sabato 18 maggio 2013

Miseria e nobiltà (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Nel Novembre del 1962, a Firenze,  presi a frequentare i corsi universitari della facoltà di Lettere in Piazza San Marco. Abitavo nella centralissima via Cavour presso una famiglia composta da una vedova, la signora Sposini,  e due figlie, Lorenza e Claudia. La signora, certo in ristrettezze finanziarie, si era risolta a  fittare due camere del suo appartamento a studenti universitari. In una, molto piccola, abitavo  io, nell’altra, molto più grande, abitavano alcuni studenti provenienti da varie località della Toscana.  
Io ero l’unico Calabrese della casa e mi riuscì abbastanza facile, al di là delle mie aspettative, familiarizzare con quei ragazzi, con i quali si instaurò ben presto una cordiale ed affettuosa amicizia. Di una cosa  quei ragazzi ritennero opportuno informarmi sin dal primo momento, sul fatto cioè che, per inveterata tradizione, tutte le padrone di casa cercavano di piazzare le proprie figlie con qualche studente che tenevano in fitto. La cosa non mi era del tutto nuova, ma, in quelle circostanze, ebbi modo di approfondire l’argomento e così venni a sapere che, tra i vari partiti, le mamme in genere preferivano i meridionali, considerati più affidabili, e, tra i meridionali, gli studenti di medicina, che con i loro guadagni avrebbero presumibilmente garantito un futuro più tranquillo dal punto di vista economico.
Io non sapevo se dovessi considerarmi una preda ambita, perché ero meridionale, certo, ma con il mio probabile  futuro di professore di Lettere alle dipendenze dello stato, non so fino a che punto avrei potuto allettare qualche gentile fanciulla alla ricerca di una sistemazione e farle intravedere prospettive di agiatezza o almeno di  benessere economico. In ogni caso  non mi ponevo il problema, perché le due ragazze non mi sembravano particolarmente avvenenti e tra l’altro  mi trovavo già  invischiato in una  tresca, che occupava buona parte del mio tempo libero.
Ci pensò  a coinvolgermi uno dei ragazzi, Manlio Medici, trentenne e studente di Ingegneria, proveniente da Arezzo, il quale  destava la mia curiosità perché amava vantare una sua lontana discendenza dal grande Fiorentino del Quattrocento Lorenzo dei Medici, detto il Magnifico. Pensavo che egli amasse pavoneggiarsi con la storia di questa discendenza, ma recitava bene la sua parte e riusciva ad essere piuttosto simpatico. Per il resto egli sembrava il classico studente universitario a vita, appartenente  ad una tipologia  allora molto diffusa e molto riconoscibile. La sera era sempre in giro, si ritirava tardi, non  si metteva a letto mai prima delle due di notte e al mattino non si svegliava mai prima delle undici. Non frequentava le lezioni all’Università  e  raramente si poteva vederlo con qualche libro in mano e solo nell’immediato pomeriggio. Diceva che gli "mancavano" solo due esami e la tesi, ma su questo erano scettici anche i suoi amici, perché sembrava che ripetesse questa storia da almeno sette o otto anni.
Un pomeriggio  Manlio venne a trovarmi nella mia stanza e mi disse che aveva bisogno del mio aiuto. Mi rivelò che si era invaghito di Lorenza, la figlia diciottenne della padrona di casa, e che era corrisposto. Aggiunse che fino a quel momento  la loro relazione  si era limitata a qualche fugace contatto all’interno della casa e che era loro intenzione dare ad essa un carattere di maggiore consistenza e  soddisfazione reciproca. Mi spiegò che aveva bisogno al momento di qualcuno che lo coprisse, perché a causa della differenza d’età difficilmente la vedova Sposini avrebbe accettato la relazione. Avrei dovuto quindi fingere di corteggiare discretamente la Lorenza, invitarla ad uscire, consegnarla a lui in un posto convenuto e poi accettare di riaccompagnarla a casa  al momento del ritorno.
