mercoledì 20 febbraio 2013

Parole e fatti di Trilussa













Carlo Alberto Salustri, più conosciuto con lo pseudonimo di Trilussa - anagramma del cognome - (Roma, 26 ottobre 1871 Roma, 21 dicembre 1950), è stato un poeta italiano, noto per le sue composizioni in dialetto romanesco.

Parole e fatti

Certi Sorcetti pieni de giudizzio
s'ereno messi a rosicà er formaggio,
quanno, ner vede un Gatto de passaggio,
fecero finta de tené un comizzio.
Un Sorcio, infatti, prese la parola
con un pezzo de cacio ne la gola.
— Colleghi! — disse — questa è la più forte
battaja der pensiero che s'è vista:
io stesso lotterò pe' la conquista
de l'ideale mio fino a la morte!
Voi pure lo farete, so' sicuro... —
Ogni Sorcetto j'arispose: — Giuro!
— Fanno le cose propio ar naturale,
— disse er Miciotto — come fusse vero!
L'appetito lo chiameno Pensiero,
er formaggio lo chiameno Ideale...
Ma io, però, che ciò l'Istituzzione
me li lavoro tutti in un boccone

sabato 16 febbraio 2013

L'eresia catara(Racconto) di Luigi Pirandello













Luigi Pirandello (Agrigento28 giugno 1867 – Roma10 dicembre 1936) fu un drammaturgoscrittore e poeta italiano, insignito del premio Nobelper la letteratura nel 1934.********

