martedì 29 gennaio 2013

Voglia di mamma(Racconto) di Ezio scaramuzzino




I
A Scandale solo pochi  anziani ricordano ancora il caso, lo scandalo del 1950, perché pochi allora riuscirono a saperne qualcosa di concreto e quei pochi ne parlarono pure a bassa voce. Mai in precedenza si era verificato il caso di una ragazza madre e, quel che è peggio, mai ci si sarebbe aspettati che una cosa del genere avvenisse in una delle migliori famiglie. E invece avvenne, proprio in una famiglia timorata di Dio e nella quale il rispetto del decoro era considerato un principio sacro ed inviolabile.
         Era successo che nella famiglia Bontempo la seconda figlia, Ermelinda, destava qualche preoccupazione nei genitori per la sua estrema vivacità. Il ragioniere Bontempo, segretario capo nel locale Ufficio Comunale, non poteva sopportare ad esempio che la figlia ritornasse da scuola ogni giorno da Crotone, avendo tra i piedi Pinuccio, figlio di contadini. Era pur vero che Pinuccio era molto bravo a scuola, mentre Ermelinda  con il suo carattere da svampita non riusciva altrettanto bene, ricorrendo quindi spesso all’aiuto del suo amichetto, senza del quale si sentiva perduta: ma a tutto c’era un limite. I coniugi Bontempo inoltre non sopportavano che, con la scusa dei compiti, i due ragazzi si chiudessero qualche volta a chiave nello studio di casa: anche a questo bisognava porre  un rimedio. 
E siccome quel rimedio non si  riusciva a trovarlo ed ogni loro ammonimento sembrava inutile, i due presero una decisione drastica: Ermelinda avrebbe sì frequentato il Liceo a Crotone, ma avrebbe abitato dalle suore, con espresso divieto di incontrare il suo amico. Ma essi non avevano fatto i conti con la forza degli ormoni, che possono talvolta essere deviati o frastornati, ma che, prima o poi, inevitabilmente, ritornano quasi sempre a centrare il loro obiettivo.
I due amici, ormai cresciutelli, avevano diradato i loro incontri, ma non avevano alcuna intenzione di rinunziarvi. Certo non potevano più stare assieme nel pomeriggio a fare i compiti, certo le suore non consentivano che Ermelinda uscisse da sola, ma le suore non potevano avere cento occhi e soprattutto non potevano coprire con la loro vigilanza tutte le ventiquattro ore della giornata. Quando per un motivo o per l’altro non si faceva scuola, e la cosa non era infrequente, i due si incontravano e  trascorrevano insieme ore meravigliose. Gli esami di maturità, ormai prossimi, non li distoglievano dai loro incontri e qualcuno ebbe la felice idea di  avvisare il ragioniere Bontempo. Ma  ormai era  troppo tardi.
Ermelinda era incinta. All’inizio ebbe solo qualche sospetto, ma quando si convinse  che il ritardo  era ormai da considerarsi eccessivo e che non era paragonabile a quanto già altre volte le era successo, si risolse a confidarsi con la madre. La quale ebbe il terrore di rivelare la cosa al marito, sperando fino all’ultimo che si trattasse di un falso allarme. Ma, quando le analisi spazzarono via ogni illusione, con la morte nel cuore, gli spiattellò tutto.
Il ragioniere non gridò, non sbraitò e si prese solo qualche giorno di tempo per riflettere sulla cosa e decidere il da farsi. Ogni decisione toccava a lui, soltanto a lui che era il capofamiglia: gli altri avrebbero obbedito come sempre e nessuno nel paese avrebbe capito che qualcosa di terribile era avvenuto in quella famiglia. Anche Ermelinda, che pure in altre circostanze si era permessa di muovere obiezioni o di tenere testa al padre, questa volta non ebbe il coraggio di fiatare: in un pomeriggio di aprile, mentre tutt’intorno la natura sembrava svegliarsi ai primi tepori della primavera, lei, rassegnata e impotente, ascoltò la decisione del padre.
Di aborto clandestino non era proprio il caso di parlare, dal momento che esso era considerato peccato mortale dalla Santa Madre Chiesa. Ermelinda con una scusa qualsiasi si sarebbe trasferita a Catanzaro, dove il Bontempo godeva di qualche protezione e di qualche amicizia importante. Lì avrebbe  frequentato il Liceo, avrebbe sostenuto gli esami e avrebbe portato a termine la gravidanza, non riconoscendo però il figlio dopo il parto e consentendo che l’assistenza pubblica si facesse carico del mantenimento in vita di quello che, a tutti gli effetti, era da considerarsi solo “il frutto del peccato”. Quanto ad un eventuale matrimonio riparatore, l’ipotesi non fu  nemmeno presa in considerazione, dal momento che  la persona in questione, pur intelligente, era notoriamente un morto di fame, figlio di morti di fame e certamente destinato a restare un morto di fame.
II
La sveglia segnava le quattro  ed il suono insistente strappò Paolino violentemente dal sonno. La bocca impastata, la testa ancora occupata dai brandelli dell’ultimo sogno, un brivido di freddo  che gli correva lungo la schiena: tutto questo gli suggeriva di rimanere ancora al calduccio del letto. Difficile a soli dodici anni comandare alle gambe esili di scendere dal letto a quell’ora del mattino, quando ancora tutto era avvolto dalle ombre della notte, ma il richiamo del padre lo convinse che non era proprio il caso di indugiare.
La camera, dove dormiva insieme con tanti fratelli, odorava leggermente di stalla: ogni letto ne ospitava un paio.  A tentoni, inciampando nelle scarpe abbandonate a terra in modo disordinato, Paolino raggiunse la cucina, dove sperò di risvegliarsi  con un po’ di acqua gelida sul viso. Il frammento di specchio, appeso alla parete, gli rimandò l’immagine di un animaletto arruffato, dallo sguardo acquoso, dal ciuffo ribelle che non voleva  proprio saperne di rimanere abbassato e dalla strana voglia scura, dalla particolare forma a virgola, stampata proprio sulla guancia destra. Pur non avendo consapevolezza piena della sua condizione, egli avvertiva intimamente un senso di ingiustizia. Perché a lui erano negati  i giochi, la scuola, la compagnia dei ragazzini della sua età? Era giusto che la vita gli portasse via gli anni  spensierati, le energie che avrebbe al massimo dovuto  sprecare in una inutile corsa a perdifiato?
