lunedì 29 aprile 2013

Una strana coppia (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



In un giorno di Primavera verso la fine degli anni Cinquanta al Bar Centrale si presentò uno sconosciuto. Era una persona matura, dall’età indefinita, ma aveva per certo l’atteggiamento e i modi di un pensionato. Portava un vistoso anello al dito, presumibilmente d’oro, con un quadrante nel quale apparivano incastonate delle pietre preziose e, vicino a quell’anello, l’unghia del dito mignolo  incredibilmente allungata. Lo sconosciuto salutò con un sonoro “Buon giorno”, destando un po’ la meraviglia dei presenti, non abituati  a sentire dei saluti in quel bar, dove tutti entravano ed uscivano senza troppe formalità. Poi si diresse al bancone e chiese una birra, che sorseggiò lentamente, mettendosi quindi a sedere   in una posizione defilata, sulla veranda che dominava la piazza circostante. Ordinò  un’altra birra e, tra un sorso e l’altro, estrasse un astuccio nel quale era riposto  un pacchetto di sigarette Camel. Ne tirò fuori una, poi estrasse da una tasca interna un accendino che sembrava d’oro, accese la sigaretta e incominciò ad aspirare profonde boccate di fumo, che infine emetteva dalla bocca e dal naso con larghe volute.
I presenti incominciammo a seguire le sue lente e studiate movenze, dandoci qualche gomitata, un po’ perché eravamo incuriositi dallo spettacolo, un po’ perché ci interrogavamo a vicenda sull’identità dello sconosciuto. Il quale, alla fine della sua “esibizione”, si alzò lentamente, si diede una ripulita addosso, pagò alla cassa e, accennando un inchino nel confronti dei presenti, si avviò verso l’uscita, scomparendo ben presto al nostro sguardo.
Nessuno ancora sapeva niente di lui, ma non fu necessario attendere molto per saperne qualcosa. Già dopo un paio di giorni, ognuno in paese conosceva, o credeva di conoscere, l’identità del nuovo arrivato. Si chiamava Carlo  Turbide, o meglio don Carlo, come tenne a precisare lui stesso, dal momento che i suoi antenati, probabilmente di origine spagnola, erano stati tutti nobili e quindi potevano fregiarsi di quel “don”. Evidentemente egli ignorava che ormai nel Meridione quel titolo era del tutto svalutato e che a Napoli addirittura non lo si negava nemmeno agli spazzini, pur con tutto il rispetto per quella categoria   benemerita e utilissima a mantenere il decoro di ogni luogo abitato dagli umani. Comunque, anche in virtù della naturale gentilezza dei paesani nei confronti di chiunque si presentasse come ospite, tutti presero a riverirlo e ad omaggiarlo con quel titolo e si vedeva lontano un miglio che egli tenesse molto a darsi un certo tono. Si seppe inoltre che aveva comprato una villetta alla periferia del paese e che  vi aveva preso dimora  con una donna  più giovane, forse quarantenne, che egli presentava come sua moglie. Questa donna aveva tratti molto marcati e destava la curiosità della gente perché fumava in pubblico, cosa allora considerata disdicevole per una signora. I due non avevano parenti in loco, non avevano amici e molti si chiedevano  per quale strano gioco del destino  fossero finiti proprio nel nostro paese, che offriva scarse attrattive ed era difficilmente  rintracciabile anche  sulle carte geografiche.
Dopo qualche giorno si conobbe anche il motivo della scelta. Il Turbide diceva di essere stato per circa quaranta anni emigrato in Argentina, dove aveva fatto fortuna nel commercio delle carni,  incominciando da semplice garzone di macelleria. Diceva inoltre di essere venuto in contrasto con i Peronisti al potere e che pertanto, giunto all’età in cui normalmente si tirano i remi in barca, aveva deciso di ritornare in Italia. Dove, appena giunto, aveva sposato quella giovane donna, che considerava una sorta di investimento per la sua vecchiaia, per quando avrebbe avuto bisogna di qualcuno che lo accudisse e gli stesse accanto. Aveva poi scelto il nostro paese, un posto “appartato, tranquillo e lontano dalle procelle della vita”, come gli piaceva ripetere, dove contava di vivere serenamente gli ultimi anni della  vita e godersi le ricchezze accumulate.
