Nel
Novembre del 1962, a Firenze, presi a
frequentare i corsi universitari della facoltà di Lettere in Piazza San Marco.
Abitavo nella centralissima via Cavour presso una famiglia composta da una
vedova, la signora Sposini, e due figlie, Lorenza e Claudia. La signora, certo in ristrettezze finanziarie, si era
risolta a fittare due camere del suo
appartamento a studenti universitari. In una, molto piccola, abitavo io, nell’altra, molto più grande, abitavano
alcuni studenti provenienti da varie località della Toscana.
Io
ero l’unico Calabrese della casa e mi riuscì abbastanza facile, al di là delle
mie aspettative, familiarizzare con quei ragazzi, con i quali si instaurò ben
presto una cordiale ed affettuosa amicizia. Di una cosa quei ragazzi ritennero opportuno informarmi
sin dal primo momento, sul fatto cioè che, per inveterata tradizione, tutte le
padrone di casa cercavano di piazzare le proprie figlie con qualche studente
che tenevano in fitto. La cosa non mi era del tutto nuova, ma, in quelle
circostanze, ebbi modo di approfondire l’argomento e così venni a sapere che,
tra i vari partiti, le mamme in genere preferivano i meridionali, considerati
più affidabili, e, tra i meridionali, gli studenti di medicina, che con i loro
guadagni avrebbero presumibilmente garantito un futuro più tranquillo dal punto
di vista economico.
Io
non sapevo se dovessi considerarmi una preda ambita, perché ero meridionale,
certo, ma con il mio probabile futuro di
professore di Lettere alle dipendenze dello stato, non so fino a che punto
avrei potuto allettare qualche gentile fanciulla alla ricerca di una
sistemazione e farle intravedere prospettive di agiatezza o almeno di benessere economico. In ogni caso non mi ponevo il problema, perché le due
ragazze non mi sembravano particolarmente avvenenti e tra l’altro mi trovavo già invischiato in una tresca, che occupava buona parte del mio tempo
libero.
Ci
pensò a coinvolgermi uno dei ragazzi,
Manlio Medici, trentenne e studente di Ingegneria, proveniente da Arezzo, il
quale destava la mia curiosità perché amava
vantare una sua lontana discendenza dal grande Fiorentino del Quattrocento Lorenzo
dei Medici, detto il Magnifico. Pensavo che egli amasse pavoneggiarsi con la
storia di questa discendenza, ma recitava bene la sua parte e riusciva ad
essere piuttosto simpatico. Per il resto egli sembrava il classico studente
universitario a vita, appartenente ad
una tipologia allora molto diffusa e
molto riconoscibile. La sera era sempre in giro, si ritirava tardi, non si metteva a letto mai prima delle due di
notte e al mattino non si svegliava mai prima delle undici. Non frequentava le
lezioni all’Università e raramente si poteva vederlo con qualche libro
in mano e solo nell’immediato pomeriggio. Diceva che gli "mancavano" solo due
esami e la tesi, ma su questo erano scettici anche i suoi amici, perché
sembrava che ripetesse questa storia da almeno sette o otto anni.
Un
pomeriggio Manlio venne a trovarmi nella
mia stanza e mi disse che aveva bisogno del mio aiuto. Mi rivelò che si era
invaghito di Lorenza, la figlia diciottenne della padrona di casa, e che era
corrisposto. Aggiunse che fino a quel momento
la loro relazione si era limitata
a qualche fugace contatto all’interno della casa e che era loro intenzione dare
ad essa un carattere di maggiore consistenza e
soddisfazione reciproca. Mi spiegò che aveva bisogno al momento di
qualcuno che lo coprisse, perché a causa della differenza d’età difficilmente
la vedova Sposini avrebbe accettato la relazione. Avrei dovuto quindi fingere
di corteggiare discretamente la Lorenza, invitarla ad uscire, consegnarla a lui
in un posto convenuto e poi accettare di riaccompagnarla a casa al momento del ritorno.
