Luigi Pirandello (Agrigento, 28 giugno 1867 – Roma, 10 dicembre 1936) fu un drammaturgo, scrittore e poeta italiano, insignito del premio Nobelper la letteratura nel 1934.********
Bernardino Lamis, professore
ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come
soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le
gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie,
cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano
con pertinace fedeltà il suo corso:
- Diremo, o signori, nella ventura lezione,
dell'eresia catara.
Uno de' due studenti, il Ciotta
- bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido - digrignò
i denti con fiera gioia e si diede una violenta fregatina alle mani. L'altro,
il pallido Vannícoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall'aria
spirante, appuntí invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei
chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore
sgradevole, per significare che era compreso della pena che al venerato maestro
doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien'aveva detto
privatamente. (Perché il Vannícoli credeva che il professor Lamis quand'egli e
il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via
verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d'intenderlo.)
E difatti il Vannícoli sapeva che da
circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia
di Hans von Grobler su l'Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e
che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due
poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se
non solo una volta, e di passata, citando que' due volumi, in una breve nota;
per dirne male.
Bernardino Lamis n'era rimasto
ferito proprio nel cuore; e piú s'era addolorato e indignato della critica
italiana che, elogiando anch'essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva
minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per
rilevare l'indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor
paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi
antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttoché
- secondo il suo modo di vedere - non gli fosse parso ben
fatto, s'era difeso da sé, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita
di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il von Grobler
era caduto, tutte le parti che costui s'era appropriate della sua opera senza
farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti
le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.
Questa sua difesa, però, per la
troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella
maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la
teneva da piú d'un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a
giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione,
aveva ricevuto dal direttore.
Sicché dunque davvero Bernardino
Lamis aveva ragione, uscito dall'Università, di sfogarsi quel giorno amaramente
coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso casa. E
parlava loro della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era
passata a sgambettare in quello della letteratura, prima, e ora, purtroppo,
anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità
vigliacca radicata profondamente nell'indole del popolo italiano, per cui è
gemma preziosa qualunque cosa venga d'oltralpe o d'oltremare e pietra falsa e
vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti
contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta,
pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall'estro ironico e bilioso del
professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannícoli, afflitto,
sospirava. A un certo punto il professor Lamis
tacque e prese un'aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il
professore voleva esser lasciato solo.
Ogni volta, dopo la lezione, si
faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi su per
quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso
Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva
quell'aria astratta, perché solito - prima di imboccare la Via del Governo
Vecchio, ove abitava - d'entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione)
in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano. I due
scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un
grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio
misterioso, tre volte la settimana.
Spinto dalla curiosità, il Ciotta
era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il
professore vi comperasse.
- Amaretti, schiumette e bocche di dama.
- E per chi serviranno?
Il Vannícoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta
avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il
professore stesso; perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si
cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva
già averne un'altra in bocca, di sicuro, la quale gli aveva impedito di
rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.
- Ebbene, e se mai, che c'è di male? Debolezze! - gli
aveva detto, seccato, il Vannícoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo
languido il vecchio professore, il quale se ne andava pian piano, molle molle,
strusciando le scarpe.
Non solamente questo peccatuccio di
gola, ma tante e tant'altre cose potevano essere perdonate a quell'uomo che,
per la scienza, s'era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli
volessero scivolare e fossero tenute su, penosamente, dal collo lungo, proteso
come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis
si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada
zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava
barba davanti - su le gote e sotto il mento - a collana.
Né il Ciotta né il Vannícoli
avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa
tutto il suo pasto giornaliero.
Due anni addietro, gli era piombata
addosso da Napoli la famiglia d'un suo fratello, morto colà improvvisamente: la
cognata, furia d'inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva
appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender
moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studii. Quando, senz'alcun
preavviso, s'era veduto innanzi quell'esercito strillante, accampato sul
pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d'innumerevoli fagotti e
fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un
momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua
modesta dimora erano state invase; la scoperta d'un giardinetto, unica e dolce
cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani
sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. Un mese dopo, non
c'era piú un filo d'erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato
l'ombra di se stesso: s'aggirava per lo studio come uno che non stia piú in
cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela
portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel
pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per
lui, questo supplizio, e chi sa quant'altro tempo ancora sarebbe durato, se un
giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a
ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il
maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso
prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:
- Belli grossi, neh, Gennarie', belli grossi e nuovi!
Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi
soldi sui muricciuoli.
Indignato, su le furie, quel giorno
stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche
scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole,
un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n'era andato
ad abitare - solo - in quelle due stanzette di via
Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da
lui. Le mandava ora per mezzo d'un
bidello dell'Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui
tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.
Non aveva voluto prendere neanche
una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d'accordo con la cognata.
Del resto, non ne aveva bisogno. Non s'era portato nemmeno il letto, dormiva
con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il
seggiolone. Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si
nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due
ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in
piedi com'era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca
di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell'inferno, si sentiva ora in
paradiso. Ma era venuto il von Grobler con
quel suo libraccio su l'Eresia Catara a guastargli le feste.
