martedì 3 aprile 2012

L'uomo che parlava con gli Angeli (Racconto) di Ezio Scaramuzzino

Il 31 ottobre 1966 era un Lunedì e nelle prime ore del pomeriggio sostenni all’università, a Firenze, un esame di Letteratura greca, che andò bene.  Avevo ancora qualche giorno a disposizione, prima del ritorno a casa, e pensai bene di approfittarne per sbrigare personalmente qualche incombenza burocratica. Diedi uno sguardo all’orario dei corsi e vidi che quello di Storia delle religioni, una disciplina complementare prevista nel mio piano di studi, iniziava sempre alle otto del mattino. Dopo la festività di Ognissanti, al mattino di Mercoledì mi svegliai presto per essere puntuale e poter  prendere la cosiddetta “firma” del professore, un obbligo puramente formale. Nell’aula c’erano altri quattro studenti, tutti semiaddormentati come me.
Il professore arrivò con qualche minuto di ritardo e, prima di iniziare la lezione, disse: ” Immagino che qualcuno  di voi sia venuto solo per prendere la “firma”. Se è così, avverto questo qualcuno che deve venire  anche domani, perché oggi  ho fretta e non firmo nessun libretto”.  Allora i professori universitari erano considerati solo un gradino al di sotto di Dio Padre Onnipotente e la contestazione era di là da venire. Difatti nessuno dei presenti fiatò. Feci finta di seguire la lezione, che in realtà non mi interessava, e mi rassegnai all’idea di ritornare il giorno successivo. La cosa mi seccava, un po’ perché dovevo alzarmi presto, ma soprattutto perché da qualche giorno pioveva insistentemente su Firenze e non trovavo allettante l’idea di girare per la città in quelle condizioni.
Il giorno dopo, 3 Novembre, mi svegliai in tempo utile e mi diressi ancora una volta  verso Piazza San Marco, dove era la facoltà di Lettere. C’era stata qualche schiarita il pomeriggio del giorno prima, ma da molte ore era ripreso a  piovere con insistenza  e si circolava con grande difficoltà. Avevo un ombrello che mi riparava dalla pioggia e dal vento e  stavo attraversando a piedi  via Guelfa. Ma, alla confluenza su via Cavour, mi scontrai con un signore esile, minuto, bassino. Nello scontro quel signore aveva fatto cadere delle spesse lenti da miope, che mi affrettai a raccogliere per terra e che riconsegnai scusandomi per l’accaduto. Mentre riconsegnavo le lenti, ebbi la possibilità di osservare per un attimo quel volto ed ebbi l’impressione di averlo già visto da qualche parte. Ma avevo fretta e non persi tempo a riflettere, riprendendo la mia veloce andatura e lasciando indietro quell’omino miope, che con tutta evidenza andava nella mia stessa direzione.
Nell’aula dell’Università ritrovai gli stessi quattro studenti che già conoscevo. Dopo un po’ arrivò il professore, che però non era lo stesso del giorno prima: era proprio quell’omino con il quale mi ero scontrato alla confluenza tra via Guelfa e via Cavour.  Una ragazza bisbigliò il suo nome e allora ricordai tutto perfettamente. Quell’omino era Giorgio La Pira, l’ex sindaco di Firenze, “il sindaco santo”, come molti lo chiamavano. Il professore sistemò in un angolo il suo ombrello, appese l’impermeabile inzuppato d’acqua e dopo essersi sistemato, con una voce flebile e un po’ stridula, si rivolse ai suoi cinque ascoltatori: “Cari ragazzi, non vi spaventate. Starò con voi solo qualche giorno, il tempo di sostituire il professore titolare, assente per impegni improrogabili. Ho già preso accordi con lui e in questi pochi giorni tratterò un argomento  di comune interesse, l’enciclica  Rerum novarum di Leone XIII, della quale intendo dare un’interpretazione nuova e per nulla scontata”.
