due  lutti familiari, che avevano profondamente segnato la sua vita. Nel 1989 era morta la madre Giovanna Antida e nel 1994 era morta, in giovane età, la sorella Grazietta. Me ne parlò con pudore, con l’esitazione tipica delle persone che quasi hanno paura di dare libero sfogo all’onda dei sentimenti. Fui io ad insistere perché mi raccontasse tutto, un po’ perché sono naturalmente desideroso di conoscere gli accadimenti umani di chi per un verso o per l’altro entra nella mia vita, ma anche, e soprattutto, perché mi venne voglia di sapere tutto di lei e della sua famiglia.
Poi, per un lungo periodo di tempo, non parlammo più di queste vicende. Proprio in quel periodo avevo iniziato a collaborare con una rivista mensile, per la quale scrivevo dei racconti.  Lei molte volte lesse questi racconti in anteprima e mi fu utile in molte circostanze, suggerendomi qualche titolo e rivelando inoltre un vivo interesse per quello che scrivevo.
Un giorno le suggerii, senza troppa convinzione e quasi per un riflesso automatico, di cimentarsi nella scrittura e  di raccontare le vicende della sorella Grazietta. Speravo, forse in maniera inconscia,  di avere in tal modo un quadro completo e organico delle vicende che lei mi aveva raccontato in momenti diversi e in modo frammentario.
Lu’ prese molto seriamente il suo compito e, nell’arco di un mese o poco più, ne cavò fuori questo  libro. Me lo mandò in lettura via e-mail   in un pomeriggio di Settembre e  lo lessi  con un’ emozione, che mi impedì di staccare gli occhi dal testo prima di essere arrivato alla parola “Fine”.
Non ho esitazione a dire che questo libro  non solo mi ha emotivamente coinvolto, ma mi ha anche profondamente commosso, tanto che, quando Lu’ ha deciso di pubblicarlo e me ne ha chiesto  una presentazione, ho accettato con piacere di scrivere queste brevi note.
Potrà sembrare strano che ciò accada, ma bisogna dire per prima cosa che la narrazione è pacata  e tranquilla e che proprio per questo  ha una forza emotiva straordinariamente intensa. Le sue parole, prive di orpelli e di ridondanze, sembrano ricondotte al loro significato primigenio e colpiscono con la forza del ricordo la mente e il cuore di chi già sa o  vuole sapere che cosa significhi l’affetto tra sorelle, un affetto grande, più grande della vita e della morte.
Per uno strano caso ho avvertito , sia nel titolo, sia nella narrazione, l’eco lontana di un libro che a suo tempo fu famoso. In quel libro, Breve come un sospiro,  Anne Philippe  raccontò nel 1964  la scomparsa del marito, l’attore francese Gérard Plilipe, morto all’età di 37 anni per un tumore. Il racconto di Anne Philipe ebbe allora un grande successo ed è ancora considerato un piccolo gioiello della letteratura memorialistica.
Orbene, con la stessa convinzione sento di poter dire che anche il lungo racconto  di Lucia Romani, questo diario di un dolore, deve essere considerato un piccolo gioiello e merita di essere conosciuto.