Quel giorno, appena rincasato,
Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente. Aveva innanzi a sé due giorni per finir di stendere
quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni
parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.
Le sue lezioni egli soleva scriverle
dalla prima parola fino all'ultima, in fogli di carta protocollo, di
minutissimo carattere. Poi, all'Università, le leggeva con voce lenta e grave,
reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per
potere vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui
narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I
due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il
Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto.
I banchi, nell'aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L'aula
era buja, e il Ciotta e il Vannícoli all'ultimo ordine, uno di qua, l'altro di
là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in
alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il
raspío delle loro penne frettolose.
Là, in quell'aula, poiché nessuno
s'era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel
tedescaccio, dettando una lezione memorabile. Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l'origine, la ragione,
l'essenza, l'importanza storica e le conseguenze dell'eresia catara,
riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte
polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del
von Grobler. Padrone com'era della materia, e col lavoro già pronto, sotto
mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la
penna. Con l'estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell'argomento,
due altri volumi piú poderosi dei primi.
Doveva invece restringersi a una
piana lettura di poco piú di un'ora: riempire cioè di quella sua minuta
scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva
già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte
polemica. Prima d'accingervisi, volle
rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse
fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere,
con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul
seggiolone.
A mano a mano, leggendo, se ne
compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel
seggiolone; e tutte, una dopo l'altra, in men d'un'ora, s'era mangiato
inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni.
Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.
Si mise senz'altro a scrivere, con
l'intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco
però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d'incorporarlo tutto quanto
di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto
né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d'una arguzia
cosí spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti cosí calzanti e
decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú
convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.
Quando fu alla mattina del terzo
giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla
scrivania ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.
Si smarrí. Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il
sommario di tutta la materia d'insegnamento che avrebbe svolto durante il
corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per
quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima
concessione all'amor proprio offeso, entrando quell'anno a parlare quasi senza
opportunità dell'eresia catara. Piú d'una lezione, dunque, non avrebbe potuto
spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo
il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un
argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell'annata. Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che
gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che
aveva scritte.
Questa riduzione gli costò un cosí
intenso sforzo intellettuale, che non avvertí nemmeno alla grandine, ai lampi,
ai tuoni d'un violentissimo uragano che s'era improvvisamente rovesciato su
Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di
carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci
minuti all'ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d'ombrello,
e si avviò sotto quell'acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la
sua "formidabile" lezione.
Giunse all'Università in uno stato
compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l'ombrello nella bacheca del
portinajo; si scosse un po' la pioggia di dosso, pestando i piedi; s'asciugò la
faccia e salí al loggiato. L'aula -
buja anche nei giorni sereni - pareva con quel tempo infernale una catacomba;
ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non
soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d'intravedere in essa, cosí di
sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari
che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno
con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta e
tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo
sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.
In preda a una viva emozione, posò
il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani
gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta
del naso. Nell'aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il
rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso
restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte
espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato
nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di
sé. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni
fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva,
gestiva. Il professor Bernardino Lamis, cosí rigido sempre, cosí contegnoso,
quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa
indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica
italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti
quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato
di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel
giorno perché con maggior solennità partisse dall'Ateneo di Roma la sua
sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.
Leggeva cosí da circa tre quarti
d'ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel
venire all'Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d'acqua e
s'era riparato in un portone, s'affacciò quasi impaurito all'uscio dell'aula.
Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi
non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva
trovato un bigliettino del Vannícoli che lo pregava di scusarlo presso l'amato
professore perché "essendogli la sera avanti smucciato un piede nell'uscir
di casa, aveva ruzzolato la scala, s'era slogato un braccio e non poteva
perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione".
A chi parlava, dunque, con tanto
fervore il professor Bernardino Lamis? Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell'aula e volse
in giro lo sguardo. Con gli occhi un po' abbagliati dalla luce di fuori, per
quanto scarsa, intravide anche nell'aula numerosi studenti, e ne rimase
stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.
Una ventina di soprabiti
impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano
quel giorno tutto l'uditorio del professor Bernardino Lamis. Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentí gelarsi il
sangue, vedendo il professore leggere cosí infervorato a quei soprabiti la sua
lezione, e si ritrasse quasi con paura. Intanto, terminata l'ora, dall'aula vicina usciva rumorosamente una frotta
di studenti di legge, ch'erano forse i proprietarii di quei soprabiti. Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender
fiato dall'emozione, stese le braccia e si piantò davanti all'uscio per
impedire il passo.
- Per carità, non entrate! C'è dentro il professor
Lamis.
- E che fa? - domandarono quelli, meravigliati
dell'aria stravolta del Ciotta.
Questi si pose un dito sulla bocca, poi disse piano,
con gli occhi sbarrati:
- Parla solo!
Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.
Il Ciotta chiuse lesto lesto l'uscio dell'aula,
scongiurando di nuovo:
- Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa
mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell'eresia catara!
Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero
che l'uscio fosse riaperto, pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo
di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri
nell'ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.
- ... ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in
fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro
illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler...
(Da Novelle per un anno)
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