Il padre  lo sollecitò ancora  a sbrigarsi. Il ragazzo indossò velocemente i panni del giorno prima, infilò il berretto calcandolo per bene fino agli occhi, agguantò al volo una mela e si chiuse dietro l’uscio. Ogni giorno la stessa storia, ogni giorno la stessa vita, da un tempo che gli sembrava simile all’eternità. Suo padre aveva un banco da ambulante di frittelle che spostava di mercato in mercato, di fiera in fiera ed egli  lo seguiva per aiutarlo. Il furgone traballante lo cullava e spesso gli consentiva di addormentarsi di nuovo e di recuperare un po’ del sonno perduto. Quel giorno, giunti a destinazione, montarono velocemente l’attrezzatura, come sempre, in un rituale che non conosceva novità.
In breve tempo l’odore acre delle frittelle, che sfrigolavano nell’olio bollente, invase l’aria e si confuse con un odore dolciastro che proveniva  dal banco vicino. La pila dei foglietti di cartapaglia che servivano per incartare le frittelle, il secchio di zinco che lo conteneva: tutto era al proprio posto e, dato che ancora non era cominciato il giro dei clienti, Paolino chiese a suo padre il permesso di allontanarsi a fare un giro. La fiera di Mulerà, quella in cui si trovava, era grande e importante e la cadenza annuale, ogni primo di Settembre a Roccabernarda, la faceva diventare un vero e proprio evento di richiamo per gli abitanti di tutti i paesi vicini.
I banchi esponevano merce di vario tipo ma  erano quelli dei giochi ad attirare di più la sua attenzione. Trenini di legno che trasportavano la sua  fantasia in viaggi avventurosi per terre sconosciute, macchinine di latta di vari colori delle quali si poteva immaginare il rombo assordante nell’impazienza di partire per una gara fantastica, intere guarnigioni di soldatini di piombo a difesa di castelli incantati. Dato che non poteva permettersi di comprarli, riusciva a farli suoi e a giocarci con la sua fantasia.
Preso com’era da tali e tante fantasticherie,  Paolino non si accorse che il tempo era trascorso. Lo avvertì dal movimento di persone   nel frattempo  aumentato, dalle gomitate di chi, ingombro di pacchi e mercanzie varie, cercava di farsi largo per trovare spazio nella calca. Allora, temendo i rimproveri del padre, cercò di affrettarsi sgusciando fra le persone, facendosi spazio con le braccia magre nella folla, come nuotando in un mare in tempesta. Le scarpe, troppo grandi per i piccoli piedi che dovevano contenere, gli fecero il brutto scherzo di farlo cadere, così che si trovò a terra, con un ginocchio sbucciato che sanguinava. La ferita quasi non si vedeva, tanto era ricoperta di terra. Ma  un rigagnolo di sangue cominciò a scendere lungo la gamba e  lui rimase lì per terra, quasi inebetito e disorientato, non trovando lo spazio e la forza per rialzarsi.
III
Nel giro di pochi istanti una giovane signora ben vestita si accovacciò per aiutarlo a rialzarsi e, con quel gesto spontaneo che accomuna tutte le mamme del mondo, prese un fazzolettino dalla borsetta, lo bagnò di saliva e lo appoggiò sulla ferita, cercando di ripulirla. Un gesto da nulla, ma di un’intimità e di un affetto che lo lasciarono senza fiato. La dolce signora lo strinse per un attimo fra le braccia quasi a volerlo consolare e rassicurare ed egli respirò intensamente l’odore che ella emanava: un odore di pane e di latte, di lisciva e di salvia, di biscotti appena sfornati e di caffè, di violetta, di talco, di casa…! Poi, con lo stesso fazzoletto usato per ripulire la ferita, la signora gli asciugò la faccia dai lacrimoni che  si ostinavano a scendere lungo le guance. Solo allora ella vide la voglia dalla particolare forma a virgola sulla guancia del bimbo e  impallidì.
Pensieri e ricordi assalirono la sua mente e la fecero tornare indietro, a  dodici anni prima, quando quel bambino le era stato strappato, perché  considerato dalla sua famiglia una vergogna da nascondere. Lei aveva  potuto stringere quel bimbo per un solo attimo fra le braccia, prima che fosse  affidato alla pubblica assistenza. Lei avrebbe dovuto solo dimenticare quello che suo padre definiva “un piccolo incidente”, capace di macchiare il buon nome e l’onore della famiglia.
Ma ora, a distanza di dodici anni, quel “piccolo incidente” l’aveva guardata  e lei aveva guardato lui, cercando di imprimere nella mente i più piccoli dettagli della sua fisionomia.  E fra questi dettagli  spiccava quella particolarissima voglia scura a forma di virgola sulla guancia destra.  Lei avvertiva confusamente dentro  di sé che quello sguardo li avrebbe  legati per il resto della vita , qualunque fosse stato il loro destino, lo stesso destino che quel giorno li aveva   fatti incontrare di nuovo.
La signora si curvò ancora di più sul bambino, quasi a volerlo proteggere dall’irruenza della folla, poi si alzò lentamente, sorreggendolo tra le sue braccia. Una lacrima calda e liberatoria, una sola, prese a scorrerle lungo la guancia ed andò a mescolarsi a quelle, in parte asciugate e rapprese, del figlio.
Qualcuno si accorse di quello strano gruppo, che cercava di avanzare e istintivamente si scostò per fare largo. Altri, cercando di capire che cosa fosse successo, si unirono a quel gesto gentile. Si poté vedere un piccolo corridoio che si formava davanti alla signora che procedeva con il bambino in braccio e si richiudeva subito dopo alle sue spalle. Lei continuava ad avanzare, pur senza una direzione precisa: sapeva solo che da quel giorno la sua vita non sarebbe stata più la stessa di prima.
Ezio Scaramuzzino