I due facevano vita piuttosto ritirata e solo al Sabato li si vedeva sfilare in auto, una elegante Lancia Flavia, un vero lusso per quei tempi, diretti chissà dove, per essere di ritorno immancabilmente il Lunedì successivo. Il Turbide si limitava a fare solitarie passeggiate e solo di tanto in tanto amava farsi vedere con l’anziano  direttore del locale Ufficio delle Poste, con una frequentazione che aveva alimentato anche qualche diceria. Quel direttore  era notoriamente un massone, anzi era l’unico massone del paese, e quell’affiliazione non era allora ben vista, tanto che in molte famiglie si parlava di lui come di un losco figuro, capace di qualunque misfatto e di qualunque perversione. Quando il Turbide era giunto al paese, i due si erano cercati e ritrovati quasi istintivamente e quell’amicizia, nata in modo così spontaneo, aveva alimentato molte dicerie  su  di loro, facendo presupporre anche l’appartenenza dei due ad un’unica consorteria di ribaldi.
Il Turbide aveva inoltre un appuntamento fisso. Ogni venerdì, immancabilmente, si presentava alla ricevitoria del Totocalcio, dove alcuni giuravano di averlo visto scommettere cifre favolose. E fu proprio questa sua passione per le scommesse che un bel giorno lo indusse a mettersi  in contatto con me. L’eccessiva differenza di età e la mia cronica mancanza di soldi non mi inducevano di certo a pensare che prima o poi avrei potuto stabilire una qualche relazione con lui. Inoltre avevo nei suoi confronti una certa diffidenza, alimentata prima di tutto dal suo contegno altezzoso, che mi induceva peraltro a nutrire nei suoi confronti un cordiale disprezzo, ma alimentata anche dalle troppe voci malevole che circolavano sul suo conto.
Un giorno mi sentii chiamare alle spalle. Ero appena sceso dall’autobus, che quotidianamente mi portava avanti e indietro da Crotone, dove frequentavo il Liceo. Mi voltai  e potei vedere che si avvicinava sfoggiando un largo sorriso. Mi chiese se ero disposto a fargli visita a casa, dove avrebbe voluto parlarmi di qualcosa di molto importante per lui e, probabilmente, anche per me. Ad una mia pronta  domanda  si rifiutò di dare indicazioni più precise e mi disse che mi aspettava al pomeriggio, a qualunque ora.
Pranzai   con il pensiero fisso a quell’insolita richiesta e mi domandai spesso in che cosa potessi essergli utile. Verso le cinque del pomeriggio ero dietro la porta di casa sua. Venne ad aprirmi la moglie, che in quella circostanza seppi chiamarsi Ines e che mi introdusse in un ampio soggiorno, dove don Carlo evidentemente mi aspettava da un bel po’.
Non si perse in preamboli e da persona concreta, quale diceva di essere, arrivò subito al sodo. Mi raccontò della sua irrefrenabile mania di giocare le schedine, mi raccontò delle grandi somme di denaro che aveva già perse e concluse che solo io potevo aiutarlo a vincere. Di fronte alle mie evidenti perplessità, volle precisare che mi aveva già sentito qualche volta al Bar Centrale discutere di calcio con gli amici, che aveva apprezzato la mia profonda conoscenza delle formazioni delle squadre, dei turni, degli infortuni, delle squalifiche e concluse ribadendo che i suoi soldi e le mie conoscenze erano garanzia di sicure, prossime vincite al Totocalcio.
 In quel periodo io leggevo sempre una rivista sportiva, Il calcio e il ciclismo illustrato, che oggi non si stampa più e che allora io divoravo letteralmente, mandando tutto a memoria, ma non diversamente da quanto facevano tanti altri ragazzi e giovani della mia età. Non  immaginavo però che alcuni illusi potessero ritenere che bastava conoscere tutte quelle notizie per azzeccare i pronostici delle partite di calcio. Cercai di schernirmi facendogli capire quanto assurda fosse la sua illusione, ma egli non volle sentire ragioni e alla fine riuscì a convincermi  con una promessa: se avessimo vinto qualcosa, una imprecisata parte della vincita sarebbe stata mia. Nei pochi mesi del nostro sodalizio, pur migliorando progressivamente i nostri risultati, non avrei mai avuto la possibilità di verificare la sincerità delle sue promesse.