Ezio Scaramuzzino





martedì 16 luglio 2013

Le voci del silenzio: Maria Scaramuzzino


Con le mie gambe malferme, lentamente, mi muovevo per arrivare a casa tua. Attraversavo quasi tutto il paese e ogni tanto mi soffermavo per cercare di riconoscere i pochi che mi sfioravano, squadrandoli  o girandomi indietro per inseguirli con lo sguardo nel loro cammino. Ma in ogni tempo, col freddo dell’inverno o nella calura dell’estate, custodivo bene stretta una lettera che veniva da lontano. Se non c’eri,  ti aspettavo con trepidazione e, quando arrivavi, tu aprivi  subito la lettera che io riponevo nelle tue mani. Stavi attento a non lacerarla troppo, perché quella lettera probabilmente conteneva dei dollari, che avevano superato i mari e i monti, ma soprattutto avevano superato  la bramosia e la mancanza di scrupoli  degli impiegati  di due continenti. Erano i miei figli a mandarmi quei soldi, quelli, tra i miei figli, che un giorno erano partiti per terre lontane. Io parlavo con loro attraverso di te e tu, giovane studente, mi seguivi  con lo sguardo e badavi a non sciupare l’incanto di quel dialogo che superava le barriere dello spazio e del tempo. Ogni tanto mi commuovevo. Poi tua madre veniva immancabilmente  a portare della frutta, magari un cesto di pere o un vassoio pieno di fichi d’india già sbucciati, ed io ero contenta di quel dono. Dimenticavo per un attimo le  gioie e i dolori della vita.

Ho conosciuto giorni lieti e tristi, ma ho accettato la vita, godendo e assaporando la linfa del giorno. Non ho gioito oltre misura e non ho imprecato o gridato, perché sapevo che la vita è un dono e  che, in ogni caso, essa è degna di essere vissuta. Nella luce che mi circonda, ora la mia famiglia è diventata tanto più grande e nessuno abbandona più il luogo che gli è stato assegnato. Noi siamo qui per l’eternità.

sabato 13 luglio 2013

Violetta spensierata e altri racconti. Ora anche in ebook.

sabato 6 luglio 2013

Le voci del silenzio: Violetta Bersi


Sin da bambina mi è piaciuto sognare e, per alimentare i miei sogni, ho letto  Grand Hotel, Le grandi firme, Bolero. Su quelle pagine ho immaginato avventure meravigliose ed ho dato alimento alle mie fantasie. Poi quei sogni ho cercato di viverli nella realtà.
Io so bene quel che dicevano gli Scandalesi,  quando mi vedevano passare con il mio Alfredo. Lo capivo da quello che farfugliavano sottovoce e che si scambiavano l’un l’altro. Dicevano che ero una poco di buono e talvolta anche di peggio: che non ci stavo con la testa e per questo bisognava essere indulgenti con me. Anche i bambini mi additavano ed io non potei sfuggire al mio destino: ero segnata ormai.
       E’ vero: ho amato molto ed ho conosciuto degli uomini. Ma in realtà io ho amato l’amore e la vita e nell’ amore terreno ho solo cercato una scintilla di quello celeste. Ora che sono qui, posso anche dirlo. Qui nessuno mi accusa ed anzi ciò che mi è stato dato è la ricompensa per ciò che io ho dato.
Ditelo al mio Alfredo, che trascina stancamente gli ultimi anni della sua vita. Il mio amore coniugale non è venuto mai meno e, quando  Demetrio  mi ha  sottratta con la violenza alla luce effimera del giorno, il mio ultimo pensiero è stato per lui. Continuo a serbarlo nella memoria e, nella luce imperitura  che adesso mi avvolge, prego.

lunedì 1 luglio 2013

Le voci del silenzio: Giovannina Belvedere


              Ero  “la maestra Belvedere”, per tutti. La vita era per me una missione ed io non mi sono sottratta a quanto il destino aveva stabilito. Per anni, ogni giorno sono uscita di casa per ritrovare i miei bambini,  che erano anche i tanti miei figli. Si viveva di poco allora. Nelle aule fredde e nude, d’inverno appena riscaldate dalla carbonella accesa, su lavagne scrostate, su cattedre e banchi sconnessi, ho insegnato loro a leggere e a scrivere, a far di conto, ho insegnato come è fatto il mondo e quel che gli uomini hanno operato nel corso del tempo. Ma soprattutto ho insegnato loro l’amore per la vita. Ora che vivo lungo i pascoli del cielo, non ho più nulla da insegnare. Insieme ai tanti che mi hanno raggiunta, vivo nella luce e non avverto nemmeno il bisogno di apprendere. Ora so ed intuisco nel balenio della mente che cosa è  l’Alfa e l’Omega, l’Essere,  il Tutto, l’Infinito.