mercoledì 16 gennaio 2013

Una storia americana di Edgar Lee Masters


MastersEdgar Lee. - Avvocato e poeta statunitense (Garnett, Kansas,1869 - Melrose Park, Pennsylvania1950). Salì improvvisamente alla fama quando, ispirandosi ai tipi umani osservati nei tribunali e sull'esempio dell'Antologia greca, pubblicò, prima sul Mirror, poi in volume (The Spoon River anthology1915), una serie di epitaffî composti in uno stile lirico-satirico assai originale, in cui si confessano i defunti sepolti nel cimitero d'un piccolo paese nel centro degli Stati Uniti. Il successo del volume fu straordinario; con esso Masters metteva a nudo l'ipocrisia puritana del mondo provinciale americano. (da Enciclopedia Treccani)
Le tre brevi poesie costituiscono la storia di un triangolo amoroso, lui(Tom Merritt), lei(Mrs Merritt), l’altro(Elmer Karr). I tre sono protagonisti di una storia tipicamente americana, che E.L.Masters racconta nella sua Antologia di Spoon River. Ne propongo una mia versione.

Tom Merritt
Sospettavo qualcosa:
lei era così calma e distratta.
Un giorno sentii sbattere la porta sul retro,
mentre io entravo sul davanti, e lo vidi sgusciare
dietro l’affumicatoio verso il podere
e correre   lungo i campi assolati.
L’avrei ucciso quel giorno.
Ma un altro giorno, camminando vicino a Fourth Bridge,
senza un bastone o una pietra nelle mani,
ad un tratto me lo trovai davanti.
Era impaurito a morte, mentre stringeva in pugno i suoi conigli,
e io non seppi dire altro che “No,no,no!!!!”,
mentre egli prendeva la mira e mi sparava al cuore.
Mrs.  Merrit
Silenziosa davanti ai giurati,
non risposi niente al giudice, quando mi chiese
se avessi da dire qualcosa contro la sentenza. Scrollai solo la testa.
Cosa potevo dire a chi credeva
che una donna di trentacinque  anni è in colpa,
se il suo amante di diciannove le uccide il marito?
Gli avevo detto tante volte
“Vai via, Elmer, vai lontano.
Ti ho donato il mio corpo e ti ho fatto impazzire:
tu farai qualcosa di orrendo”.
E, proprio come temevo, egli uccise mio marito.
Io non c’entravo nulla, lo giuro davanti a Dio.
Rimasi per trenta anni in silenzio nella prigione.
E i cancelli di ferro di Joliet si aprirono, quando le guardie grigie e silenziose mi portarono fuori in una bara.
Elmer Karr
Che cosa, se non l’amore di Dio, ha intenerito
e indotto al perdono la gente di Spoon River
verso di me, che avevo violato il letto di Tom Merritt
e poi l’avevo ucciso?
Oh, cuori generosi che mi accoglieste di nuovo,
quando, dopo quattordici anni, tornai dalla prigione!
Oh, mani sollecite, che mi accoglieste nella chiesa,
e udiste tra le lacrime la mia confessione di pentimento,
quando presi il Sacramento del pane e del vino!
Pentitevi, voi che siete in vita, e riposate con Cristo!

(traduzione di Ezio Scaramuzzino)



martedì 15 gennaio 2013

Scandale...come eravamo...