Bernardino Lamis, professore ordinario di storia delle religioni, socchiudendo gli occhi addogliati e, come soleva nelle piú gravi occasioni, prendendosi il capo inteschiato tra le gracili mani tremolanti che pareva avessero in punta, invece delle unghie, cinque rosee conchigliette lucenti, annunziò ai due soli alunni che seguivano con pertinace fedeltà il suo corso:
- Diremo, o signori, nella ventura lezione, dell'eresia catara.
Uno de' due studenti, il Ciotta -  bruno ciociaretto di Guarcino, tozzo e solido -  digrignò i denti con fiera gioia e si diede una violenta fregatina alle mani. L'altro, il pallido Vannícoli, dai biondi capelli irti come fili di stoppia e dall'aria spirante, appuntí invece le labbra, rese piú dolente che mai lo sguardo dei chiari occhi languidi e stette col naso come in punto a annusar qualche odore sgradevole, per significare che era compreso della pena che al venerato maestro doveva certo costare la trattazione di quel tema, dopo quanto glien'aveva detto privatamente. (Perché il Vannícoli credeva che il professor Lamis quand'egli e il Ciotta, finita la lezione, lo accompagnavano per un lungo tratto di via verso casa, si rivolgesse unicamente a lui, solo capace d'intenderlo.)
E difatti il Vannícoli sapeva che da circa sei mesi era uscita in Germania (Halle a. S.) una mastodontica monografia di Hans von Grobler su l'Eresia Catara, messa dalla critica ai sette cieli, e che su lo stesso argomento, tre anni prima, Bernardino Lamis aveva scritto due poderosi volumi, di cui il von Grobler mostrava di non aver tenuto conto, se non solo una volta, e di passata, citando que' due volumi, in una breve nota; per dirne male.
Bernardino Lamis n'era rimasto ferito proprio nel cuore; e piú s'era addolorato e indignato della critica italiana che, elogiando anch'essa a occhi chiusi il libro tedesco, non aveva minimamente ricordato i due volumi anteriori di lui, né speso una parola per rilevare l'indegno trattamento usato dallo scrittore tedesco a uno scrittor paesano. Piú di due mesi aveva aspettato che qualcuno, almeno tra i suoi antichi scolari, si fosse mosso a difenderlo; poi, tuttoché -  secondo il suo modo di vedere -  non gli fosse parso ben fatto, s'era difeso da sé, notando in una lunga e minuziosa rassegna, condita di fine ironia, tutti gli errori piú o meno grossolani in cui il von Grobler era caduto, tutte le parti che costui s'era appropriate della sua opera senza farne menzione, e aveva infine raffermato con nuovi e inoppugnabili argomenti le proprie opinioni contro quelle discordanti dello storico tedesco.
Questa sua difesa, però, per la troppa lunghezza e per lo scarso interesse che avrebbe potuto destare nella maggioranza dei lettori, era stata rifiutata da due riviste; una terza se la teneva da piú d'un mese, e chi sa quanto tempo ancora se la sarebbe tenuta, a giudicare dalla risposta punto garbata che il Lamis, a una sua sollecitazione, aveva ricevuto dal direttore.
Sicché dunque davvero Bernardino Lamis aveva ragione, uscito dall'Università, di sfogarsi quel giorno amaramente coi due suoi fedeli giovani che lo accompagnavano al solito verso casa. E parlava loro della spudorata ciarlataneria che dal campo della politica era passata a sgambettare in quello della letteratura, prima, e ora, purtroppo, anche nei sacri e inviolabili dominii della scienza; parlava della servilità vigliacca radicata profondamente nell'indole del popolo italiano, per cui è gemma preziosa qualunque cosa venga d'oltralpe o d'oltremare e pietra falsa e vile tutto ciò che si produce da noi; accennava infine agli argomenti piú forti contro il suo avversario, da svolgere nella ventura lezione. E il Ciotta, pregustando il piacere che gli sarebbe venuto dall'estro ironico e bilioso del professore, tornava a fregarsi le mani, mentre il Vannícoli, afflitto, sospirava. A un certo punto il professor Lamis tacque e prese un'aria astratta: segno, questo, per i due scolari, che il professore voleva esser lasciato solo.
Ogni volta, dopo la lezione, si faceva una giratina per sollievo giú per la piazza del Pantheon, poi su per quella della Minerva, attraversava Via dei Cestari e sboccava sul Corso Vittorio Emanuele. Giunto in prossimità di Piazza San Pantaleo, prendeva quell'aria astratta, perché solito -  prima di imboccare la Via del Governo Vecchio, ove abitava - d'entrare (furtivamente, secondo la sua intenzione) in una pasticceria, donde poco dopo usciva con un cartoccio in mano. I due scolari sapevano che il professor Lamis non aveva da fare neppur le spese a un grillo, e non si potevano perciò capacitare della compera di quel cartoccio misterioso, tre volte la settimana.
Spinto dalla curiosità, il Ciotta era finanche entrato un giorno nella pasticceria a domandare che cosa il professore vi comperasse.
- Amaretti, schiumette e bocche di dama.
- E per chi serviranno?
Il Vannícoli diceva per i nipotini. Ma il Ciotta avrebbe messo le mani sul fuoco che servivano proprio per lui, per il professore stesso; perché una volta lo aveva sorpreso per via nel mentre che si cacciava una mano in tasca per trarne fuori una di quelle schiumette e doveva già averne un'altra in bocca, di sicuro, la quale gli aveva impedito di rispondere a voce al saluto che lui gli aveva rivolto.
- Ebbene, e se mai, che c'è di male? Debolezze! - gli aveva detto, seccato, il Vannícoli, mentre da lontano seguiva con lo sguardo languido il vecchio professore, il quale se ne andava pian piano, molle molle, strusciando le scarpe.
Non solamente questo peccatuccio di gola, ma tante e tant'altre cose potevano essere perdonate a quell'uomo che, per la scienza, s'era ridotto con quelle spalle aggobbate che pareva gli volessero scivolare e fossero tenute su, penosamente, dal collo lungo, proteso come sotto un giogo. Tra il cappello e la nuca la calvizie del professor Lamis si scopriva come una mezza luna cuojacea; gli tremolava su la nuca una rada zazzeretta argentea, che gli accavallava di qua e di là gli orecchi e seguitava barba davanti -  su le gote e sotto il mento -  a collana.
Né il Ciotta né il Vannícoli avrebbero mai supposto che in quel cartoccio Bernardino Lamis si portava a casa tutto il suo pasto giornaliero.
