sabato 6 aprile 2013

Ricordo di Sarah (Racconto) di Ezio Scaramuzzino



Il 5 giugno 1967 scoppiò la Guerra dei sei giorni tra Israele e i Paesi arabi.  Ascoltai la notizia  alla radio, al mattino, e mi colpì molto il pensiero che un piccolo Paese di poco più di un milione e mezzo di abitanti potesse fare guerra contro vari Paesi contemporaneamente. Maturò in quei giorni il mio amore per Israele, per quel popolo eroico e infelice, le cui tribolazioni  sembrava non dovessero finire mai.
Passarono gli anni e la campagna di odio nei confronti del giovane stato  non accennava a placarsi. Sentivo di dover fare qualcosa di concreto e maturai l’idea generosa,  forse anche un po’ spavalda, di arruolarmi nello Tsahal, l’esercito israeliano. Nell’Ottobre del 1970 indirizzai una lettera in tal senso all’ambasciata d’Israele a Roma e qualche giorno dopo  ricevetti una  risposta. Tale Lucy Barnes, primo segretario d’ambasciata, mi ringraziava per la mia disponibilità, ma mi comunicava che l’esercito d’Israele non arruolava cittadini stranieri. Rimasi un po’ sorpreso, ma non molto dispiaciuto: il mio primo intendimento in fondo  era quello di fare un atto d’amore nei confronti di un popolo e quest’atto d’amore era stato comunque recepito ed apprezzato.
Seguii a lungo e con attenzione le vicende, ora tristi, ora liete, del Medio Oriente, mentre  intanto la mia vita andava avanti. A Luglio del 1971, ormai laureato da qualche anno, ritornai a Firenze per frequentarvi un corso di specializzazione post laurea sulla storia del Medio Oriente. Nella Facoltà di Lettere ci ritrovammo circa  un centinaio  di persone provenienti da vari Paesi. Il primo giorno arrivai con un po’ di ritardo, mi registrai al corso ed ascoltai  la dissertazione di un barbuto e non meglio conosciuto professore sudamericano, che intrattenne l’uditorio su “Le responsabilità del Sionismo internazionale nell’attuale crisi del Medio Oriente”.  Il secondo giorno, tanto per cambiare, un docente francese di origine algerina tenne una lezione  su “La nascita dello stato d’Israele come atto di aggressione imperialista nei confronti del popolo palestinese”.
Ero tentato dall’idea di abbandonare il corso, per evitare di  ritrovarmi coinvolto ogni giorno di più in una sorta di psicosi maniacale, di tipo nazi-comunista, che mirava solo a tenere Israele sul banco degli accusati. Il terzo giorno ero già pronto a sorbirmi l’ennesimo pistolotto ideologico, ma la mia attenzione fu richiamata dalla presenza di una giovane donna di colore, che si sedette vicino a me. Mentre un relatore dissertava su “L’imperialismo delle multinazionali e il neocolonialismo”, ebbi modo di osservare quella giovane donna.
Dimostrava circa trenta anni, aveva la pelle molto scura, il naso leggermente schiacciato, i capelli ritorti in tante treccine lunghe e sottili. Aveva un portamento eretto e mi sembrò bellissima: chissà perché mi venne di pensare alla mitica regina di Saba. Ebbi un attimo di imbarazzo quando lei, voltandosi verso di me, si accorse che io la stavo osservando con attenzione, ma il mio imbarazzo cessò subito, perché lei mi sorrise ed io, istintivamente, ricambiai quel sorriso. Alla fine della lezione quella giovane donna si avvicinò e mi chiese se  ero disponibile ad accompagnarla per un tratto di strada. Non me lo feci ripetere due volte.
Parlava molto bene l’ Italiano, ma con un accento ed una cadenza che lì per lì non riuscii a definire. Parlammo del corso, della situazione politica generale, della tensione in Medio Oriente, di Israele, del terrorismo palestinese.  Ad un certo punto  mi disse chiaramente di sapere che io mi sentivo ed ero un amico di Israele, ma soprattutto lei sapeva della mia domanda di arruolamento di qualche anno prima. Mi allarmai e temetti un tranello, del quale incominciavo ad avvertire fumosamente i contorni: le chiesi come facesse a sapere tutto questo.
E lei mi raccontò la sua vita e dissipò le mie paure. Sarah, così si chiamava, era un’ebrea di origine etiope, appartenente al  misterioso popolo dei Falascià. All’età di venti anni, era riuscita a riparare in Israele con la sua famiglia, una delle poche ad essere riuscite nell’impresa: qui  era vissuta, qui aveva fatto il servizio militare, qui infine era diventata agente del Mossad, il mitico servizio segreto israeliano. Per frequentare il corso era stata fornita di un falso passaporto della Somalia e di una falsa identità, Nazeera Bekr. Il suo compito era quello di trovare informazioni e possibilmente scoprire  tra i corsisti una cellula terroristica, che doveva  compiere  un  attentato contro la sinagoga di Firenze. Io potevo riuscirle utile in un ruolo di copertura, con compiti che mi avrebbe comunicato  man mano che se ne fosse presentata la necessità. Il suo piano  consisteva nel farsi passare per una fanatica musulmana, disponibile a tutto, per infiltrarsi nella rete e sconvolgerla dall’interno.