Un raro video di circa cinquant' anni fa. Girato con i poveri mezzi tecnici di allora, ritrovato per caso in una vecchia valigia e pubblicato così com'era. Per ricordare come eravamo, per riassaporare il gusto delle cose perdute...






domenica 13 gennaio 2013

La morta(Racconto) di Guy de Maupassant


Un racconto "noir" di Maupassant, breve e intenso. Eccezionale.*****







Henri-René-Albert-Guy de Maupassant (Tourville-sur-Arques, 5 agosto 1850 – Parigi, 6 luglio 1893) è stato uno scrittore, drammaturgo, reporter di viaggio, saggista e poeta francese, nonché uno dei padri del racconto moderno.*****


L'avevo amata alla follia. Perché amiamo? Non è una stranezza vedere ormai al mondo un solo essere, avere in mente un solo pensiero, in cuore un solo desiderio e sulla bocca un nome solo: un nome che sale incessantemente, sale come l'acqua di una sorgente, sale dalle profondità dell'anima, sale alle labbra e vien detto, ripetuto, mormorato senza posa, dovunque, come una preghiera?
Non dirò qui la nostra storia. L'amore ne ha soltanto una, sempre la stessa. Io l'avevo conosciuta e amata: ecco tutto. E nelle sue carezze, nel suo sguardo, nelle sue vesti, nella sua parola, in tutto quanto veniva da lei ero stato avviluppato, legato, imprigionato così completamente che non sapevo più se era giorno o notte, se ero vivo o morto, se mi trovavo sulla terra o altrove.
E un giorno ella morì. Come? Non lo so. Rincasò bagnata, in una sera piovosa, e l'indomani tossiva. Tossì un'intera settimana, poi si mise a letto. Che cosa accadde? Non lo so più. I medici venivano, scrivevano, se ne andavano. Qualcuno portava dei farmaci. Una donna glieli faceva ingerire. Le sue mani scottavano, la fronte era umida e ardente, lo sguardo lucido e triste. Le parlavo, mi rispondeva. Che cosa ci dicevamo? Non lo so più. Ho dimenticato tutto, tutto! Morì: e ricordo benissimo il suo lieve sospiro, quel suo lieve sospiro così debole: l'ultimo.
Non seppi più nulla. Nulla. Vidi un prete che pronunciò alcune parole:"La vostra amante". Mi sembrò che la insultasse. Dal momento che era morta, non avevano più diritto di ricordare quella cosa. Lo scacciai. Ne venne un altro che fu assai buono, assai gentile. Piansi quando mi parlò di lei. Mi domandarono mille cose del funerale. Non ricordo più. Però ricordo la bara, il rumore del martellare quando inchiodarono il coperchio. 
Fu sotterrata. Sotterrata, lei, in quella fossa!. Fuggii, correvo. Camminai a lungo, poi rincasai. Il giorno dopo mi misi in viaggio. Ieri sono tornato a Parigi. 
Quando rividi la mia camera, la nostra camera, il nostro letto, i nostri mobili, quella casa dove era rimasto tutto quanto rimane della vita di un essere dopo la sua morte, fui colto da una ripresa di dolore così violento che poco mancò aprissi la finestra e mi buttassi in strada. Non potendo più rimanere in mezzo a quelle cose, tra quelle pareti che l'avevano riscaldata, protetta e che nelle invisibili loro fessure dovevano conservare mille atomi di lei, della sua carne e del suo respiro, presi il cappello per fuggirmene via. D'improvviso, mentre mi avviavo alla porta, passai davanti al grande specchio che ella aveva fatto collocare nell'ingresso per vedersi dalla testa ai piedi, ogni giorno, quando usciva, per vedere se tutto nel suo abbigliamento era in ordine, era giusto e bello, dagli stivaletti alla pettinatura. 
         Felici gli uomini il cuore dei quali, simile a uno specchio dove i riflessi scivolano e si cancellano, dimentica tutto ciò che esso ha contenuto, tutto ciò che gli è passato davanti, tutto ciò che s'è guardato, contemplato nel suo affetto, nel suo amore! Come soffro!. Uscii mio malgrado, senza saperlo, e senza volerlo andai verso il cimitero. Trovai la sua tomba, così' semplice, una croce di marmo con queste poche parole: "Amò, fu amata, morì". Ella era lì, lì sotto.
Singhiozzavo, la fronte sulla lapide. Mi trattenni a lungo, a lungo. Poi mi accorsi che imbruniva. Allora un desiderio strano, pazzesco, un desiderio di amante disperato si impadronì di me. Volli passare la notte accanto a lei, l'ultima notte, piangendo sulla sua tomba. Ma  mi avrebbero visto, mi avrebbero scacciato. Come Fare?