Due anni addietro, gli era piombata addosso da Napoli la famiglia d'un suo fratello, morto colà improvvisamente: la cognata, furia d'inferno, con sette figliuoli, il maggiore dei quali aveva appena undici anni. Notare che il professor Lamis non aveva voluto prender moglie per non esser distratto in alcun modo dagli studii. Quando, senz'alcun preavviso, s'era veduto innanzi quell'esercito strillante, accampato sul pianerottolo della scala, davanti la porta, a cavallo d'innumerevoli fagotti e fagottini, era rimasto allibito. Non potendo per la scala, aveva pensato per un momento di scappare buttandosi dalla finestra. Le quattro stanzette della sua modesta dimora erano state invase; la scoperta d'un giardinetto, unica e dolce cura dello zio, aveva suscitato un tripudio frenetico nei sette orfani sconsolati, come li chiamava la grassa cognata napoletana. Un mese dopo, non c'era piú un filo d'erba in quel giardinetto. Il professor Lamis era diventato l'ombra di se stesso: s'aggirava per lo studio come uno che non stia piú in cervello, tenendosi pur nondimeno la testa tra le mani quasi per non farsela portar via anche materialmente da quegli strilli, da quei pianti, da quel pandemonio imperversante dalla mattina alla sera. Ed era durato un anno, per lui, questo supplizio, e chi sa quant'altro tempo ancora sarebbe durato, se un giorno non si fosse accorto che la cognata, non contenta dello stipendio che a ogni ventisette del mese egli le consegnava intero, ajutava dal giardinetto il maggiore dei figliuoli a inerpicarsi fino alla finestra dello studio, chiuso prudentemente a chiave, per fargli rubare i libri:
- Belli grossi, neh, Gennarie', belli grossi e nuovi!
Mezza la sua biblioteca era andata a finire per pochi soldi sui muricciuoli.
Indignato, su le furie, quel giorno stesso, Bernardino Lamis con sei ceste di libri superstiti e tre rustiche scansie, un gran crocefisso di cartone, una cassa di biancheria, tre seggiole, un ampio seggiolone di cuojo, la scrivania alta e un lavamano, se n'era andato ad abitare -  solo -  in quelle due stanzette di via Governo Vecchio, dopo aver imposto alla cognata di non farsi vedere mai piú da lui. Le mandava ora per mezzo d'un bidello dell'Università, puntualmente ogni mese, lo stipendio, di cui tratteneva soltanto lo stretto necessario per sé.
Non aveva voluto prendere neanche una serva a mezzo servizio, temendo che si mettesse d'accordo con la cognata. Del resto, non ne aveva bisogno. Non s'era portato nemmeno il letto, dormiva con uno scialletto su le spalle, avvoltolato in una coperta di lana, entro il seggiolone. Non cucinava. Seguace a modo suo della teoria del Fletcher, si nutriva con poco, masticando molto. Votava quel famoso cartoccio nelle due ampie tasche dei calzoni, metà qua, metà là, e mentre studiava o scriveva, in piedi com'era solito, mangiucchiava o un amaretto o una schiumetta o una bocca di dama. Se aveva sete, acqua. Dopo un anno di quell'inferno, si sentiva ora in paradiso. Ma era venuto il von Grobler con quel suo libraccio su l'Eresia Catara a guastargli le feste.
Quel giorno, appena rincasato, Bernardino Lamis si rimise al lavoro, febbrilmente. Aveva innanzi a sé due giorni per finir di stendere quella lezione che gli stava tanto a cuore. Voleva che fosse formidabile. Ogni parola doveva essere una frecciata per quel tedescaccio von Grobler.
Le sue lezioni egli soleva scriverle dalla prima parola fino all'ultima, in fogli di carta protocollo, di minutissimo carattere. Poi, all'Università, le leggeva con voce lenta e grave, reclinando indietro il capo, increspando la fronte e stendendo le pàlpebre per potere vedere attraverso le lenti insellate su la punta del naso, dalle cui narici uscivano due cespuglietti di ispidi peli grigi liberamente cresciuti. I due fidi scolari avevano tutto il tempo di scrivere quasi sotto dettatura. Il Lamis non montava mai in cattedra: sedeva umilmente davanti al tavolino sotto. I banchi, nell'aula, erano disposti in quattro ordini, ad anfiteatro. L'aula era buja, e il Ciotta e il Vannícoli all'ultimo ordine, uno di qua, l'altro di là, ai due estremi, per aver luce dai due occhi ferrati che si aprivano in alto. Il professore non li vedeva mai durante la lezione: udiva soltanto il raspío delle loro penne frettolose.
Là, in quell'aula, poiché nessuno s'era levato in sua difesa, lui si sarebbe vendicato della villania di quel tedescaccio, dettando una lezione memorabile. Avrebbe prima esposto con succinta chiarezza l'origine, la ragione, l'essenza, l'importanza storica e le conseguenze dell'eresia catara, riassumendole dai suoi due volumi; si sarebbe poi lanciato nella parte polemica, avvalendosi dello studio critico che aveva già fatto sul libro del von Grobler. Padrone com'era della materia, e col lavoro già pronto, sotto mano, a una sola fatica sarebbe andato incontro: a quella di tenere a freno la penna. Con l'estro della bile, avrebbe scritto in due giorni, su quell'argomento, due altri volumi piú poderosi dei primi.
Doveva invece restringersi a una piana lettura di poco piú di un'ora: riempire cioè di quella sua minuta scrittura non piú di cinque o sei facciate di carta protocollo. Due le aveva già scritte. Le tre o quattro altre facciate dovevano servire per la parte polemica. Prima d'accingervisi, volle rileggere la bozza del suo studio critico sul libro del von Grobler. La trasse fuori dal cassetto della scrivania, vi soffiò su per cacciar via la polvere, con le lenti già su la punta del naso, e andò a stendersi lungo lungo sul seggiolone.
A mano a mano, leggendo, se ne compiacque tanto, che per miracolo non si trovò ritto in piedi su quel seggiolone; e tutte, una dopo l'altra, in men d'un'ora, s'era mangiato inavvertitamente le schiumette che dovevano servirgli per due giorni. Mortificato, trasse fuori la tasca vuota, per scuoterne la sfarinatura.
Si mise senz'altro a scrivere, con l'intenzione di riassumere per sommi capi quello studio critico. A poco a poco però, scrivendo, si lasciò vincere dalla tentazione d'incorporarlo tutto quanto di filo nella lezione, parendogli che nulla vi fosse di superfluo, né un punto né una virgola. Come rinunziare, infatti, a certe espressioni d'una arguzia cosí spontanea e di tanta efficacia? a certi argomenti cosí calzanti e decisivi? E altri e altri ancora gliene venivano, scrivendo, piú lucidi, piú convincenti, a cui non era del pari possibile rinunziare.