Diventammo amici, per quanto era possibile  tra persone così diverse, e ci vedevamo generalmente al pomeriggio di ogni Venerdì. Egli mi faceva trovare schemi, sistemi, diagrammi, che sottoponeva alla mia approvazione  e che verificava con le ultime notizie sul campionato, che io gli fornivo e alle quali egli prestava una fede cieca e assoluta. Qualche volta venivo invitato a restare a cena e io non me lo facevo ripetere due volte, perché la Ines era capace di preparare degli intingoli molto gustosi, ma soprattutto perché la stessa dimostrava nei miei confronti una premura e una sollecitudine che qualche volta mi avevano dato da pensare. Durante la cena si parlava un po’ di tutto e don Carlo mi faceva in particolare  una raccomandazione: per nessun motivo dovevo mettere a parte dei nostri segreti e dei nostri incontri un gruppo di sistemisti del Totocalcio, di cui costituivano l’anima il barbiere del paese, Amedeo Grisi, ed un altro accanito scommettitore, Nicola Marino. Lo tranquillizzavo, giurandogli  fedeltà eterna, tra un boccone e l’altro, tra un sorso di vino e l’altro, mentre di lato seguivamo le prime puntate di Lascia o raddoppia o qualche partita di calcio su un monumentale televisore in bianco e nero, di cui don Carlo era uno dei primi, fortunati possessori.
Una sera  lo invitai a raccontarmi qualcosa della sua vita, ma egli si schernì, sostenendo che non gli piaceva molto rivangare il passato. Non mi diedi per vinto e la settimana successiva ritornai alla carica, ma ancora una volta egli si rifiutò, come se volesse nascondere qualcosa. Presi a sfotterlo amabilmente e, per provocarlo, addirittura gli dissi che mettevo in dubbio anche quel poco che si sapeva di lui. Reagì male, ma reagì. Per convincermi, incominciò a straparlare dell’Argentina e di Juan Domingo Peron, ma mi accorsi che le sue conoscenze non andavano al di là di un qualunque articolo di giornale. Faceva confusione, esitava, lasciava le frasi a metà, ignorava l’esistenza delle Pampas e insomma mi accorsi che egli conosceva l’Argentina, dove pure diceva di essere vissuto quaranta anni, come io conoscevo il Cipango. Molte cose non quadravano nei suoi racconti, ma feci finta di nulla, anche se mi lasciai sfuggire delle perplessità con qualcuno dei miei amici al Bar Centrale.
Qualche mese dopo, in un caldo pomeriggio di Giugno, arrivato dal Turbide, vidi che davanti alla porta  era posteggiata una gazzella dei carabinieri. Fui tentato dall’idea di ritornare indietro, ma la scartai subito nell’ipotesi che qualcuno potesse vedermi dall’interno e ritenere che avessi qualcosa da nascondere. Un po’ preoccupato bussai e venne ad aprirmi la Ines. C’erano due carabinieri, uno dei quali stava estraendo un documento da una cartella. Seduto su una poltrona, affranto, c’era il Turbide, mentre la moglie, pur preoccupata, aveva un’aria semplicemente rassegnata e stanca.  Il carabiniere poi lesse ad alta voce il documento, che era  un mandato di cattura spiccato nei confronti di tale Cesare Moncalvo, nato a Montalto Uffugo, in provincia di Cosenza, il 4 Aprile   1902. Il mandato faceva riferimento ad una condanna passata in giudicato, a due anni di reclusione, per il reato di truffa aggravata di cui          all’ articolo 640  e seguenti del Codice Penale e che il condannato non aveva scontato per sopravvenuta latitanza. Insomma il Turbide-Moncalvo era un truffatore, semplicemente un truffatore: fu portato via ammanettato e provvisoriamente rinchiuso nel carcere mandamentale di Santa Severina. Dopo qualche giorno fu  trasferito  nel carcere di Catanzaro.