       Fui scaltro, mi alzai e cominciai a errare in quella città degli scomparsi. Andavo, andavo. Com'è piccola questa città in confronto all'altra, quella dove si vive!. Eppure, come sono più numerosi dei vivi, questi morti!. Ci occorrono grandi case, strade, tante piazze, per le quattro generazioni che guardano il sole contemporaneamente, bevono l'acqua dalle sorgenti, il vino dei vigneti e mangiano il pane dei campi. E per tutte le generazioni dei morti, quasi nulla... un campo... quasi nulla! La terra li riprende, l'oblio li cancella. Addio!. 
All'estremità del cimitero abitato scorsi improvvisamente il cimitero abbandonato, quello dove i vecchi defunti terminano di mescolarsi alla polvere, dove persino le croci marciscono, quello dove domani metteranno gli ultimi arrivati. E' pieno di rose selvagge, di cipressi scuri e robusti, un giardino triste e magnifico, nutrito di carne umana. Ero solo, affatto solo. Mi appiattii dietro un albero. Mi nascosi completamente tra i rami grassi e foschi. E attesi. 
Quando fu notte buia, notte fonda, lasciai il mio rifugio e mi misi a camminare pianamente, con passi felpati sul quel suolo pieno di morti. Errai a lungo, a lungo. Non la rintracciavo. Le braccia tese, gli occhi sbarrati, urtando nelle tombe con le mani, coi piedi, con le ginocchia, col petto, procedevo senza trovarla. Toccavo, brancicavo come un cieco che cerchi la sua strada. Niente luna. Che notte!. Avevo paura, una paura atroce, in quei sentieri stretti, tra due file di tombe! Tombe! tombe! sempre tombe!. Sedetti su una di esse, poichè non potevo più camminare. Udivo battere il mio cuore. E udivo anche altre cose. Un rumore confuso, innominabile! Era nel mio cervello sconvolto, nella notte impenetrabile, o sotto la terra misteriosa, sotto la terra seminata di cadaveri umani, quel rumore? Mi guardavo intorno. Quanto tempo rimasi là? Non so. Ero paralizzato dal terrore, ero ubriaco di spavento, pronto a urlare, pronto a morire. 
E d'improvviso mi sembrò che la lastra di marmo sulla quale sedevo si movesse. Già si moveva, come se qualcuno l'avesse sollevata. D'un balzo mi gettai sulla tomba vicina e vidi, sì vidi, vidi alzarsi verticalmente la pietra che avevo appena lasciato e il morto apparire, uno scheletro nudo che la sollevava con le spalle curve. Vedevo, vedevo benissimo, benchè la notte fosse tenebrosa. Potei leggere sulla croce: "Qui riposa Jacque Olivant, deceduto in età di anni 51. Amava la famiglia, fu onesto e buono e morì nella pace del Signore".
Orbene, anche il morto leggeva le cose scritte sulla sua tomba. Poi raccolse un sasso sul sentiero, un sasso aguzzo e cominciò a grattare accuratamente quelle cose. Le cancellò, completamente, lentamente, guardando con le occhiaie vuote il punto dove poc'anzi erano incise e con la punta dell'osso che era stato il suo indice scrisse:"Qui riposa Jacques Olivant, deceduto all'età di anni 51. Con la sua durezza affrettò la morte del padre dal quale desiderava ereditare, tormentò sua moglie, tormentò i suoi figli, imbrogliò i vicini, rubò quando gli fu possibile e morì miserabile". Finito che ebbe di scrivere, il morto, immobile, contemplò l'opera sua. E voltandomi, io mi accorsi che tutte le tombe erano scoperchiate, che tutti i cadaveri erano usciti, che tutti avevano cancellato le menzogne scritte dai parenti sulla pietra e ristabilita la verità. 
        Così', vedevo che tutti erano stati i carnefici del loro prossimo, astiosi, disonesti, ipocriti, bugiardi, canaglie, calunniatori, invidiosi: che avevano rubato, compiuto tutti gli atti più vergognosi. Sulla soglia della loro eterna dimora, scrivevano tutti la crudele, terribile e santa verità che tutti ignorano o fingono di ignorare su questa terra. 
Pensavo che anche la mia donna aveva dovuta tracciarla sulla sua tomba. Senza più paura, correndo in mezzo alle tombe semiaperte, la riconobbi da lontano, senza vederne il viso avvolto nel sudario. E sulla croce di marmo dove poc'anzi avevo letto "Amò, fu amata, morì", scorsi: "Uscita un giorno per tradire il suo amante, prese freddo sotto la pioggia e morì". 
A quanto pare fui raccolto all'alba, inanimato e accanto a una tomba.