Quando fu alla mattina del terzo giorno, che doveva dettar la lezione, Bernardino Lamis si trovò davanti, sulla scrivania ben quindici facciate fitte fitte, invece di sei.
Si smarrí. Scrupolosissimo nel suo officio, soleva ogni anno, in principio, dettare il sommario di tutta la materia d'insegnamento che avrebbe svolto durante il corso, e a questo sommario si atteneva rigorosissimamente. Già aveva fatto, per quella malaugurata pubblicazione del libro del von Grobler, una prima concessione all'amor proprio offeso, entrando quell'anno a parlare quasi senza opportunità dell'eresia catara. Piú d'una lezione, dunque, non avrebbe potuto spenderci. Non voleva a nessun costo che si dicesse che per bizza o per sfogo il professor Lamis parlava fuor di proposito o piú del necessario su un argomento che non rientrava se non di lontano nella materia dell'annata. Bisognava dunque, assolutamente, nelle poche ore che gli restavano, ridurre a otto, a nove facciate al massimo, le quindici che aveva scritte.
Questa riduzione gli costò un cosí intenso sforzo intellettuale, che non avvertí nemmeno alla grandine, ai lampi, ai tuoni d'un violentissimo uragano che s'era improvvisamente rovesciato su Roma. Quando fu su la soglia del portoncino di casa, col suo lungo rotoletto di carta sotto il braccio, pioveva a diluvio. Come fare? Mancavano appena dieci minuti all'ora fissata per la lezione. Rifece le scale, per munirsi d'ombrello, e si avviò sotto quell'acqua, riparando alla meglio il rotoletto di carta, la sua "formidabile" lezione.
Giunse all'Università in uno stato compassionevole: zuppo da capo a piedi. Lasciò l'ombrello nella bacheca del portinajo; si scosse un po' la pioggia di dosso, pestando i piedi; s'asciugò la faccia e salí al loggiato. L'aula - buja anche nei giorni sereni - pareva con quel tempo infernale una catacomba; ci si vedeva a mala pena. Non di meno, entrando, il professor Lamis, che non soleva mai alzare il capo, ebbe la consolazione d'intravedere in essa, cosí di sfuggita, un insolito affollamento, e ne lodò in cuor suo i due fidi scolari che evidentemente avevano sparso tra i compagni la voce del particolare impegno con cui il loro vecchio professore avrebbe svolto quella lezione che tanta e tanta fatica gli era costata e dove tanto tesoro di cognizioni era con sommo sforzo racchiuso e tanta arguzia imprigionata.
In preda a una viva emozione, posò il cappello e montò, quel giorno, insolitamente, in cattedra. Le gracili mani gli tremolavano talmente, che stentò non poco a inforcarsi le lenti sulla punta del naso. Nell'aula il silenzio era perfetto. E il professor Lamis, svolto il rotolo di carta, prese a leggere con voce alta e vibrante, di cui egli stesso restò meravigliato. A quali note sarebbe salito, allorché, finita la parte espositiva per cui non era acconcio quel tono di voce, si sarebbe lanciato nella polemica? Ma in quel momento il professor Lamis non era piú padrone di sé. Quasi morso dalle vipere del suo stile, sentiva di tratto in tratto le reni fènderglisi per lunghi brividi e alzava di punto in punto la voce e gestiva, gestiva. Il professor Bernardino Lamis, cosí rigido sempre, cosí contegnoso, quel giorno, gestiva! Troppa bile aveva accumulato in sei mesi, troppa indignazione gli avevano cagionato la servilità, il silenzio della critica italiana; e questo ora, ecco, era per lui il momento della rivincita! Tutti quei bravi giovani, che stavano ad ascoltarlo religiosamente, avrebbero parlato di questa sua lezione, avrebbero detto che egli era salito in cattedra quel giorno perché con maggior solennità partisse dall'Ateneo di Roma la sua sdegnosa risposta non al von Grobler soltanto, ma a tutta quanta la Germania.
Leggeva cosí da circa tre quarti d'ora, sempre piú acceso e vibrante, allorché lo studente Ciotta, che nel venire all'Università era stato sorpreso da un piú forte rovescio d'acqua e s'era riparato in un portone, s'affacciò quasi impaurito all'uscio dell'aula. Essendo in ritardo, aveva sperato che il professor Lamis con quel tempo da lupi non sarebbe venuto a far lezione. Giú, poi, nella bacheca del portinajo, aveva trovato un bigliettino del Vannícoli che lo pregava di scusarlo presso l'amato professore perché "essendogli la sera avanti smucciato un piede nell'uscir di casa, aveva ruzzolato la scala, s'era slogato un braccio e non poteva perciò, con suo sommo dolore, assistere alla lezione".
A chi parlava, dunque, con tanto fervore il professor Bernardino Lamis? Zitto zitto, in punta di piedi, il Ciotta varcò la soglia dell'aula e volse in giro lo sguardo. Con gli occhi un po' abbagliati dalla luce di fuori, per quanto scarsa, intravide anche nell'aula numerosi studenti, e ne rimase stupito. Possibile? Si sforzò a guardar meglio.
Una ventina di soprabiti impermeabili, stesi qua e là a sgocciolare nella buja aula deserta, formavano quel giorno tutto l'uditorio del professor Bernardino Lamis. Il Ciotta li guardò, sbigottito, sentí gelarsi il sangue, vedendo il professore leggere cosí infervorato a quei soprabiti la sua lezione, e si ritrasse quasi con paura. Intanto, terminata l'ora, dall'aula vicina usciva rumorosamente una frotta di studenti di legge, ch'erano forse i proprietarii di quei soprabiti. Subito il Ciotta, che non poteva ancora riprender fiato dall'emozione, stese le braccia e si piantò davanti all'uscio per impedire il passo.
- Per carità, non entrate! C'è dentro il professor Lamis.
- E che fa? - domandarono quelli, meravigliati dell'aria stravolta del Ciotta.
Questi si pose un dito sulla bocca, poi disse piano, con gli occhi sbarrati:
- Parla solo!
Scoppiò una clamorosa irrefrenabile risata.
Il Ciotta chiuse lesto lesto l'uscio dell'aula, scongiurando di nuovo:
- Zitti, per carità, zitti! Non gli date questa mortificazione, povero vecchio! Sta parlando dell'eresia catara!
Ma gli studenti, promettendo di far silenzio, vollero che l'uscio fosse riaperto, pian piano, per godersi dalla soglia lo spettacolo di quei loro poveri soprabiti che ascoltavano immobili, sgocciolanti neri nell'ombra, la formidabile lezione del professor Bernardino Lamis.
- ... ma il manicheismo, o signori, il manicheismo, in fondo, che cosa è? Ditelo voi! Ora, se i primi Albigesi, a detta del nostro illustre storico tedesco, signor Hans von Grobler...
(Da Novelle per un anno)