La Ines ogni tanto andava a trovarlo, guidando personalmente la sua auto, e un paio di volte la accompagnai fino al parlatorio, dopo aver chiesto e ottenuto un permesso speciale a causa della mia minore età. Diradai ovviamente anche le visite a casa sua, con l’intenzione  di troncarle del tutto prima o poi. Già in precedenza i miei non avevano visto di  buon occhio la mia frequentazione con “don Carlo”, ma ora io stesso temevo di apparire inopportuno dal momento che la Ines non aveva certo bisogno dei miei consigli per il Totocalcio, che lei considerava semplicemente un sistema inventato dallo Stato per truffare un po’ di soldi alla povera gente, tanto per restare nel campo di attività preferito dal marito.
In un afoso pomeriggio di Settembre, andai a trovare la Ines, dopo qualche tempo che non ci vedevamo. Rimase un po’ sorpresa, ma mi accolse con evidente piacere e mi fece sedere in soggiorno senza troppe formalità. Mi offrì un pezzo di torta, che trovai squisito e che lei disse di aver preparato con le sue mani, e un liquore, che trovai molto forte e che deglutii con qualche difficoltà, suscitando tra l’altro un suo amabile sfottò. Poi lei incominciò a lamentarsi del caldo eccessivo di quel giorno e, mentre  parlava, anzi cinguettava con la sua vocetta allegra, mi accorsi che non stavo seguendo più di tanto il filo delle sue parole e che invece la stavo osservando con una certa intensità , come forse non avevo mai fatto in precedenza. Notai che a causa del caldo di quel giorno lei era generosamente scoperta in varie parti del corpo e convenni che era ancora una bella donna.
Ad un certo punto lei si alzò quasi di scatto e mi disse che avrebbe fatto un bagno. Mise un pentolone di acqua sul fornello a gas in cucina  e poi andò a prendere un semicupio, che sistemò in un angolo del soggiorno. Allora le vasche da bagno non erano molto diffuse nelle case e io non avevo mai visto una roba  del genere, perché in estate il bagno ero solito farlo al mare e in inverno in una tinozza rudimentale. Quando tutto fu pronto, mi invitò a girarmi dall’altra parte ed io  obbedii docilmente. La sentivo sguazzare nell’acqua con un certo piacere e, alla fine , mi chiese se ero disponibile ad asciugarle le spalle e a passarvi una certa crema. Non dissi di no ovviamente, mi girai e presi l’asciugamano e il tubo di crema che lei mi porgeva.
Quel giorno, probabilmente, una confluenza astrale favorevole aveva deciso  che lungo i sentieri dell’universo una serie di protoni, elettroni e neutroni si unissero in  dolce contatto fra di loro. Per quanto mi riguardava, questa felice congiunzione avvenne in un pomeriggio di Settembre del 1959, in una villetta alla periferia sud del mio paese, in un soggiorno posto al piano terra, su un divano sul quale entrambi ci lasciammo cadere, subito dopo che ebbi finito di spalmare quella crema.
Le mie visite dalla Ines, pur con qualche accortezza, ripresero a diventare più frequenti, tanto più che entrambi sapevamo che la pacchia non poteva durare  a lungo. Il Cesare o Cesarino Moncalvo, ormai ex Carlo Turbide, aveva avuto un consistente  sconto di pena per buona condotta e stava per tornare a casa. E difatti arrivò a casa un giorno di Ottobre del 1960, guidando personalmente l’auto con cui sua moglie era andata a prenderlo, aspettandolo all’uscita dal carcere.
Andai a trovarlo pure io una sera e  mi disse prima di tutto che dovevamo ricominciare col Totocalcio. Ripresi le mie visite settimanali a casa sua e non soltanto quelle, perché ormai c’era anche un altro motivo più convincente ad attirarmi verso  quella casa. Io e la Ines dovevamo solo prendere qualche precauzione, perché per il resto le occasioni non mancavano. Subito dopo il suo ritorno a casa, Cesarino aveva ripreso l’abitudine di frequentare il direttore dell’Ufficio postale e con lui combinava delle interminabili partite a poker, con giocatori occasionali, che a volte si protraevano per tutta la notte. Quando io facevo finta di passare per caso da casa sua, in realtà per vedere se la Ines era sola, non ci voleva molto a capire la situazione. Cesarino aveva  l’abitudine, quando era in casa, di deporre il suo  Borsalino sul tavolo del soggiorno e pertanto, quando entravo, mi era sufficiente dare uno sguardo a quel tavolo per  rendermi conto di tutto.