venerdì 11 gennaio 2013

Lo strano mondo della grammatica di Achille Campanile


Achille Campanile (Roma28 settembre 1899 – Lariano4 gennaio 1977) è stato uno scrittoredrammaturgosceneggiatore e giornalista italiano, celebre per il suo umorismo surreale e i giochi di parole.***********


Le grammatiche su cui si studiano le lingue saranno utilissime per impararle, ma non altrettanto per la logica e il buon senso. Il che, tuttavia, non rappresenta un danno in ogni senso. Anzi potrebbe contribuire a dare ai rapporti fra le persone un carattere quanto mai spensierato e fantasioso che conferirebbe alla vita un aspetto dei più piacevoli.
Dalla grammatica inglese:
"Portaste il binocolo?"
"No, ma portai il vostro ventaglio."
Col che si imparano parecchi vocaboli, non c'è dubbio. Ma non è chi non veda un ventaglio esser tutt'altra cosa che un binocolo. Non c'è niente in comune fra i due oggetti. Come è possibile parlare di ventaglio a chi vi chiede notizie del binocolo?
Vediamo: dove e quando e perché si può domandare a qualcuno se ha portato il binocolo? In teatro, o in occasione di una gita in luoghi panoramici, o per esigenze belliche. 
Ora, ammetto che in un teatro possa essere utile anche un ventaglio, benché abbia tutt'altra funzione e non sarà certo esso che mi permetterà di apprezzare le bellezze d'un corpo da ballo. Ma su una montagna! Che me ne faccio d'un ventaglio se ho bisogno d'un binocolo?
Non parliamo poi d'una casamatta o della tolda d'una nave da guerra. Immaginate un generale nel suo osservatorio o un ammiraglio sul ponte di comando, che durante l'infuriare della battaglia, dovendo seguire le mosse del nemico, domandi all'aiutante di campo "Portaste il binocolo?" e si senta rispondere "No, ma portai il ventaglio". Anche ammesso che faccia molto caldo, in quel momento il comandante ha bisogno di guardare.
Forse gli autori degli esercizi di traduzione immaginano un mondo di stolidi. Ecco un altro dialogo della grammatica inglese.
"Mamma, comperasti la tovaglia?"
"No, ma comperai il rasoio per tuo fratello".
Una famiglia di pazzi, evidentemente. Pazza la madre, che forse immagina si possa apparecchiare la tavola col rasoio; e pazza la figlia, che dal manuale non risulta essersi minimamente turbata alle parole inconsulte della vecchia insensata.
"Vedeste il mio allacciabottoni?"
"No, ma vidi il vostro colletto e polsini".
Magari qui si può ravvisare un barlume di coerenza, in quanto siamo sempre in materia inerente al vestirsi. Ma c'è un abisso tra la domanda e la risposta.
Uno dei torti degli esercizi di conversazione è per l'appunto di non dare quasi mai la terza battuta. S'imparerebbero molte altre parole, magari non delle più ortodosse. Come rispondereste a uno che vi parla di colletto e polsini, quando voi gli domandate notizie dell'allacciabottoni?
È evidente:"O sei un imbecille, o vuoi prendermi in giro. Come ti viene in mente di rispondermi così?"
E giù una sequela di parolacce, che pure hanno la loro utilità nello studio di una lingua. 
In conclusione m'è più volte capitato, nell'esprimermi in una lingua straniera imparata di fresco su una grammatica, di essere quanto mai incoerente. Una volta, a un passante che mi domandava: "Sapreste dirmi dov'è la tale strada?" Mi avvenne di rispondere sulla base di un dialoghetto studiato nella grammatica.
"No, ma so dirvi l'età del cugino di vostro padre."
Il passante rispose con una frase che non capii, perché purtroppo, come dicevo, negli esercizi di conversazione manca sempre la terza replica. 
Per tacere degli scorci di vita che si possono cogliere, attraverso quegli esercizi, specie se si diffondono in particolari.
"Eravate con vostro padre?"
"No, ero con l'amico di mio padre, ma le mie sorelle erano con vostra madre; siamo stati a vedere la cattedrale."
Bella brigata di cretini, davvero. Tra l'altro c'è da scommettere che ognuno non capiva chi fossero gli altri, quanto a grado di parentela reciproca, durante questa famosa visita alla cattedrale. Perché è soprattutto sull'indicazione delle parentele che queste frasi risultano sibilline. 
Doveva essere una mattina grigia in una città gotica del Nord Europa, una pioggerella leggerissima punzecchiava appena i volti dei passanti. I nostri amici, usciti dall'albergo e avendo lasciato qua e là un certo numero d'imprecisati parenti, andavano in fretta verso la cattedrale con le guide in mano. Nella chiesa semibuia tra le navate, si sbirciavano sospettosi:
"Chi è quello?"
"È l'amico di vostro padre, e io sono la madre di un tale che non c'è, perché io sto con le vostre sorelle." 
"E che rapporto di parentela c'è fra voi e l'amico di mio padre?"
"Egli è l'amico del padre delle ragazze che stanno con me e che sono vostre sorelle, mentre voi siete l'amico di mio figlio".
È un groviglio.
"Ed io chi sono?"
"Voi siete il figlio dell'amico di quel signore e il fratello delle signorine che stanno con la madre di un altro vostro amico, che non è qui, e questa sarei io."
Basta, basta, c'è da diventare pazzi.
E notate che queste frasi sono tutte rigorosamente dedotte da quella dell'esercizio, quanto a rapporti di parentela, amicizia e semplice compagnia, tra i partecipanti alla visita della cattedrale. 
Durante la quale - è ovvio aggiungerlo - il cicerone avrà zittito:
"Signori, occupatevi della cattedrale, invece che di questi pasticci di famiglia; guardate i vetri istoriati."
Dopo la visita, tornati all'aperto:
"Ed ora andiamo a far colazione?"
"No, ma posdomani arriva il cognato di vostro figlio. 
"E via in fretta, senza volti, senza cervello, mentre una pioggerella leggerissima fa viscido il selciato fra le basse arcate e i negozi di frutta della grigia città gotica. E si sente nell'aria un odorino di cavoli cotti e di birra, mentre il carillon dei pupazzi metallici suona mezzogiorno nella torre del palazzo di città. 
Europa, Europa mia! Quando verremo a liberarti?
(da Manuale di conversazione)


venerdì 4 gennaio 2013

Fino a prova contraria(Racconto) di Ezio Scaramuzzino


Un veterinario con qualche problema sessuale. Uno strano omicidio nella notte. Tutti gli ingredienti del giallo.*****