mercoledì 13 febbraio 2013

L’eragrostis del signor Colombo(Racconto) di Piero Chiara














Piero Chiara (all'anagrafe Pierino Chiara; Luino, 23 marzo 1913  Varese, 31 dicembre 1986) è stato uno scrittore italiano.

         Nella lottizzazione di una tenuta agricola a qualche chilometro da Milano, verso la Brianza, il signor Carlo Colombo e il signor Mario Colombo si trovarono ad essere acquirenti all‘insaputa l‘uno dell‘altro di due ritagli di pari grandezza.
Ambedue i Colombo, che non erano neppure parenti alla lontana, decisero di costruire una villetta a ridosso d'un rilievo arborato e davanti ad uno spiazzo rettangolare che pensarono di ridurre a prato: prato all'inglese o pelouse, steso come un tappeto tra il parterre e la cancellata che chiudeva le due proprietà verso un viale di tigli.
Fin dall'inizio dei lavori di costruzione i due Colombo cominciarono a guardarsi con sospetto: destinati ad essere confinanti per tutta la vita, preparavano quella freddezza di rapporti che avrebbe garantito la loro reciproca indipendenza. Non sapevano di avere lo stesso cognome, le stesse aspirazioni, la stessa età e una quasi identica moglie. Erano due coppie di coniugi senza figli, che parevano fatte apposta per dar motivo di confusione a tutti i loro fornitori, i quali solo nel giro di alcuni anni sarebbero riusciti a non consegnare i pacchi della famiglia Colombo Mario alla famiglia Colombo Carlo o viceversa.
Insediati nelle loro villette all'inizio dell'estate, ebbero ciascuno per proprio conto il piacere di veder crescere in poche settimane il prato all'inglese, ugualmente fitto e di pari altezza, senza intrusione di trifoglio o di altre erbe infestanti. Ebbero anche la sorpresa di leggere il loro rispettivo cognome sulla targhetta collocata sopra il campanello, a metà dei relativi pilastrini: Colombo al primo cancello, Colombo al secondo. Nessuno dei due aveva pensato di far precedere il cognome dal nome o almeno dall'iniziale del nome.
Sempre più indispettiti nel trovarsi ad essere l'uno lo specchio dell'altro, evitarono accuratamente d'incontrarsi e diedero disposizioni alle mogli perché si ignorassero con pari costanza e attenzione.
Era a questo punto il loro godimento della sospirata tranquillità, quando un giorno il Mario Colombo, affacciandosi al balcone, credette notare che il prato del vicino era di un verde più intenso del suo, più compatto e regolare. Subito ricordò il detto "Il prato del vicino è sempre più verde" e cercò di non pensarci. Ma guarda e riguarda, dovette persuadersi che gli era proprio toccato l'appezzamento meno adatto a quel genere di prato. Chiamò un giardiniere, il quale negò qualsiasi differenza, osando perfino sostenere il contrario, cioè che era più verde il suo.
Temendo d'essersi imbattuto in persona infeudata al vicino, il Colombo Mario si rivolse a un altro giardiniere perché intensificasse la seminagione in modo da superare qualunque altro prato prossimo o lontano.
L'esperto fu del parere che non c'era nulla da fare: per ottenere un verde più intenso ci voleva l'umidità del suolo inglese. Si limitò a raccomandare l'innaffiamento quotidiano, possibilmente serotino.
Fra le due proprietà, entrambi i Colombo avevano fatto collocare una piantata molto fitta di tuie, un po' funerarie, ma impenetrabili a ogni sguardo, così che potevano innaffiare alla stessa ora, verso sera, senza scorgersi l'un l‘altro. Il Colombo Mario arrivò a decidere una bagnata supplementare di mattina, ma si accorse che il Colombo Carlo ci aveva già pensato. Il giorno dopo infatti, appena ebbe in mano la sua canna, vide un arcobaleno di goccioline che si librava nel cielo, sopra le tuie, contro il sole appena sorto.
Dall'invidia e dal dispetto che la vicinanza dell'omonimo e l'impossibilità di superarlo gli suscitava in cuore, il Colombo Mario guarì per puro caso, o forse perché ogni male porta sempre dentro di sé il suo rimedio.
Un pomeriggio, rincasando lungo il viale dei tigli, notò dietro un tronco, proprio all'inizio della sua proprietà, qualche cosa di rosso che si muoveva. Girò intorno alla pianta e si trovò di fronte alla signora Colombo, moglie del vicino, che stava allacciandosi una giarrettiera. Sospettò che fosse una finta mossa e che in verità la signora stesse osservando la sua proprietà. Benché turbato da quel dubbio, si ritrasse domandando scusa. Ma la signora, che si era subito ricomposta, gli sorrise con umiltà. Non poteva essere villano. Tolse il cappello e allungò la mano per presentarsi: «Colombo».
«Colombo» rispose la signora.
«Già» disse il Colombo amaramente. «Non solo siamo vicini, anzi adiacenti, e abbiamo le ville quasi uguali, ma perfino lo stesso cognome.»
«Niente di male» rispose la signora. «Di Colombo ce ne sono a centinaia sull'elenco telefonico di Milano.»
«Certo, ma la cosa può dar luogo a degli inconvenienti, a qualche qui pro quo. Non le sembra?»
Si erano avviati lentamente, affiancandosi, ma il Colombo, arrivato all'altezza del suo cancello non entrò, dicendo di voler continuare la passeggiata dal momento che sua moglie era in città, dal parrucchiere.
«Passo anch'io» disse la signora «delle mezze giornate dal parrucchiere. In casa mi annoio: mio marito è sempre fuori. Stasera, per esempio, non torna neppure a cena. Ha un pranzo d'affari.»
«Sarò indiscreto», la interruppe il Colombo che non l'aveva neppure ascoltata, «ma vorrei togliermi una curiosità: il vostro prato è di saggina o di eragrostis?»
«Di saggina, naturalmente, come il suo!»
«Le confesso», riprese il Colombo, «che dapprima volevo farlo di eragrostis…»
«Per carità! Sarebbe stato un grosso errore! L‘eragrostis è un'erbaccia: una specie di gramigna!» «Appunto, appunto. Chi non lo sa che per ottenere il vero prato inglese ci vuole la saggina?»