La
cosa, a dire il vero, non mi sconfinferava
per niente, ma finii con l’accettare
dietro le insistenze di Manlio, che mi pregò, mi implorò, mi scongiurò,
sostenendo che tra tutti solo io potevo essere considerato all’altezza di un
compito così delicato e che pertanto dovevo considerarmi indispensabile e
insostituibile. Di lì a qualche giorno una sera invitai Lorenza a mangiare una
pizza. Lei comunicò la cosa alla madre, che non ebbe difficoltà ad accordarle
il permesso. In piazza della Repubblica, davanti al Bar Giubbe Rosse, consegnai Lorenza a Manlio, che
mi apparve riconoscente e addirittura commosso. Verso mezzanotte, allo stesso
posto, ripresi Lorenza in consegna e la riaccompagnai a casa. La cosa si ripeté
altre due o tre volte, quando un giorno Manlio mi comunicò, con mio sollievo,
che mi ringraziava di tutto, mi era riconoscente, ma non aveva più bisogno del
mio aiuto. Mi spiegò che Lorenza aveva detto tutto alla madre e che questa non
solo non si era opposta, ma addirittura aveva benedetto la loro relazione.
Il
giorno dopo, di ritorno dall’Università e dalla Mensa Universitaria, dove
consumavo i miei pasti, nel mentre attraversavo il corridoio, vidi che in sala
da pranzo Manlio stava inaugurando il suo nuovo status di membro della
famiglia. Era seduto a tavola tra le due
sorelle Sposini, mentre la suocera-mamma era indaffarata a servire il caffè di
fine pranzo. Salutai cordialmente e fui invitato a prendere il caffè, cosa che
non mi feci ripetere due volte, anche per il piacere che intendevo prendermi di
osservare da vicino i dettagli del nuovo quadretto familiare. La vedova si
dimostrava molto premurosa, anche nei miei confronti, quasi volesse compensarmi
della mia prestazione iniziale di
paraninfo e non potei fare a meno di notare che, mentre mi versava il caffè da
una Moka che portava in giro, mi si
avvicinò fino al punto di sfiorare il mio volto con le pieghe ondulate del suo golfino. Le figlie intanto
cinguettavano allegramente, specie Lorenza, e Manlio dava l’impressione di avere già assunto atteggiamenti da padrone
di casa. Mangiucchiava e piluccava avidamente qua e là e si consentiva anche qualche bis, non disdegnando di
servirsi da solo.
Si
era allora a Novembre e si può dire che fino a Maggio nulla cambiò nella
relazione tra Lorenza e Manlio. Quest’ultimo sembrava aver cambiato veramente
vita: era diventato ospite fisso alla mensa della famiglia Sposini, aveva
ripreso a frequentare l’università, non faceva più tardi alla sera, spesso lo
si vedeva aggirarsi per casa con qualche libro in mano. Aveva, come si suol
dire, messo la testa a posto. Ci aspettavamo che da un momento all’altro i due
ci comunicassero ufficialmente qualcosa su una loro intenzione di arrivare ad
un regolare matrimonio e la cosa sembrò giungere a maturazione, quando un
giorno la vedova Sposini, in maniera
inaspettata, ci invitò tutti a pranzo per il giorno successivo. A memoria
d’uomo, mai in precedenza c’era stato un invito del genere in quella casa.
L’indomani
ci presentammo tutti insieme a pranzo con un bel mazzo di calle. Claudia
ricevette i fiori, ringraziò e li sistemò con cura in un elegante vaso dal
collo lungo e stretto. Nel frattempo era giunta Lorenza, con un vestitino bianco,
corto e aderente, molto elegante, che le lasciava scoperte le ginocchia, ma
soprattutto consentiva di scoprire quello che fino a quel momento era stato
accuratamente celato e che adesso balzava agli occhi in maniera del tutto evidente:
Lorenza era incinta. Fu un bel pranzo,
con cibi squisiti e raffinati, preparato con cura e arte da tutta la famiglia
Sposini. Verso la fine, per come precedentemente concordato, dissi anche due
parole di circostanza. A nome di tutti
ringraziai per la squisita ospitalità, che prescindeva dal
normale rapporto tra studenti e padrona di casa e ci consentiva di sentirci
come in una nuova famiglia. Lì, a Firenze, in una grande città, noi
tutti ci sentivamo meno soli e di questo eravamo grati alla signora Sposini,
che, sicuro di interpretare un comune sentimento, consideravamo una seconda
mamma. La Sposini stava singhiozzando,
poi si ricompose, si alzò in piedi con l’intenzione di ringraziare, ma fu
ripresa dalla commozione, chiese scusa balbettando e si risedette. Alla fine
del pranzo Lorenza ci comunicò ufficialmente che ad Ottobre ci sarebbe stato il matrimonio: il tempo che
Manlio desse un ultimo esame e
discutesse la tesi di laurea, già prevista per Settembre.
