venerdì 4 gennaio 2013

Fino a prova contraria(Racconto) di Ezio Scaramuzzino


Un veterinario con qualche problema sessuale. Uno strano omicidio nella notte. Tutti gli ingredienti del giallo.*****



Il dottor Luciano Ratti stava ritornando a casa, con la sua Alfa Romeo Giulietta, dopo una giornata di intenso lavoro. A Crotone aveva partecipato ad una riunione con dei colleghi  veterinari, aveva concluso  importanti accordi sulla spartizione di alcuni incarichi ed ora, soddisfatto e tranquillo, stava affrontando i tornanti che lo portavano verso Scandale, per poi proseguire verso San Mauro, dove contava di arrivare a mezzanotte.
Il dottor Ratti, unico veterinario condotto della zona, era un bell’uomo di cinquanta anni, affabile, discreto, dai modi signorili, e in realtà non faceva molta differenza tra gli animali che curava e i contadini che glieli portavano da visitare. Uomini e animali erano soltanto la materia bruta su cui egli agiva, per ricavarne rispetto, soddisfazioni e possibilmente agiatezza.
Inoltre era scapolo impenitente, perché rifuggiva dal complicarsi la vita con le donne e anche perché, egli sosteneva, innamorarsi era un lusso da servetta. Ma c’era anche un altro motivo che lo induceva a tenersene un po’ lontano, un motivo segreto che costituiva per lui un cruccio, ma di cui nei dintorni tutti parlavano come di una cosa notoria. Il dottor Ratti, si diceva, era afflitto da una strana forma di impotenza: la sua libido si esauriva nell’arco di cinque minuti, passati i quali, tutto doveva essere rinviato a data da destinarsi.
Mentre attraversava l’abitato di Scandale, vide una villetta appartata a due piani, che egli conosceva fin troppo bene. In quella villetta abitava una sua ex amante, una delle poche donne della sua vita, con cui aveva interrotto ogni rapporto da almeno cinque anni, riducendosi da allora a vivere senza il rapporto fisso con una donna.
Quella donna era una maestra elementare, stranamente venuta  da un lontano paese della Toscana. Si chiamava Maria Pia Cicala e con quel nome aveva alimentato buffi giochi di parole basati  sull’equivoco di colei che “pia”(“piglia” nel dialetto locale) la cicala.
Il dottore si era trovato bene con lei, perché era una donna passabilmente attraente e raffinata, ma era anche poco esigente e soprattutto era molto comprensiva con lui, con le sue disfunzioni sessuali, per cui, quando arrivavano i famosi cinque minuti, lei era sempre pronta, dal momento che si considerava un’infermiera più che un’ amante.
Il Ratti fu  preso da uno strano desiderio di rivederla, ma era già andato un po’ oltre, non essendosi deciso in tempo. Frenò, innestò la retromarcia, imboccò lentamente un viottolo e dopo un paio di minuti si ritrovò con l’auto davanti alla villetta. Notò che a piano terra la luce era accesa, scese dall’auto, si diresse verso l’uscio e suonò il campanello.
La Cicala non si meravigliò più di tanto nel vederlo e, dopo poche parole di circostanza, lo fece accomodare nell’ampio soggiorno. Il Ratti avvertiva una leggera punta di imbarazzo, cercò di liberarsene rivolgendo qualche complimento alla donna e le disse che, nonostante il passare degli anni, il suo fascino era ancora intatto. Lei gli replicò che doveva trattarsi di un ben povero fascino, dal momento che lui l’aveva disdegnato, e, ad una risposta così pronta e pure così sconsolata, egli non seppe più che dire ed avvertì ancora più forte l’imbarazzo di prima. Incominciò a guardarsi attorno, con curiosità, per vedere se qualcosa era cambiato in quella casa, da quando lui la frequentava, e notò che dovunque c’era come un senso di abbandono, quasi di morte.
Improvvisamente, nel silenzio generale, si sentì il suono di una scampanellata violenta, quasi disperata. Lei gli fece cenno di tacere, gli aprì con cautela una finestra e lo fece saltare. Il Ratti si ritrovò nella campagna circostante, nel silenzio della notte interrotto solo dal canto dei  grilli. Ma non si allontanò, anzi si riaccostò alla finestra e, attraverso una tendina scostata, prese ad osservare, senza essere visto, quel che sarebbe successo.
La Cicala intanto era accorsa ad aprire e si vedeva un omaccione che con fare deciso e quasi da padrone, come di chi era abituato a comandare in quella casa, avanzava nel soggiorno. Ma quell’uomo barcollava in modo evidente, non si sa se per ubriachezza o per qualche malore, e cercava di raggiungere un divano in un angolo, tenendo una mano sotto l’ascella. L’uomo, raggiunto il divano, vi si accasciò, reclinò la testa da un lato e sembrò non dare più segni di vita.
La Cicala ricacciò in gola un grido che stava per lanciare e pensò bene di farsi dare una mano dal Ratti. Riaprì la finestra, con l’intenzione di richiamarlo, lo vide dietro i vetri e lo fece rientrare.