La signora, che non aveva capito la curiosità del signor Colombo, gli chiese:
«Scusi se sono un po' curiosa anch'io, ma ha forse notato qualche differenza fra i due prati?»
«Molta differenza no: la qualità dell'erba è la stessa, il terreno è il medesimo… Solo che il vostro cresce meglio. Come se fosse concimato…»
«Concimato? Ma cosa dice? Qualunque concime brucerebbe l'erba!»
«Certo. Dicevo così… Un'impressione.» «Sa», disse la signora, «che anche mio marito è di questa opinione? Secondo lui cresce meglio il vostro.»
Sorrisero tutti e due e si guardarono negli occhi. Erano davanti al cancello del Colombo Carlo e stavano per salutarsi. Il Mario Colombo non poté resistere alla tentazione di dare un'occhiata alla signora, ora che il suo dubbio lo aveva espresso. Si era quasi dimenticato di averle visto una gamba scoperta, poco prima, dietro il tronco del tiglio. Coscia piena, a pancia di pesce, attacco robusto, ginocchio leggero, liscio, polpaccio un po' a bottiglia, ma armonioso. Considerandola da vicino si accorse che la signora aveva la vita sottile e il petto ben sostenuto. Tutti i confronti con sua moglie furono a favore della vicina. La quale, un po' imbarazzata, resisteva a quell'esame e preparava uno sguardo severo per quando il signor Colombo l'avrebbe di nuovo guardata in faccia. Ma il Colombo, fissandole i piedi e scuotendo la testa, mormorò:
«Non solo l‘erba del vicino è più verde… Mia moglie è una brava donna, curata, sempre in ordine… Ma lei, mi permetta, ha una figura…»
«Mi sembra che alla sua signora non manchi proprio niente. E lei non dovrebbe fare di questi confronti.»
«No, no. Non è per fare dei confronti, o perché le cose degli altri fanno sempre invidia, ma debbo riconoscere che una signora come lei si vede di rado. Sono felice di averla per vicina. Anzi, bisognerà che un giorno o l'altro vi conosciate, con mia moglie. Poi avrò il piacere di conoscere suo marito. In fondo, siamo qui a due passi, in una zona isolata. Lo sa che è meglio un buon vicino che un parente, tante volte?»
«Certo, certo. Faremo conoscenza, da buoni vicini. Ma in quanto all'erba, non si metta in testa che ci sia differenza. Sa come spiego io la faccenda?»
«Come la spiega?»
«La spiego così: lei guarda il suo prato perpendicolarmente, dal balcone, e lo vede un po' rarefatto, con qualche chiazza di terra qua e là. Il nostro prato invece le si presenta di scorcio. Vedendolo di scorcio è naturale che le sembri più fitto e il verde più intenso. La stessa cosa capita a mio marito. Sapesse com'è geloso del suo prato! Voi uomini avete meno senso della realtà di noi donne. Scommetto che a sua moglie non è mai venuto in mente che il nostro prato è più verde.» «Infatti!»
«Vede che ho detto giusto?» «E' un'osservazione acuta» riconobbe il Colombo. «Non ha torto. Potrebbe trattarsi di un'illusione ottica. E' come guardare una cancellata: un conto è guardarla di fronte e un conto guardarla di profilo. Di profilo sembra un muro. Così l'erba… Ma sa che mi viene voglia di constatare? Mi piacerebbe proprio guardare il mio prato dal suo balcone!» «Se è solo per questo, s'accomodi.» La signora Colombo tolse la chiave dalla borsetta e aprì il cancello. Traversando il prato seguita dal Colombo, disse:
«Veramente, il nostro balcone corrisponde alla camera da letto. Ma comunque, per dare un'occhiata!»
Entrarono in casa, salirono al piano superiore e traversarono la camera da letto. La signora aprì le imposte del balcone e il Colombo, che si era accostato alla ringhiera, emise subito un grugnito di soddisfazione. Il suo prato era nettamente più verde di quello del vicino. Tornò a contemplarlo, chino sul parapetto.
La signora, sorridendo soddisfatta, andò ad affiancarglisi, forse un po' troppo vicino, tanto che, spostando il braccio di solo mezzo centimetro, il signor Colombo ne sentì la carne attraverso la manica della sua giacca di alpaga. Ebbe un brivido. Aveva sotto gli occhi, a distanza ravvicinata, il braccio marmoreo della signora Colombo, compresso contro il busto a mandare avanti, davanzale sul davanzale, un vero petto da competizione. Avvicinò il naso all'ascella sinistra della signora, che si scostò un poco. Dall'ascella uscì un afrore che lo fece impallidire.
La signora si alzò e si ritrasse lasciando aperto il balcone. Il signor Colombo la seguì inebetito attraverso la camera, accorgendosi che la fonte di quell'odore non cessava di emettere richiami. Capì che stava per fare una pazzia. Ma l'aveva capito anche la signora, che lo teneva d'occhio in uno specchio. Quando fu certa che il Colombo stava per allungare le mani, si girò di colpo, ma non ebbe spazio sufficiente per manovrare una qualsiasi difesa.
La coperta di lino azzurro del letto, tesa fin sopra i cuscini, si stendeva sotto di loro come un abisso marino pronto a riceverli.
Dopo alcuni annaspamenti e con un piccolo grido di disappunto della signora, irritata non tanto con se stessa quanto con la sorte che si era servita dell'eragrostis e della saggina per ridurla a quel punto, i due caddero sul letto.
Una mezz'ora dopo, sul cancello, il Colombo Mario non aveva più parole. Le aveva dette tutte, quelle che poteva dire, tra la camera da letto e la soglia dove la signora, perfettamente ricomposta, lo congedava con sussiego: «Spero che saprà dimenticare tutto al più presto», gli disse indurendo i tratti del viso.
Il Colombo si portò una mano al petto e piegò il capo in silenzio. Riprese fiato solo rientrando nella sua proprietà. "Eragrostis o saggina, si disse a mezza voce, di fronte o di profilo, dall'alto o dal basso, i due praticelli sono uguali, non c'è dubbio. Ma di Colombo come me, ce n'è uno solo!" 
(Da Di casa in casa, la vita)