Ovviamente eravamo tutti invitati e guai a chi fosse mancato!
Venne
il mese di Luglio, la sessione estiva degli esami stava giungendo al termine, io avevo sostenuto un paio di esami
e la mia mente era già tutta presa dal pensiero delle vacanze imminenti.
Rientravo a casa verso le tredici e, attraversando il corridoio, ebbi
l’impressione di sentire che la signora Sposini stava singhiozzando. Accostai l’orecchio alla porta della sua camera
da letto ed avvertii ancora più distintamente i singhiozzi. Sbirciai nella
stanza da pranzo e vidi che non c’era nessuno. Nessuna traccia, né di Lorenza,
né di Claudia. Tutt’intorno un silenzio perfetto. Per sapere qualcosa, mi
precipitai nella stanza dei miei amici. Era tutto in ordine, con i lettini ben
rifatti, tranne quello di Manlio, che mostrava solo la rete, il materasso e il
cuscino. In un angolo c’erano due
valigie, rigonfie, allineate e ben
chiuse, come di chi sta per portarle via. Seduto al tavolo c’era Francesco,
studente in Chimica di Abbadia San Salvatore, una cittadina in provincia di
Siena, forse l’amico al quale mi sentivo più legato. Gli feci un cenno con la
testa ed egli mi raccontò quel che era successo.
La
signora Sposini, spinta da chissà quale presentimento, era andata alla
segreteria della facoltà per controllare la posizione di Manlio e lì aveva
scoperto che il suo futuro genero, al quale lei stava per affidare sua figlia,
in tutta la sua carriera aveva sostenuto solo due esami. Per il resto la sua vita
universitaria era stata solo una finzione utile a farlo vivere alle spalle di chi si lasciava abbindolare. Ritornata a
casa, aveva prima edotto la figlia e poi aveva affrontato a muso duro Manlio,
buttandolo letteralmente fuori di casa.
Subito dopo anche Lorenza era uscita, presumibilmente per rintracciare il suo
promesso sposo. Claudia invece non era ancora rientrata e quindi era all’oscuro
di tutto.
Lo
squillo del campanello della porta interruppe la nostra conversazione e ci distolse dai nostri pensieri, mentre la Sposini, ormai senza alcun ritegno, singhiozzava
rumorosamente e piangeva tutte le sue lacrime. Andai ad aprire, visto che
nessuno si decideva a farlo. Era Manlio, venuto a prendere le valigie, mentre
un taxi attendeva di fuori. Non gli chiesi niente e lui non mi disse niente.
Mentre stava uscendo, si fermò sulla porta e mi strinse la mano. Poi, con un
filo di voce perché gli altri non sentissero, mi sussurrò: “Forse tu avevi già
capito tutto, ma a te lo posso pure dire,
perché ormai non ho più niente da
nascondere. Io non so se discendo dal
Magnifico, ma, se anche così
fosse, da lui ho ereditato il nome, non certo le ricchezze. Io sono un morto di
fame e vivo di espedienti. Da Lorenzo a Lorenza. Da Lorenzo il Magnifico alle
magnificenze di Lorenza. Così va il mondo. Addio.” Mi gettò le braccia al collo
e poi si infilò nell’ascensore. Attraverso i vetri mi fece un ultimo saluto e
poi sparì. Per sempre.
Ezio Scaramuzzino
Ezio Scaramuzzino
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