Il dottore pretese subito delle spiegazioni e seppe che quell’uomo, il daziere del paese, l’aveva sostituito da un paio d’anni nella relazione con la donna, poi si accostò a lui, gli tastò il polso e si rese conto che aveva cessato di vivere. Osservò che sulla mano destra aveva una goccia di sangue e che di fianco, all’altezza del cuore, la camicia presentava un sottile foro, uno solo, da cui fuorusciva qualche altra goccia di sangue.
Il dottore si sentì perduto. Chi avrebbe mai potuto credere che, mentre quell’uomo moriva, verosimilmente per un colpo di pistola, in quella stessa dimora egli si trovava per caso, solo per caso? Vedeva già i titoli dei giornali che parlavano di lui come di un omicida per gelosia, processato, condannato, rovinato per sempre.
Avrebbe dovuto ragionare con mente fredda, non farsi prendere dal panico, ma non ne fu capace e prese l’unica decisione che in quelle circostanze non avrebbe dovuto prendere: scappò da quella casa e si infilò in auto per andare via nella speranza di non essere stato notato da nessuno.
Aveva già fatto retromarcia, badando a non urtare un’altra auto che prima non c’era, ed aveva fatto poche decine di metri, quando vide nel buio un‘auto dei carabinieri messa di traverso sul viottolo, fino a sbarrarlo.
Fu costretto a ritornare indietro e all’interno della casa, davanti a quel cadavere, fu perquisito e costretto a fornire delle spiegazioni, ma non fu creduto. Il maresciallo Squillace e l’appuntato Coriale della locale stazione dei carabinieri effettuarono i primi, sommari rilievi del caso in attesa del magistrato, il quale decise la detenzione in carcere per il  Ratti e ordinò alla Cicala di tenersi a disposizione.
Il dottor Luciano Ratti, veterinario condotto, persona riverita e stimata da tutti, ebbe un’intera notte a disposizione per riflettere sulla sua nuova condizione di detenuto in attesa di giudizio e sulla possibilità di approntare una linea difensiva. Egli aveva qualche nozione di diritto e pensò che non avrebbero potuto condannarlo, perché non c’erano prove inconfutabili contro di lui, a parte le circostanze occasionali che potevano far nascere soltanto dei sospetti. Pensò all’Habeas corpus, pensò che fino a prova contraria egli era da considerarsi innocente, pensò alla Costituzione che considera l'imputato non colpevole sino a condanna definitiva. Pensò a tante cose e ad un certo punto si ritrovò pure a dire una preghiera, cosa che non faceva da parecchio tempo.
Infine  si convinse che ce l’avrebbe fatta a dimostrare la sua innocenza, si sentì tranquillo e si assopì su una branda che gli avevano messo a disposizione in un angolo della cella.
Al mattino fu convocato dal giudice, il quale gli annunziò che era libero e che poteva ritornarsene a casa. Ma la libertà non gli proveniva dall’Habeas corpus o dalla Costituzione, gli proveniva solo da una decisione di Marietta. Il giudice istruttore gli spiegò bene come erano andate le cose.
Il daziere, Nicola Cersosimo, aveva due amanti, la Maria Pia Cicala e tale Marietta Vaccaro. Le due Marie erano però molto diverse tra di loro:remissiva la prima, gelosissima la seconda, per nulla disposta a tollerare il triangolo amoroso. La sera precedente, dopo l’ennesima, violenta lite, Marietta aveva estratto una pistola Beretta 6,35 ed esploso contro di lui un unico colpo, forse solo con l’intenzione di impaurirlo. Il Cersosimo non si era nemmeno accorto di essere stato colpito e, alla vista di quella pistola che sembrava un giocattolo, si era allontanato in auto con l’intenzione di rifugiarsi dalla sua seconda amante. Giunto alle prime case del paese, non aveva visto un posto di blocco dei carabinieri, in normale servizio di sorveglianza. O forse l’aveva visto, ma con i riflessi ormai appannati a causa dell’emorragia interna, non riuscì a frenare, travolse un segnale di stop posto per terra e proseguì la sua corsa in direzione della villetta di Maria Pia.
Dove, superata la sorpresa iniziale, giunsero anche i carabinieri, a distanza di circa dieci minuti e dopo qualche ricerca infruttuosa in varie direzioni. Il resto era noto. Bisognava solo aggiungere che alle prime luci dell’alba Marietta Vaccaro, venuta a sapere della morte del Cersosimo, probabilmente pentita del suo gesto, si era presentata spontaneamente in caserma, aveva confessato il suo omicidio, consegnando anche la pistola, ed era stata arrestata e rinchiusa in una cella accanto alla sua.
Il Ratti, dopo la restituzione degli oggetti personali, fu riaccompagnato alla sua Alfa Romeo Giulietta. Si rimise al volante e, mentre guidava verso San Mauro, calcolò che sarebbe arrivato con circa dieci ore di ritardo. Non molte in fondo, tenuto conto di quanto gli era capitato in quella notte. Rifletté anche sulle vicende della sua vita e concluse decisamente che dalle donne doveva tenersi lontano, come in fondo aveva sempre fatto, perché a lui le donne avevano portato sempre male.
Ezio Scaramuzzino

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