 Un giorno di Dicembre, mentre fuori faceva freddo e cadeva una pioggerellina fastidiosa, ci eravamo incontrati io e la Ines, la quale mi aveva detto che avevamo un paio d’ore di libertà. Avevamo acceso una stufa a gas e, al tepore di quella stufa, ci eravamo  sdraiati sul solito divano, confortati anche dal tepore di una coperta che ci ricopriva entrambi. Poi, forse esausti, forse incoscienti, avevamo finito con l’addormentarci, mollemente abbracciati. Quando riaprii gli occhi, guardai sul tavolo e con terrore mi accorsi che su quel tavolo c’era il Borsalino del Moncalvo. Feci un salto, mi rivestii e rapidamente, senza far rumore e quasi scivolando sul pavimento, guadagnai l’uscita.
 Il Venerdì successivo, quando mi presentai a casa loro, ero preparato al peggio. Avevo già messo in conto qualche schiaffo o qualche pedata, ma questo non mi aveva distolto dall’idea che comunque era preferibile affrontare a viso aperto la nuova situazione.  Ma non successe niente. I due furono cordiali come sempre: preparammo le schedine del Totocalcio e alla fine fui quasi costretto a rimanere per la cena. Durante la quale notai che  Cesarino era meno loquace del solito e che ogni tanto sembrava seguire un suo rovello interiore. Verso la fine della cena egli emise un profondo respiro e mi guardò fisso negli occhi. “Vedi, mi disse, io ho ormai una certa età, che mi impedisce di fare tutto quello che sarebbe necessario fare.”  Stavo sulle spine e temevo, o speravo, che egli andasse a parare a quanto aveva scoperto qualche giorno  prima. Ma cambiò subito registro e continuò:” Si dà il caso che io ho pure molti soldi, ma i soldi non sono mai troppi ed è un grande errore lasciarli dove sono o non cercare di moltiplicarli. Per questo motivo ho deciso di intraprendere una nuova attività, lecita sia ben chiaro, che mi consenta di  investire i miei soldi e di farne molti di più.  Si tratta di mettere su una fabbrichetta di sottoli e sottaceti. Una cosa di tutta tranquillità, nella quale non c’è alcun rischio e che io, alla mia età come ti dicevo, non posso sbrigare da solo. Mia moglie non s’intende di queste cose e quindi non mi resti che tu. Non ti chiedo molto:  mi basterà che tu mi dedichi solo un’oretta al giorno per tenermi aggiornati  i conti e i registri. Per questo lavoro riceverai un compenso. A tutto il resto, ovviamente, penso io: troverò il locale, i fornitori e quattro o cinque ragazze come lavoratrici”.
Lo ascoltai senza essere capace di replicare o di dire alcunché, ma l’idea di avere una paghetta fissa ogni settimana mi allettava e quindi finii con l’accettare. La mia vita però incominciò a complicarsi. La mattina prendevo l’autobus per andare al Liceo, a Crotone; rientravo verso le due del pomeriggio, pranzavo e poi studiavo per un paio d’ore; quindi passavo da un magazzino dove Cesarino aveva ubicato la sua fabbrichetta; in un angolo, su un tavolino, mi limitavo a riordinare ed elencare alcune fatture  su un registro o a fare qualche conteggio; al Venerdì sera c’era l’appuntamento fisso  per le schedine del Totocalcio. A tutto questo bisognava infine aggiungere gli incontri furtivi con la Ines. Ma questi ultimi non mi comportavano alcun sacrificio, anzi incominciavano a diventare più appaganti, da quando Cesarino aveva dimostrato di essere del tutto cieco, o forse aveva solo fatto finta di esserlo.