Rimasi perplesso ed attratto nello stesso tempo: Sarah emanava un incredibile fascino ed era difficile resisterle. Parlava in modo pacato e soprattutto  non dimostrava  alcuna paura di affrontare  una prova così rischiosa in un mondo crudele e sanguinario, quale era quello del terrorismo. Stabilimmo che ci saremmo rivisti ogni giorno, alla fine del corso, e che  in un modo o nell’altro lei mi avrebbe fornito ulteriori istruzioni. L’ attrazione per lei  crebbe quando, alla fine del nostro primo incontro, davanti al portone di un palazzo nei pressi di Piazza della Signoria, dove lei aveva preso alloggio, mi abbracciò con un trasporto che a me sembrò foriero di ulteriori, interessanti sviluppi.
Il giorno dopo, nel dibattito aperto alla fine della lezione, Sarah chiese di poter parlare. Attaccò con violenza la politica di Israele, facendo riferimento addirittura al Protocollo dei sette savi di Sion e ottenne un discreto successo, coronato da numerosi ma non unanimi applausi. La consueta passeggiata dopo il corso si concluse questa volta prima in un ristorante e poi a casa sua, dove rimasi suo ospite fino al mattino.
Per qualche giorno non rividi Sarah, con qualche preoccupazione, ma evitai di cercarla a casa sua. Al nostro successivo incontro, mi fece subito sapere che la sua sparata di qualche giorno prima non era stata infruttuosa: era stata avvicinata da un Venezuelano, tale Antonio Cabrera, che prima aveva cercato di approfondire meglio la sua conoscenza e poi, rassicurato sulle intenzioni e sulle capacità rivoluzionarie di Sarah, l’aveva invitata a casa sua. Qui lei aveva trovato e conosciuto altre due persone, un uomo ed una donna, entrambi Argentini, apparentemente brave persone, dagli atteggiamenti raffinati e cortesi, tipici di una sana famiglia borghese. I tre, davanti a Sarah-Nazeera, non si compromettevano più di tanto e parlavano piuttosto genericamente e fumosamente di rivoluzione prossima ventura, di resistenza politica e di controinformazione.
Era stata Sarah a provocarli ed a farli uscire allo scoperto: il giorno dopo aveva rivelato ai nuovi amici la sua perfetta conoscenza della lingua Ebraica, appresa, a suo dire, in un quartiere di Mogadiscio abitato prevalentemente da Ebrei, ed aveva anche rivelato una sua grande padronanza nel maneggio di esplosivi. Antonio Cabrera le aveva risposto che delle sue competenze pirotecniche potevano fare a meno, dal momento che essi disponevano abbondantemente di materiale e di esperti, ma che la sua conoscenza della lingua ebraica poteva risultare estremamente utile. In breve le rivelò il piano di un attentato alla sinagoga di Firenze di via Luigi Carlo Farini: l’attentato era previsto per un giorno di  Sabato, in attesa che un corriere  consegnasse loro  una partita di fucili Kalashnikov e di bombe fabbricate col micidiale Semtex. Lei avrebbe avuto il compito di distrarre, con la sua conoscenza dell’Ebraico, alcuni vigilantes interni alla comunità ed aprire il passaggio al resto del commando, che avrebbe poi provveduto ad  eliminare i due poliziotti italiani di guardia, lanciare le bombe e compiere una strage tra i partecipanti ai riti religiosi. Il commando, dopo la strage, contava di ritirarsi lungo l’adiacente via dei Pilastri, dove un’auto in attesa, messa a disposizione dal consolato  bulgaro, avrebbe portato tutti in salvo.
Sinagoga di Firenze
Sarah mi comunicò che il mio compito era quello di avvertire, al momento opportuno, un qualunque commissariato di polizia e favorire un’azione di sorpresa che consentisse l’arresto di tutto il commando. Bisognava aspettare, mi disse, in modo che le prove fossero schiaccianti e non consentissero poi una scarcerazione dei terroristi, come, purtroppo, era già avvenuto nel nostro Paese in circostanze simili. Non ci saremmo rivisti fino alla conclusione dell’operazione, ma sarei stato comunque avvertito: nel giorno convenuto, all’uscita dal corso, qualcuno mi avrebbe infilato in tasca un bigliettino contenente un indirizzo. Dovevo soltanto attendere un minuto, aprire il bigliettino, leggere l’indirizzo ed accorrere al più vicino Commissariato di polizia.