La cosa,  a dire il vero, non mi sconfinferava  per niente, ma finii con l’accettare dietro le insistenze di Manlio, che mi pregò, mi implorò, mi scongiurò, sostenendo che tra tutti solo io potevo essere considerato all’altezza di un compito così delicato e che pertanto dovevo considerarmi indispensabile e insostituibile. Di lì a qualche giorno una sera invitai Lorenza a mangiare una pizza. Lei comunicò la cosa alla madre, che non ebbe difficoltà ad accordarle il permesso. In piazza della Repubblica, davanti al Bar  Giubbe Rosse, consegnai Lorenza a Manlio, che mi apparve riconoscente e addirittura commosso. Verso mezzanotte, allo stesso posto, ripresi Lorenza in consegna e la riaccompagnai a casa. La cosa si ripeté altre due o tre volte, quando un giorno Manlio mi comunicò, con mio sollievo, che mi ringraziava di tutto, mi era riconoscente, ma non aveva più bisogno del mio aiuto. Mi spiegò che Lorenza aveva detto tutto alla madre e che questa non solo non si era opposta, ma addirittura aveva benedetto la loro relazione.
Il giorno dopo, di ritorno dall’Università e dalla Mensa Universitaria, dove consumavo i miei pasti, nel mentre attraversavo il corridoio, vidi che in sala da pranzo Manlio stava inaugurando il suo nuovo status di membro della famiglia. Era seduto a tavola  tra le due sorelle Sposini, mentre la suocera-mamma era indaffarata a servire il caffè di fine pranzo. Salutai cordialmente e fui invitato a prendere il caffè, cosa che non mi feci ripetere due volte, anche per il piacere che intendevo prendermi di osservare da vicino i dettagli del nuovo quadretto familiare. La vedova si dimostrava molto premurosa, anche nei miei confronti, quasi volesse compensarmi della mia prestazione iniziale  di paraninfo e non potei fare a meno di notare che, mentre mi versava il caffè da una Moka  che portava in giro, mi si avvicinò fino al punto di sfiorare il mio volto con le pieghe ondulate  del suo golfino. Le figlie intanto cinguettavano allegramente, specie Lorenza, e Manlio dava l’impressione  di avere già assunto atteggiamenti da padrone di casa. Mangiucchiava e piluccava avidamente qua e là e si consentiva  anche qualche bis, non disdegnando di servirsi da solo.
Si era allora a Novembre e si può dire che fino a Maggio nulla cambiò nella relazione tra Lorenza e Manlio. Quest’ultimo sembrava aver cambiato veramente vita: era diventato ospite fisso alla mensa della famiglia Sposini, aveva ripreso a frequentare l’università, non faceva più tardi alla sera, spesso lo si vedeva aggirarsi per casa con qualche libro in mano. Aveva, come si suol dire, messo la testa a posto. Ci aspettavamo che da un momento all’altro i due ci comunicassero ufficialmente qualcosa su una loro intenzione di arrivare ad un regolare matrimonio e la cosa sembrò giungere a maturazione, quando un giorno  la vedova Sposini, in maniera inaspettata, ci invitò tutti a pranzo per il giorno successivo. A memoria d’uomo, mai in precedenza c’era stato un invito del genere in quella casa.
L’indomani ci presentammo tutti insieme a pranzo con un bel mazzo di calle. Claudia ricevette i fiori, ringraziò e li sistemò con cura in un elegante vaso dal collo lungo e stretto. Nel frattempo era giunta Lorenza, con un vestitino bianco, corto e aderente, molto elegante, che le lasciava scoperte le ginocchia, ma soprattutto consentiva di scoprire quello che fino a quel momento era stato accuratamente celato e che adesso balzava agli occhi in maniera del tutto evidente: Lorenza era incinta.  Fu un bel pranzo, con cibi squisiti e raffinati, preparato con cura e arte da tutta la famiglia Sposini. Verso la fine, per come precedentemente concordato, dissi anche due parole di circostanza.  A nome di tutti ringraziai  per la  squisita ospitalità, che prescindeva dal normale rapporto tra studenti e padrona di casa e ci consentiva di sentirci come in una nuova famiglia. Lì, a Firenze, in una grande città, noi tutti ci sentivamo meno soli e di questo eravamo grati alla signora Sposini, che, sicuro di interpretare un comune sentimento, consideravamo una seconda mamma. La  Sposini stava singhiozzando, poi si ricompose, si alzò in piedi con l’intenzione di ringraziare, ma fu ripresa dalla commozione, chiese scusa balbettando e si risedette. Alla fine del pranzo Lorenza ci comunicò ufficialmente che ad Ottobre  ci sarebbe stato il matrimonio: il tempo che Manlio desse  un ultimo esame e discutesse  la tesi di  laurea, già prevista per Settembre. Ovviamente eravamo tutti invitati e guai a chi fosse mancato!