Il professor La Pira  tirò fuori da una borsa un bel pacco di documenti e parlò a lungo quel giorno, con intensità e passione, come se avesse avuto davanti  mille persone, non quei cinque che in realtà eravamo. Riassunse la genesi di quella prima enciclica sociale  della Chiesa, ne sottolineò la novità rivoluzionaria e concluse stilando su un foglio una scaletta di argomenti che si riservava di sviluppare nei giorni successivi. Alla fine della lezione si rivolse a me personalmente: ”A te, che mi hai fatto cadere gli occhiali, chiedo un favore personale. Siccome sta piovendo ed il tuo ombrello è molto più grande del mio, tanto che può comodamente riparare due persone, potresti accompagnarmi fino al vicino convento di San Marco?” Non gli dissi di no naturalmente e così quel giorno accompagnai e riparai con il mio ombrello  il famoso “sindaco santo” di Firenze. Il quale peraltro si dimostrò curiosissimo ed interessatissimo alla mia persona. Durante il tragitto, mentre la pioggia  continuava  a scrosciare intensamente, volle sapere come mi chiamavo, da dove venivo, se avevo bisogno di qualcosa. Gli accennai timidamente al problema della firma e lui mi suggerì di consegnare  il libretto al bidello di facoltà, che avrebbe provveduto alla bisogna.
Arrivati a destinazione  e  mentre attendevamo dietro il portone del convento, pretese che mi fermassi anche io, almeno finché la pioggia non fosse diminuita, e così varcai insieme con lui il portone di quel famosissimo convento.  Alcuni frati domenicani ci fecero accomodare in un refettorio semplice, sobrio e pulitissimo, dove poco dopo portarono latte, caffè e un vassoio con alcune fette di torta. Mi limitai a bere del caffè e intanto notai che  il professore beveva una tazza di latte, ma nel contempo non disdegnava di addentare una piccola  fetta di torta. Volle spiegarmi, sorridendo, che quella era la sua prima colazione del mattino, dal momento che egli  digiunava non solo prima della sua Comunione quotidiana, ma anche per qualche ora  dopo.  Il professore era chiaramente di casa in quel convento e mi invitò  con insistenza a mangiare qualcosa, ma io mi sentivo un po’ a disagio, come intimidito dalla sua presenza e dalla solennità di quei luoghi, mentre intanto la pioggia era aumentata di intensità e sconsigliava una mia immediata uscita dal convento.
Ad un certo punto egli mi chiese se avevo paura di quella pioggia torrenziale, che sembrava non voler finire mai, e, quando gli dissi che sì, certo, io avevo paura,  mi replicò che non bisognava aver paura, perché ognuno di noi era protetto dal suo Angelo custode. Gli obiettai che, a dire il vero, io non ero poi  tanto convinto dell’esistenza  di questi Angeli e lui mi assicurò che mi sbagliavo, che gli Angeli esistevano e che anzi lui, con il suo Angelo custode, faceva delle lunghe conversazioni. “Vedi, mi diceva, gli Angeli esistono, stanno dietro di noi, ci proteggono e ci guidano nei sentieri  della vita. Noi non li vediamo, certo, ma un giorno li vedremo, in Paradiso. Io, continuava, sono legato al mio Angelo, ne seguo i consigli, lo ascolto. Se un giorno anche tu imparerai a riconoscere la voce del tuo Angelo, farai cosa buona e ne otterrai il meglio.” Mi vide scuotere la testa e sorridendo mi mise una mano tra i capelli, scompigliandoli tutti. Poi chiamò un giovane frate domenicano e lo pregò di farmi visitare il convento.
Vidi le logge, le celle dei frati, i luoghi della preghiera comune, della meditazione e  dello studio e non potei fare a meno di pensare a ciò che tra quelle mura era avvenuto circa cinque secoli prima.  Proprio in quel convento, negli ultimi anni del Quattrocento, un giovane frate ferrarese, di nome Gerolamo Savonarola, aveva meditato e preparato quelle prediche violente e visionarie, che avevano sconvolto la vita della città e che alla fine gli sarebbero valse la morte sul rogo il 23 Maggio del 1498. Il giovane frate era vissuto in quelle celle, aveva pregato in quei luoghi, forse aveva preparato una  predica proprio su quello scrittoio che adesso era sotto i miei occhi. Mi destò dalle mie riflessioni la voce del professor La Pira, il quale mi venne incontro e mi disse che, se volevo, potevo restare per un giorno ospite del convento e che, se non gradivo, potevo approfittare  di una schiarita per fare ritorno a casa.
Ringraziai dell’ospitalità e dissi che preferivo ritornare. Col professore rimasi d’accordo che ci saremmo rivisti il giorno dopo in Facoltà, aperta solo  per mezza giornata a causa della ricorrenza  della Vittoria, considerata allora semifestiva. Durante il tragitto in autobus, notai che i Fiorentini parlavano tutti del brutto tempo, ma nessuno dimostrava una vera preoccupazione, giacché anche un’eventuale piena dell’Arno era considerata solo un “classico d’autunno”. I negozi erano tutti aperti e per il giorno successivo, 4 Novembre, molti manifesti preannunziavano una parata militare in Piazza della Signoria. Per parte mia la sera andai pure al cinema e vidi La Bibbia di John Huston, che aveva il suo pezzo forte nelle scene del diluvio universale, girate, a quel che si diceva, con  macchine speciali.