Per il resto non potevo chiedere niente di meglio: a parte la mia storia con la Ines, il Venerdì sera ero ospite fisso alla loro mensa; settimanalmente ricevevo una paga di trentamila lire, una cifra che in precedenza  non avevo mai visto; e infine da qualche tempo i due avevano preso l’abitudine di portarmi spesso in giro con loro, per alberghi e ristoranti disseminati lungo le coste e le montagne dei dintorni. Erano passati già alcuni mesi da quando la fabbrichetta era stata avviata e gli affari andavano bene, o almeno sembravano andare bene. L’unico inconveniente era che tutto veniva pagato rigorosamente in nero, comprese le quattro ragazze alle quali settimanalmente il Cesarino consegnava una busta con una cifra che si aggirava sulle ventimila lire.
Era il maggio del 1961 e un pomeriggio mi avviai come al solito verso la fabbrichetta, quando da lontano vidi che sul davanti erano radunate molte persone. Ebbi la netta impressione che fosse successo qualcosa e mi affrettai. Giunto sul posto, mi si offrì agli occhi uno spettacolo  impressionante. Barattoli e conserve erano sparsi un po’ dappertutto e tre ragazze  piangevano sconfortate. Una di loro mi raccontò quel che era successo: un pentolone rudimentale, in cui erano messe a bollire le conserve, si era rovesciato ed aveva investito in pieno una ragazza, provocandole ustioni gravissime in tutto il corpo. Il Moncalvo aveva prima provveduto a portare la ragazza dal medico Mauro e da lì, dopo un sommario esame, direttamente all’ospedale di Crotone.
Me ne uscii subito e, quasi mosso dall’istinto, mi diressi verso la villetta dei Moncalvo. C’era solo la Ines, che mi diede altri ragguagli sull’incidente, fumando una sigaretta dietro l’altra. Poi, quasi in cerca di conforto, mi abbracciò singhiozzando. Piangeva la sua sfortuna, la sua vita sprecata dietro un uomo che, diceva lei, l’aveva sempre fatta vivere tra mille paure e mille pericoli. Finì col trascinarmi sull’eterno divano dei nostri amori, dove per un po’ dimenticammo entrambi le angustie del vivere quotidiano e finimmo anche con l’assopirci, strettamente abbracciati.
 Verso sera arrivò Cesarino il quale si disse convinto, anzi sicuro, che di lì a poco sarebbero venuti ad arrestarlo. Incominciò a preparare le sue cose, quelle che gli erano sempre state necessarie nei vari periodi della vita, che aveva trascorso in “collegio”, come egli amava definire il carcere. Quando ebbe finito di preparare le sue cose, si rivolse a me e in modo pacato mi espresse i suoi desideri.” Ti raccomando la Ines, concluse. Tu hai fatto tanto per me e io  non ti ho ripagato adeguatamente. Non abbiamo mai vinto al Totocalcio, è vero, ma ti ho dato un piccolo stipendio negli ultimi mesi. Forse era poco per quello che facevi, ma  ti sei rifatto abbondantemente con la Ines. Non negare, sapevo tutto, anche se ho fatto finta di niente, e anche tu sapevi che io sapevo. Ma meglio così. Meglio tu che un altro. Almeno tu sei stato un amico per me e, se le cose fossero andate bene, ti avrei riempito di soldi, che peraltro meritavi, perché  sei un bravo ragazzo e meriti di meglio, piuttosto che incontrare uno come me e come la Ines. Il fatto è che, nella lunga partita a scacchi che da tanti anni ho intrapreso con la vita, speravo almeno di finire in pareggio, con una ics, e invece  la partita è sempre finita con un due, con la mia sconfitta.”
Si sentì il suono di una sirena ed andai a vedere. Due carabinieri si stavano dirigendo verso l’ingresso, mentre tutt’intorno si era radunato un capannello di curiosi. Non ci fu nemmeno bisogno di leggere il mandato di cattura emesso dal pretore di Santa Severina  nei confronti del Cesarino Moncalvo, il quale chiese soltanto che non gli fossero messe le manette e fu accontentato. Poi abbracciò la moglie e si apprestò a seguire i carabinieri, che ad ogni buon conto lo guardavano a vista. Mentre si avviava, si voltò verso di me, abbozzò un leggero saluto con la mano, ma soprattutto mi fece  chiaramente un cenno d’intesa, con un occhiolino.
Non l’avrei più rivisto.
Ezio Scaramuzzino

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