domenica 3 febbraio 2013

Il dubbio(Racconto) di Alfredo Giglio


      
Alfredo Giglio è un distinto signore di Crotone, ex capostazione delle FFSS, che io ho conosciuto piuttosto tardi, un’estate di qualche anno fa, sulla spiaggia, tra una chiacchierata e l’altra tra vicini di ombrellone. Rimasi colpito dalla sua cordialità, ma soprattutto dalle sue qualità di narratore e di affabulatore. Siamo diventati  amici ed ho potuto anche leggere qualche suo libro. Il racconto che segue mi è sembrato particolarmente bello.
                                         

 Il  dubbio

Il giorno successivo alla chiusura delle scuole, il 1° giugno, il sole picchiava già forte e Marco Terlizzi, capostazione in un  piccolo centro ferroviario della costa ionica, approfittando del riposo settimanale, decise di portare al mare la moglie Letizia e la figlioletta  Stefania.
Prese  l’auto e dopo pochi chilometri si fermò ad una cinquantina di metri dal mare, in una radura ombreggiata da alcuni eucalipti giganteschi e odorosi. In pochi minuti l’intera famiglia  si ritrovò  sulla sabbia, già arroventata da un sole torrido: fu piantato un ombrellone a pochi passi dalla battigia e furono sistemate le sedie pieghevoli. Il mare,  calmo nel suo azzurro intenso, si poteva quasi toccare con mano e soprattutto si poteva controllare da vicino la piccola Stefania, intenta a giocare col suo secchiello e la sua paletta di plastica colorata.
Erano da poco passate le dieci, quando fu vista  passare una ragazza, dall’apparente età di vent’anni o poco più, dai lunghi capelli neri e  fluenti sulle spalle, formosa e dallo sguardo intenso. Lentamente essa si avvicinò a Marco e chiese l’ora. Egli, premuroso e gentile come sempre, le fece vedere l’orologio: erano le dieci e un quarto. Poi, come preso da un presentimento e spinto anche dalla sua istintiva e naturale cordialità, le chiese se avesse già fatto il bagno, dal momento che il suo due pezzi era umido e stillante di gocce d’acqua. La ragazza rispose, con estrema sincerità, che si era limitata ad una rapida immersione e che avrebbe fatto volentieri un vero bagno, se solo avesse saputo nuotare. Non aveva avuto modo di imparare, anche perché aveva un po’ paura del mare, e quindi preferiva prendere il sole, per poter tornare a casa abbronzata.
Marco, quasi per scherzare, replicò che, se avesse avuto fiducia in lui, le avrebbe insegnato a reggersi a galla. Intervenne  prontamente anche la moglie Letizia, forse per fare amicizia, che  la  sollecitò a fidarsi e a  fare il bagno tranquilla, perché il marito era un abile nuotatore. Poi la signora tese la mano e si presentò:
-Mi chiamo Letizia e sono la moglie di Marco.
La ragazza di rimando:
-Mi chiamo Annamaria.
Poi si girò verso Marco e gli porse la mano, che egli strinse prontamente, con energia, avvertendo una piacevole sensazione di calore.
Dopo pochi minuti di conversazione,  i due si avviarono verso il mare calmo e si lasciarono trasportare dal dolce dondolio delle onde. Lei però avvertiva una specie di freddo ai piedi e voleva quasi tornare indietro, perciò Marco l’investì con una serie di domande, che servirono a distrarla  e a farla recedere dal suo proposito. A lui quella ragazza con gli occhi grandi e luminosi, che esprimevano il mistero di una passione infinita, piaceva moltissimo ed egli  voleva conoscerla a tutti i costi e magari esplorare i meandri di quel corpo che sembrava un inno alla vita e all’amore. Mentre procedevano  lentamente nell’acqua, lei gli disse che era venuta  da Napoli per una breve vacanza, ma che purtroppo sarebbe ripartita il giorno dopo con le sue amiche, le quali  avevano preferito in quella giornata afosa recarsi a visitare i monti verdi della Sila, mentre lei aveva preferito restare al mare. Aggiunse di essere insegnante elementare e quindi domandò a Marco, che le si era avvicinato per cingerla dolcemente  e farla distendere sull’acqua, che cosa facesse nella vita. Egli placidamente rispose di fare il capostazione in quella minuscola località sperduta della costa ionica, dove di rado “approdavano sirene belle e piacenti come lei”.
Annamaria ringraziò per il complimento e si lasciò prendere dalle braccia, distendendosi mollemente sull’acqua.
-Batti i piedi, le diceva lui, senza piegare eccessivamente le ginocchia. Batti forte, altrimenti affondi.
Le passò la mano sotto la pancia, fino all’inguine, per sollevarla e portare a galla i bianchi glutei, che avrebbe voluto baciare. Lei, impacciata e totalmente incapace di reagire, era diventata rossa in viso  e ansimava senza proferire parola. Quando la mano di lui arrivò a sfiorare le sue parti più intime, lei si abbandonò completamente, appesantendo il corpo che tornò ad affondare. Ormai l’acqua era alta, oltre il metro e mezzo, e lui si accorse di toccare solo con la punta dei piedi. La resse  sotto le ascelle per impedire che fosse presa dal panico e nel tramestio che ne seguì tirò verso di sé  le bretelle del due pezzi:i suoi seni, come due bianche palle di gomma, abbandonarono quel reggiseno striminzito, per fluttuare liberi e bellissimi nell’acqua marina.