Il dottor Luciano Ratti stava ritornando a casa, con la sua Alfa Romeo Giulietta, dopo una giornata di intenso lavoro. A Crotone aveva partecipato ad una riunione con dei colleghi  veterinari, aveva concluso  importanti accordi sulla spartizione di alcuni incarichi ed ora, soddisfatto e tranquillo, stava affrontando i tornanti che lo portavano verso Scandale, per poi proseguire verso San Mauro, dove contava di arrivare a mezzanotte.
Il dottor Ratti, unico veterinario condotto della zona, era un bell’uomo di cinquanta anni, affabile, discreto, dai modi signorili, e in realtà non faceva molta differenza tra gli animali che curava e i contadini che glieli portavano da visitare. Uomini e animali erano soltanto la materia bruta su cui egli agiva, per ricavarne rispetto, soddisfazioni e possibilmente agiatezza.
Inoltre era scapolo impenitente, perché rifuggiva dal complicarsi la vita con le donne e anche perché, egli sosteneva, innamorarsi era un lusso da servetta. Ma c’era anche un altro motivo che lo induceva a tenersene un po’ lontano, un motivo segreto che costituiva per lui un cruccio, ma di cui nei dintorni tutti parlavano come di una cosa notoria. Il dottor Ratti, si diceva, era afflitto da una strana forma di impotenza: la sua libido si esauriva nell’arco di cinque minuti, passati i quali, tutto doveva essere rinviato a data da destinarsi.
Mentre attraversava l’abitato di Scandale, vide una villetta appartata a due piani, che egli conosceva fin troppo bene. In quella villetta abitava una sua ex amante, una delle poche donne della sua vita, con cui aveva interrotto ogni rapporto da almeno cinque anni, riducendosi da allora a vivere senza il rapporto fisso con una donna.
Quella donna era una maestra elementare, stranamente venuta  da un lontano paese della Toscana. Si chiamava Maria Pia Cicala e con quel nome aveva alimentato buffi giochi di parole basati  sull’equivoco di colei che “pia”(“piglia” nel dialetto locale) la cicala.
Il dottore si era trovato bene con lei, perché era una donna passabilmente attraente e raffinata, ma era anche poco esigente e soprattutto era molto comprensiva con lui, con le sue disfunzioni sessuali, per cui, quando arrivavano i famosi cinque minuti, lei era sempre pronta, dal momento che si considerava un’infermiera più che un’ amante.
Il Ratti fu  preso da uno strano desiderio di rivederla, ma era già andato un po’ oltre, non essendosi deciso in tempo. Frenò, innestò la retromarcia, imboccò lentamente un viottolo e dopo un paio di minuti si ritrovò con l’auto davanti alla villetta. Notò che a piano terra la luce era accesa, scese dall’auto, si diresse verso l’uscio e suonò il campanello.
La Cicala non si meravigliò più di tanto nel vederlo e, dopo poche parole di circostanza, lo fece accomodare nell’ampio soggiorno. Il Ratti avvertiva una leggera punta di imbarazzo, cercò di liberarsene rivolgendo qualche complimento alla donna e le disse che, nonostante il passare degli anni, il suo fascino era ancora intatto. Lei gli replicò che doveva trattarsi di un ben povero fascino, dal momento che lui l’aveva disdegnato, e, ad una risposta così pronta e pure così sconsolata, egli non seppe più che dire ed avvertì ancora più forte l’imbarazzo di prima. Incominciò a guardarsi attorno, con curiosità, per vedere se qualcosa era cambiato in quella casa, da quando lui la frequentava, e notò che dovunque c’era come un senso di abbandono, quasi di morte.
Improvvisamente, nel silenzio generale, si sentì il suono di una scampanellata violenta, quasi disperata. Lei gli fece cenno di tacere, gli aprì con cautela una finestra e lo fece saltare. Il Ratti si ritrovò nella campagna circostante, nel silenzio della notte interrotto solo dal canto dei  grilli. Ma non si allontanò, anzi si riaccostò alla finestra e, attraverso una tendina scostata, prese ad osservare, senza essere visto, quel che sarebbe successo.
La Cicala intanto era accorsa ad aprire e si vedeva un omaccione che con fare deciso e quasi da padrone, come di chi era abituato a comandare in quella casa, avanzava nel soggiorno. Ma quell’uomo barcollava in modo evidente, non si sa se per ubriachezza o per qualche malore, e cercava di raggiungere un divano in un angolo, tenendo una mano sotto l’ascella. L’uomo, raggiunto il divano, vi si accasciò, reclinò la testa da un lato e sembrò non dare più segni di vita.
La Cicala ricacciò in gola un grido che stava per lanciare e pensò bene di farsi dare una mano dal Ratti. Riaprì la finestra, con l’intenzione di richiamarlo, lo vide dietro i vetri e lo fece rientrare.