Venne il mese di Luglio, la sessione estiva degli esami stava giungendo al  termine, io avevo sostenuto un paio di esami e la mia mente era già tutta presa dal pensiero delle vacanze imminenti. Rientravo a casa verso le tredici e, attraversando il corridoio, ebbi l’impressione di sentire che la signora Sposini stava singhiozzando.  Accostai l’orecchio alla porta della sua camera da letto ed avvertii ancora più distintamente i singhiozzi. Sbirciai nella stanza da pranzo e vidi che non c’era nessuno. Nessuna traccia, né di Lorenza, né di Claudia. Tutt’intorno un silenzio perfetto. Per sapere qualcosa, mi precipitai nella stanza dei miei amici. Era tutto in ordine, con i lettini ben rifatti, tranne quello di Manlio, che mostrava solo la rete, il materasso e il cuscino. In un angolo  c’erano due valigie, rigonfie, allineate e  ben chiuse, come di chi sta per portarle via. Seduto al tavolo c’era Francesco, studente in Chimica di Abbadia San Salvatore, una cittadina in provincia di Siena, forse l’amico al quale mi sentivo più legato. Gli feci un cenno con la testa ed egli mi raccontò quel che era successo.
La signora Sposini, spinta da chissà quale presentimento, era andata alla segreteria della facoltà per controllare la posizione di Manlio e lì aveva scoperto che il suo futuro genero, al quale lei stava per affidare sua figlia, in tutta la sua carriera aveva sostenuto solo due esami. Per il resto la sua vita universitaria era stata solo una finzione utile a farlo  vivere alle spalle  di chi si lasciava abbindolare. Ritornata a casa, aveva prima edotto la figlia e poi aveva affrontato a muso duro Manlio, buttandolo letteralmente  fuori di casa. Subito dopo anche Lorenza era uscita, presumibilmente per rintracciare il suo promesso sposo. Claudia invece non era ancora rientrata e quindi era all’oscuro di tutto.
Lo squillo del campanello della porta interruppe la nostra conversazione e  ci distolse dai nostri pensieri,  mentre la Sposini,  ormai senza alcun ritegno, singhiozzava rumorosamente e piangeva tutte le sue lacrime. Andai ad aprire, visto che nessuno si decideva a farlo. Era Manlio, venuto a prendere le valigie, mentre un taxi attendeva di fuori. Non gli chiesi niente e lui non mi disse niente. Mentre stava uscendo, si fermò sulla porta e mi strinse la mano. Poi, con un filo di voce perché gli altri non sentissero, mi sussurrò: “Forse tu avevi già capito tutto, ma a te lo posso pure dire,  perché  ormai non ho più niente da nascondere. Io non so se discendo dal  Magnifico, ma, se anche  così fosse, da lui ho ereditato il nome, non certo le ricchezze. Io sono un morto di fame e vivo di espedienti. Da Lorenzo a Lorenza. Da Lorenzo il Magnifico alle magnificenze di Lorenza. Così va il mondo. Addio.” Mi gettò le braccia al collo e poi si infilò nell’ascensore. Attraverso i vetri mi fece un ultimo saluto e poi sparì. Per sempre.
Ezio Scaramuzzino




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