Pubblicato su KAIROS di Dicembre 2012. In un mondo ormai scomparso, la storia di Bebè, chitarrista girovago.
C’è una terra, nel centro
della Calabria, poco conosciuta e comunque lontana dai grandi flussi del
turismo di massa. E’ la Presila del Marchesato di Crotone, terra che continua a
profumare dei boschi delle montagne vicine, ma che già prende in faccia l’aria
salmastra che le giunge dalla costa ionica
ancora lontana. Qua le persone a prima
vista sembrano scostanti e dure come il paesaggio che le accoglie, a metà
strada tra la dolcezza delle colline circostanti e l’asprezza della macchia mediterranea.
Mio padre, un tempo, andava abbastanza
spesso da quelle parti per alcuni suoi commerci di olio e mi portava spesso con
sé. Al rientro ci si fermava immancabilmente lungo la strada in un punto di ristoro al
bivio Lenza. Si trattava allora di una stanzuccia dalle pareti annerite e scrostate, con un bancone di
tavole, al quale veniva servito quasi esclusivamente del vino. Unica concessione era la spuma, che qualcuno soleva aggiungere al
vino, per allungarlo ed illudersi così di berne un po’ di più. Su un lato del
bancone facevano bella mostra di sé un paio di vasi in vetro con caramelle di
rabarbaro e menta. Non vi era acqua corrente ed i bicchieri venivano risciacquati
in un catino colmo d’acqua. La modernità aveva portato però un freezer per i
gelati, sempre scarsi e male assortiti.
E questo ambiente diventava
spesso lo sfondo, nel quale vari attori si avvicendavano ad interpretare dei
ruoli sul palcoscenico della vita. Ogni
occasione era buona per fare un po’ di musica
e cantare: erano voci
apprezzabili, seppur non educate al canto. Contadini e piccoli artigiani,
vestiti ancora dei panni di lavoro, erano accomunati dal piacere di stare assieme
e da un bicchiere di buon vino prodotto dallo stesso oste. Si vedevano omaccioni, dalle mani rudi e dai volti
paonazzi, che si commuovevano quasi nel cantare
Calabrisella mia. A me faceva
impressione tutto ciò, perché in precedenza non avevo mai visto degli uomini
piangere e soprattutto perché non riuscivo a capire che cosa ci fosse da
piangere. Non sapevo che era ancora vivo in queste persone il ricordo degli stenti, che li
aveva talvolta obbligati ad emigrare
oppure a scendere verso la costa, fertile e paludosa, per ritornarne spesso
febbricitanti di malaria.
Qui, qualche volta, era
possibile incontrare Ciccilluzzo di Mesoraca, artista girovago che non perdeva
mai occasione per esibirsi. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti
almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione
dei presenti e incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui conosceva. Alla
fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e
‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con
l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per un’ esibizione artistica.
Un tale, paralitico da
anni, se ne stava per l’intera giornata in un angolo, seduto su una sedia a rotelle rabberciata alla meglio, con
davanti il bicchiere sempre miracolosamente pieno, dove intingeva dei biscotti vecchi, ormai rinsecchiti e duri come
granito. Amava continuamente ripetere il famoso detto “vuota il bicchier ch’è
pieno, empi il bicchier ch’è vuoto, non lo lasciar mai pieno, non lo lasciar
mai vuoto”. Infine, nell’ultimo mezzo bicchiere da svuotare, prima di
tornarsene a casa, risciacquava meticolosamente la dentiera. E io mi chiedevo a
cosa gli potesse servire quella dentiera, che egli teneva perennemente sul tavolo.
C’era poi lo spaccone, tale
Lillo, pronto sempre a scommettere su qualsiasi cosa e che nel presentarsi amava
ripetere: “Piaceri, Lillu, chi previt’ un si ficia”. Messo in seminario dalla
famiglia che sperava di trovargli così una buona occupazione, si era fatto
cacciare per aver combinato non si sa bene quale diavoleria. Fra le sue tante
scommesse, famosa quella in cui si era
detto capace di mangiare un grillo vivo. La vinse, dopodiché, rivolgendosi al
grillo che aveva appena inghiottito, disse: “Tardi cantasti, griggru!”.