Il dottore pretese subito delle spiegazioni e seppe che quell’uomo, il daziere del paese, l’aveva sostituito da un paio d’anni nella relazione con la donna, poi si accostò a lui, gli tastò il polso e si rese conto che aveva cessato di vivere. Osservò che sulla mano destra aveva una goccia di sangue e che di fianco, all’altezza del cuore, la camicia presentava un sottile foro, uno solo, da cui fuorusciva qualche altra goccia di sangue.
Il dottore si sentì perduto. Chi avrebbe mai potuto credere che, mentre quell’uomo moriva, verosimilmente per un colpo di pistola, in quella stessa dimora egli si trovava per caso, solo per caso? Vedeva già i titoli dei giornali che parlavano di lui come di un omicida per gelosia, processato, condannato, rovinato per sempre.
Avrebbe dovuto ragionare con mente fredda, non farsi prendere dal panico, ma non ne fu capace e prese l’unica decisione che in quelle circostanze non avrebbe dovuto prendere: scappò da quella casa e si infilò in auto per andare via nella speranza di non essere stato notato da nessuno.
Aveva già fatto retromarcia, badando a non urtare un’altra auto che prima non c’era, ed aveva fatto poche decine di metri, quando vide nel buio un‘auto dei carabinieri messa di traverso sul viottolo, fino a sbarrarlo.
Fu costretto a ritornare indietro e all’interno della casa, davanti a quel cadavere, fu perquisito e costretto a fornire delle spiegazioni, ma non fu creduto. Il maresciallo Squillace e l’appuntato Coriale della locale stazione dei carabinieri effettuarono i primi, sommari rilievi del caso in attesa del magistrato, il quale decise la detenzione in carcere per il  Ratti e ordinò alla Cicala di tenersi a disposizione.
Il dottor Luciano Ratti, veterinario condotto, persona riverita e stimata da tutti, ebbe un’intera notte a disposizione per riflettere sulla sua nuova condizione di detenuto in attesa di giudizio e sulla possibilità di approntare una linea difensiva. Egli aveva qualche nozione di diritto e pensò che non avrebbero potuto condannarlo, perché non c’erano prove inconfutabili contro di lui, a parte le circostanze occasionali che potevano far nascere soltanto dei sospetti. Pensò all’Habeas corpus, pensò che fino a prova contraria egli era da considerarsi innocente, pensò alla Costituzione che considera l'imputato non colpevole sino a condanna definitiva. Pensò a tante cose e ad un certo punto si ritrovò pure a dire una preghiera, cosa che non faceva da parecchio tempo.
Infine  si convinse che ce l’avrebbe fatta a dimostrare la sua innocenza, si sentì tranquillo e si assopì su una branda che gli avevano messo a disposizione in un angolo della cella.
Al mattino fu convocato dal giudice, il quale gli annunziò che era libero e che poteva ritornarsene a casa. Ma la libertà non gli proveniva dall’Habeas corpus o dalla Costituzione, gli proveniva solo da una decisione di Marietta. Il giudice istruttore gli spiegò bene come erano andate le cose.
Il daziere, Nicola Cersosimo, aveva due amanti, la Maria Pia Cicala e tale Marietta Vaccaro. Le due Marie erano però molto diverse tra di loro:remissiva la prima, gelosissima la seconda, per nulla disposta a tollerare il triangolo amoroso. La sera precedente, dopo l’ennesima, violenta lite, Marietta aveva estratto una pistola Beretta 6,35 ed esploso contro di lui un unico colpo, forse solo con l’intenzione di impaurirlo. Il Cersosimo non si era nemmeno accorto di essere stato colpito e, alla vista di quella pistola che sembrava un giocattolo, si era allontanato in auto con l’intenzione di rifugiarsi dalla sua seconda amante. Giunto alle prime case del paese, non aveva visto un posto di blocco dei carabinieri, in normale servizio di sorveglianza. O forse l’aveva visto, ma con i riflessi ormai appannati a causa dell’emorragia interna, non riuscì a frenare, travolse un segnale di stop posto per terra e proseguì la sua corsa in direzione della villetta di Maria Pia.
Dove, superata la sorpresa iniziale, giunsero anche i carabinieri, a distanza di circa dieci minuti e dopo qualche ricerca infruttuosa in varie direzioni. Il resto era noto. Bisognava solo aggiungere che alle prime luci dell’alba Marietta Vaccaro, venuta a sapere della morte del Cersosimo, probabilmente pentita del suo gesto, si era presentata spontaneamente in caserma, aveva confessato il suo omicidio, consegnando anche la pistola, ed era stata arrestata e rinchiusa in una cella accanto alla sua.
Il Ratti, dopo la restituzione degli oggetti personali, fu riaccompagnato alla sua Alfa Romeo Giulietta. Si rimise al volante e, mentre guidava verso San Mauro, calcolò che sarebbe arrivato con circa dieci ore di ritardo. Non molte in fondo, tenuto conto di quanto gli era capitato in quella notte. Rifletté anche sulle vicende della sua vita e concluse decisamente che dalle donne doveva tenersi lontano, come in fondo aveva sempre fatto, perché a lui le donne avevano portato sempre male.
Ezio Scaramuzzino