Marco avrebbe voluto fare chissà che, ma si limitò ad accarezzarli, aspettando la probabile reazione di Annamaria. Reazione che giunse tardiva e laconica e che si risolse in un chiaro invito a continuare. Marco si sentiva felice e sollevato: poteva osare tutto! La condusse, tenendola per mano, dietro una lingua di sabbia che precludeva la vista alla moglie che, ignara, era rimasta con la bambina sotto l’ombrellone. L’acqua era profonda e lei si abbracciò a Marco tenendolo stretto per il collo. Poi trovarono una sottile striscia di sabbia e qui lui prese ad abbassarle la parte inferiore del due pezzi.
-Hai mai fatto l’amore?, le chiese.
-Sì, rispose lei, una sola volta quando avevo diciassette anni. Ora ne ho ventiquattro e dentro di me si è  acceso un fuoco che tu dovrai spegnere subito, prima che mi distrugga.
Quell’ amplesso troppe volte  rimandato, troppe volte  sognato, si stava realizzando pienamente per la seconda volta a distanza di sette anni.
Quando Marco si rialzò, lei rimase per terra con gli occhi chiusi, come sognasse. Marco si preoccupò di ridestarla: l’accarezzò sul viso, la baciò e le sussurrò parole d’amore. Dopo alcuni minuti, che a lui sembrarono un’eternità, Annamaria si svegliò, si rialzò e infilò  il costume. Le chiese come si sentisse, perché si fosse assopita e lei rispose:
-Non mi sono assopita, sono solo salita in Cielo per ascoltare il coro degli Angeli ed ora sono discesa sulla terra, per ascoltare la tua voce. Sto benissimo, stai tranquillo e grazie per la gioia che hai voluto regalarmi.
Ritornarono lentamente, camminando sulla sabbia lambita dalle onde, per non scottarsi i piedi ed in pochi minuti giunsero sotto l’ombrellone, dove Letizia e Stefania stavano ad attenderli pazientemente. Si era fatto mezzogiorno e la bambina doveva rientrare a casa per pranzare. Ad Annamaria fu offerto un passaggio fino in paese, ma lei rifiutò poiché, diceva, sarebbe venuta un’amica a prenderla con l’auto, alle 12,30.
 Durante il ritorno, Marco ricordò le parole di lei, che le aveva raccomandato di non dimenticarla e di non dimenticare quel loro fugace incontro. Lei avrebbe serbato nel suo cuore il ricordo di lui per tutta la vita. Erano parole nobili e dolcissime, ma sarebbe poi stato vero? O lei aveva già altri amori  nella sua bella Napoli?
Il giorno dopo Marco rientrò in servizio, nel turno pomeridiano: elegante nella sua divisa estiva, si destreggiava fra telefonate e richieste di biglietti da parte dei numerosi viaggiatori, mentre si mostrava puntuale nel far partire i treni, in sicurezza ed in perfetto orario. Già verso le ore 16,00 si trovavano nella stazione diversi viaggiatori, per il treno delle 16,30 diretto a Lamezia Terme, che era in coincidenza con i treni che portavano a nord e quindi anche a Napoli.
La stazione era insolitamente affollata quel giorno. Alcuni giovani, insolenti e frettolosi, vociavano sguaiatamente. Un’anziana signora cercava di consolare una bambina che piangeva disperatamente. Un informe contadino sudicio, con un berretto di sotto al quale spuntavano dei capelli arruffati, cercava di vendere ai passanti cestini ripieni di uova. Due ragazze, sorridendo tra di loro, facevano apprezzamenti ad alta voce sul vestito di una terza ragazza. Molti viaggiatori, in attesa del treno, stavano attenti ai loro bagagli.
Marco osservava e controllava con distacco quella varia umanità che si agitava nel piccolo mondo della “sua” stazione, quando fu colpito da un gruppo di sei suore, che discutevano animatamente, ridendo di gusto e passeggiando lentamente. Le osservò con cura , perché gli era parso che una di loro, che portava grandi occhiali da sole, rivolgesse  il suo sguardo verso di lui, con un sorriso di compiacimento. Addirittura egli ebbe l’impressione che  il gruppetto si dirigesse verso di lui e perciò si spostò sul piazzale, per osservare meglio: aveva l’impressione  di conoscere  o di avere già visto da qualche parte quel sorriso, su quelle labbra rosse, che mostravano una fila di denti bianchi e perfetti. Ma la suora, avvolta in un abito nero, con un velo nero che le copriva totalmente i capelli e con quegli occhialoni scuri, lo disorientava. E poi perché lo guardava così tanto?
Marco non riusciva a darsi una spiegazione,  ma ebbe la netta sensazione di aver conosciuto quella donna.
Il treno giunse in orario ed i viaggiatori si affrettarono a salire, con  i loro bagagli. Le suore si diressero verso la coda del convoglio, per salire nella vettura ed occupare i loro posti. Mentre salivano, il capostazione notò che  quella suora con gli occhiali scuri stava salendo  volutamente  per ultima: indirizzava il suo sguardo con  insistenza verso di lui e gli rivolgeva un largo sorriso. Marco alzò la paletta: l’ordine di partenza era stato impartito ed il convoglio s’avviava lento, sferragliando sulle rotaie. Mentre il treno si allontanava dalla stazione, qualcuno, affacciato al finestrino, mandava un ultimo saluto ad amici e parenti. Anche la suora dagli occhiali scuri si era affacciata al finestrino e, passando davanti al capostazione, serio nella sua divisa, col suo cappello rosso, si tolse gli occhiali  e mostrò i suoi occhi tristi e velati di lacrime. Il suo sorriso di poco prima nel frattempo si era spento e sembrava essersi tramutato  in una smorfia di dolore.
Marco la osservò a lungo, finché poté. Nella sua mente, all’improvviso, avvampò una luce più viva che mai, che gli schiarì tutto quello che prima era nelle tenebre.
-Quella suora è Annamaria, si disse sottovoce, è lei. Ma l’ho vista in momenti tanto diversi, con vestiti tanto diversi, ed il dubbio mi rimarrà, per sempre.