Sarah mi aveva detto tutto in fretta, quasi avesse poco tempo a disposizione, ed io le avevo facilitato il compito ascoltando attentamente le sue parole e riducendo al minimo le domande di chiarimento. Ci abbracciammo in modo discreto e lei, prima di scomparire svoltando l’angolo, mi indirizzò  uno “shalom” che ancora oggi, a distanza di tanto tempo, non riesco a dimenticare.
Ero un po’ scioccato da quello che Sarah mi aveva detto e, soprattutto, mi sentivo coinvolto in una situazione che non sapevo se sarei riuscito a padroneggiare. Ma avevo fiducia: il Mossad era comunque una garanzia ed io dovevo dimostrami all’altezza di quanto mi era stato richiesto. Quella che Israele stava combattendo era una guerra per la  sopravvivenza ed io, qualche anno prima, avevo chiesto di poter partecipare a questa guerra: in fondo avevo ottenuto con qualche ritardo quel che cercavo  da tanto tempo.
Il giorno dopo incominciai a prepararmi per tempo a quello che avrei dovuto fare in uno dei giorni successivi. Mi sentivo un soldato e  sapevo che non dovevo farmi trovare impreparato nel momento del bisogno. Non andai al corso e mi diedi a localizzare il più vicino Commissariato di polizia nel tragitto che da Piazza San Marco, dove era ubicata la Facoltà di Lettere, lungo via Cavour portava verso Piazza  San Giovanni. Ne trovai uno in via Guelfa, abbastanza vicino quindi, e calcolai il tempo necessario per arrivarvi da Piazza San Marco: ci volevano solo quattro minuti e venti secondi. A voler contare anche il tempo necessario ad entrare, rivelare il piano  e comunicare l’indirizzo, immaginavo che nell’arco di quindici minuti al massimo un paio di volanti sarebbero  potute partire alla caccia dei terroristi.
Era passata quasi una settimana dall’ultimo incontro con Sarah e mi sentivo un po’ inquieto. Andavo ogni giorno al corso, in attesa del fatale bigliettino. Un Giovedì, uscendo dall’Università, notai davanti ad un chiosco un vecchio  e distinto signore che leggeva La nazione. Al mio apparire si spostò  e  mi venne incontro fin quasi a scontrarsi con me. Si scusò sorridendo e mi accorsi che con un rapido gesto aveva infilato un bigliettino nel  taschino della mia camicia. Attesi un po’, lo aprii con il cuore in tumulto e lessi: Mario Colnaghi, viale Etruria 20, 3° piano, Firenze.
Dopo circa venti minuti  dieci poliziotti, suddivisi in tre  auto civetta, si stavano già dirigendo verso l’indirizzo indicato. C’ero anche io con loro: mi avevano voluto a bordo, a prescindere dalle indicazioni fornite, perché li aiutassi a distinguere Sarah dagli altri terroristi.
Era una tiepida serata  estiva e, mentre percorrevamo velocemente le strade di Firenze, ebbi modo di notare l’andirivieni  frettoloso di tante persone che si apprestavano a ritornare a casa dopo una giornata di lavoro. L’aria era tranquilla, il sole era tramontato da poco ed anche la stella di Venere, particolarmente luminosa  nel cielo, sembrava del tutto indifferente alla tragedia che stava per consumarsi.
Giunti a destinazione, i poliziotti lasciarono le auto civetta a poca distanza l’una dall’altra e cinque di essi, in silenzio e con fare furtivo, aprirono il portone con un passepartout e si apprestarono a salire le scale  di un palazzo piuttosto vecchio e malmesso. Gli altri poliziotti  rimasero  a guardia del portone, mentre io attendevo in un’auto. Passarono alcuni minuti, che sembrarono eterni. Si avvertì  un colpo di pistola, uno solo, nitidissimo, che sembrò squarciare come un grido straziante il silenzio della sera.
 Accorsero gli altri poliziotti e accorsi pure io. Arrivai al terzo piano un attimo dopo gli altri, correndo per un tragico presentimento  e in tempo per vedere e capire quel che era successo.  In un ampio salone i poliziotti avevano  le armi puntate contro i terroristi, che a mani alzate si stavano arrendendo e venivano disarmati. In un angolo, dietro una poltrona si intravedeva un corpo  di donna riverso per terra.
Mi avvicinai e riconobbi quel volto: era Sarah,  ormai priva di vita. Presentava un unico foro alla nuca, da cui fuorusciva un rivolo di sangue, che imbrattava le sue treccine. I suoi occhi erano ancora aperti ed il suo volto appariva tranquillo, come fosse stata sorpresa, come   non si fosse nemmeno accorta del colpo fatale e non avesse avuto  il tempo di avvertire lo strazio della morte. Sarah sembrava trasfigurata da un leggero pallore ed anche la morte sembrava essere diventata bella nel suo bel viso scuro.

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