Iniziavano poi grandi
discussioni che coinvolgevano un po’ tutti, nelle quali ognuno riferiva cose per
sentito dire e le sosteneva con determinazione. Il gestore del locale, un tale
alto un metro e mezzo, detto semplicemente “il tappo”, se ne venne fuori una
volta sostenendo che la terra era piatta e che chi sosteneva il contrario era
semplicemente un idiota. In modo accanito cercava di dimostrare che, sì,
insomma… proprio piatta, piatta… no, non lo era; certo, ci si poteva trovare
qualche bitorzolo, qualche dosso più o meno alto, ma che tutto poteva essere, tranne
una palla. I più si limitavano a sorridere di fronte a tanta ostinazione, ma un
giorno un tale, non informato delle sue manie, prese a far polemiche. Al
che “il tappo” rispose che lì il padrone era lui e che, se uno pensava che
la terra fosse tonda, quella era la porta ed era invitato ad accomodarsi fuori.
Il più atteso, comunque,
era Bebè, perché portava la chitarra. Abitava in una casupola fuori dal paese
di Roccabernarda, con un fazzoletto di terra attorno, dove, non si sa per quale
motivo, il pollaio era stato posizionato in modo che le galline dovessero per forza
attraversare la cucina, per andare a scorrazzare all’aperto. La moglie era una
cuoca provetta, per la verità poco interessata alle regole igieniche, al punto
che, mentre spianava la sfoglia sul tavolo, doveva mandar via le galline che
venivano a zampettarci sopra. D’altra parte, da lì dovevano passare per entrare
ed uscire dal pollaio!
La chitarra di Bebè era mitica. Fatta artigianalmente da
lui stesso, riportava i segni del tempo e delle sbornie ed i vari sfondamenti
venivano di volta in volta rattoppati con pezzi di compensato, talchè la cassa armonica era costellata di toppe. Il
pezzo forte di Bebè, spesso richiesto, era Rosa, risbìgghiati. Lui non si
faceva pregare due volte e la intonava accompagnandosi con la chitarra, dandosi
il ritmo con qualche colpetto della mano sulla gamba d’appoggio. Era un canto
di sdegno per l’amata Rosa e Bebè la cantava con passione, concludendo “Faccia
di piru cottu, di pumadoru sfattu, dimmi chi t’haiu fattu ca nun mi guardi
cchiù”. Bebè aveva imparato a suonare la chitarra quando era militare,
guardando di nascosto un suo commilitone, che non solo si era rifiutato di
insegnargli a suonarla, ma che si nascondeva per impedirgli di vedere.
Ma una notte di Gennaio Bebè fu atteso invano a casa
dalla moglie. Faceva molto freddo ed in cielo risplendeva una luna piena che
rischiarava in parte le ombre che si aggiravano nel buio. Dopo aver suonato e
bevuto a lungo con gli amici, sulla strada del ritorno a casa Bebè si sentì
stanco e affaticato. Decise di fermarsi un attimo, solo un attimo, a sedere su
una panchina illuminata dalla debole luce di un lampione. Ma la stanchezza lo
sopraffece ed egli si addormentò. Il gelo della notte, che forse era in cerca
di qualche preda, lo sorprese indifeso
su quella panchina e lo avvolse.
Alle prime luci dell’alba un passante lo vide ricoperto di brina, con gli occhi
chiusi, e lo scosse un pochino, per ridestarlo. Bebè si piegò lentamente da un
lato, riverso, e finì per appoggiare il volto, quasi come in un ultimo
abbraccio, sul manico di quella sua chitarra che egli aveva allacciato a
tracolla.
Al suo funerale vennero in molti, anche dai paesi vicini, perché Bebè
era benvoluto. Tutti, con il vestito buono ed il cappello stretto in mano,
sfilarono ordinatamente davanti alla bara e trattennero a stento la commozione che si
manifestava in un leggero tremolio del labbro. Mai più Rosa avrebbe ascoltato
parole di sdegno, mai più la chitarra rattoppata avrebbe accordato le note di Calabrisella mia.
Finite le esequie in
Chiesa, il funerale si avviò verso il piccolo cimitero con il cancello
cigolante sempre aperto e, prima che la tomba fosse richiusa, i compagni di
brigata intonarono, a mo’ di canto di rispetto, l’ultimo addio a Bebè,
ricordandone in rima le qualità di uomo, di amico e di musico, come si conveniva
ad un personaggio quale egli era stato nel suo piccolo mondo. Gli amici Scintilla
e Disturbo cantarono le ultime battute:
Bebè,
tu ch’eri amicu di vivute,
tu ni
lassasti e po’ ti ‘ndi si’ gghiutu.
Mo’
cu ri santi certu ti ‘ndi stai,
for’
i da vita e for’ i nostri guai.
Le lacrime, faticosamente trattenute fino ad
allora, riempirono gli occhi dei presenti, commossi dalle parole che
ricordavano il caro Bebè.
Ezio Scaramuzzino
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