Continuò a piovere per tutta la notte, le strade erano fangose e scivolose, la circolazione ridotta al minimo, ma riuscii a prendere uno dei pochi autobus  ancora in circolazione e al mattino arrivai puntuale in Facoltà. Nell’aula ritrovai solo due studenti e ritrovai anche  il professor La Pira, che ci aveva preceduti tutti, arrivando dal vicino convento dei frati domenicani di San Marco. Il professore non perse tempo: tirò fuori i suoi appunti e, seguendo la scaletta approntata il giorno prima, ci intrattenne sull’economia sociale di mercato e sulla funzione della Chiesa nella tutela del lavoro. Più o meno negli stessi minuti le acque dell’Arno, che avevano già inondato gli scantinati della Biblioteca Nazionale,  si apprestavano ad allagare Piazza della Signoria  e Piazza di  Santa Croce. Sentivamo provenire da lontano un rumore sordo e cupo e, quando questo rumore divenne tanto vicino da risultare quasi insopportabile, ci alzammo velocemente dai banchi e aprimmo la porta dell’aula. Ci si presentò uno spettacolo impressionante: il corridoio era già  in parte allagato  e da un finestrone  in alto veniva giù un fiume di acqua.
Non perdemmo tempo: abbandonammo tutto il resto  e sollevammo letteralmente in aria il professor La Pira, che per altro pesava pochissimo, salendo poi  le scale e mettendoci in salvo al primo piano dell’edificio. Qui ci ritrovammo in circa venti persone e, quando il livello dell’acqua incominciò paurosamente a salire, ci spostammo tutti su una loggia parzialmente coperta. Un bidello riuscì a procurarsi un bastone, vi legò un drappo bianco e incominciò a sventolarlo , nella speranza che qualcuno notasse la nostra presenza e pensasse a soccorrerci.
Nel frattempo il professor La Pira, con il suo eterno sorriso, cercava di infondere coraggio a tutti. Ci abbracciava  e ci accarezzava, quasi volesse trasmetterci la sua incrollabile fiducia. Notai che teneva stretta in mano una coroncina del Rosario. Dopo circa un’ora vedemmo volteggiare sulle nostre teste un elicottero, su cui si leggeva chiaramente la sigla E.I. e che con larghe e lente ruote venne a fermarsi sopra di noi. Fu calata una corda e ne discese un militare che ci chiese se tra di noi c’erano dei feriti, giacché  quell’elicottero era adibito solo a tale scopo . Gli rispondemmo di no, ma gli facemmo notare la presenza  del professor La Pira, avanti con gli anni,  malconcio e tutto inzuppato d’acqua, che incominciava a manifestare suo malgrado qualche segno di cedimento e che quindi bisognava assolutamente porre in salvo .
Il professore si schermì e manifestò la sua ferma intenzione di non lasciarci soli. Ma il militare si rese subito conto della drammatica situazione in cui egli versava  e, comunicando per radio, fece scendere dall’elicottero  una sorta di sediolino attaccato ad una corda. In una situazione che stava diventando sempre più convulsa e caotica, il professore fu legato saldamente e imbracato a quel sediolino, mentre il militare ci comunicava che sarebbe rimasto con noi in attesa di un successivo mezzo di salvataggio. Infine l’elicottero partì , diretto verso un centro di raccolta sulle colline di Fiesole, ancor prima che il sediolino fosse issato a bordo con il suo carico.
Per un centinaio di metri vidi il professor La Pira volare e volteggiare nell’aria grigia  di Firenze, mentre tutt’intorno sembravano riversarsi sulla terra le cateratte aperte del diluvio. Ebbi l’impressione che egli fosse diretto in cielo, a trovare quegli Angeli con i quali aveva tanta dimestichezza e tanta voglia di  completare un dialogo appena interrotto. O forse era diventato anche lui un Angelo e per un attimo quasi mi aspettai di vedergli spuntare le  ali, con le quali avrebbe continuato il suo volo verso l’eternità. La cosa del resto non era né difficile, né impossibile. Giorgio La Pira era vissuto da persona astratta e quasi eterea, sempre in volo nei regni dello spirito e sempre lontana dalle miserie  della vita terrena.
Ezio Scaramuzzino

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