sabato 26 novembre 2011

La fine del mondo(Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Nella società agricolo-patriarcale di una volta era sufficiente che un buontempone incominciasse a diffondere la voce su una prossima fine del mondo e, nell’arco di pochi giorni, almeno a livello locale, il più era fatto. Molti si preparavano, o facevano finta di prepararsi, ad ogni evenienza, perché tutti gli uomini, chi più chi meno, avevano ed hanno una paura atavica per i novissimi.

Ricordo che al mio paese una delle ricorrenti voci su una prossima fine del mondo aveva fissato tale data alla mezzanotte tra il 14 ed il 15 Novembre del 1952. Non ricordo e non so per quale motivo fosse stata scelta proprio quella data: ero un bambino allora, andavo alle scuole elementari e la mia cognizione dell’evento è legata soprattutto ai ricordi e alle impressioni che me ne derivarono dal mondo degli adulti.

Quella mattina, a scuola, il maestro D’Alfonso notò con rammarico che mancavano parecchi alunni: era un Venerdì e la classe era più che dimezzata. Facemmo poco a scuola e il maestro ci fece notare che era una bella giornata autunnale, con un sole tiepido che indorava e riscaldava le fredde aule. In effetti non si avvertiva nemmeno la necessità di utilizzare la stufa a carbonella, che già da qualche giorno accendevamo per riscaldare le nostre mani e cercare di prevenire la sofferenza dei geloni che allora colpivano e tormentavano indistintamente tutti i bambini.

Verso le dieci il sole si nascose dietro una nuvola solitaria, ma non ci si fece caso più di tanto. Qualcuno notò che improvvisamente si era alzato il vento, ma anche questo fu considerato un fatto normale. Dopo un po’ altre nuvole nere coprirono il cielo, che ne fu completamente oscurato. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro, ma caddero soltanto alcune gocce. I bambini eravamo un po’ preoccupati, ma anche contenti all’idea che in quelle circostanze difficilmente il maestro potesse assegnarci dei compiti, o, peggio, farci svolgere uno dei temutissimi esercizi di Analisi logica o di Aritmetica. Verso le undici però, all’improvviso, una strana luce giallognola riempì la nostra aula a pianterreno, una delle tante aule disseminate per il paese, al posto dell’edificio scolastico unico ancora considerato un lusso in quei tempi di ristrettezze. Un oh di meraviglia uscì dalla bocca di tutti noi, che istintivamente ci precipitammo alla finestra per cercare di capire l’origine di quella strana luce, mentre il maestro cercava inutilmente di farci ritornare ai nostri posti.

Il maestro D’Alfonso, il mitico maestro D’Alfonso, terrore degli alunni e al quale va la mia riconoscenza, per le tante cose che ho imparato sotto la sua guida. Quel giorno si arrese anche lui: cercò di tenerci calmi, di farci capire che quella strana luce gialla non era né tanto strana, né tanto gialla, ma fu tutto inutile. Avevamo paura. Dai discorsi degli adulti avevamo anche noi percepito qualcosa sulla imminente fine del mondo ed avevamo paura. Dopo un po’ alcune mamme si presentarono in classe per prelevare i figli ed il maestro non si oppose, anzi verso mezzogiorno decise di mandare tutti a casa e raccomandò ai pochi che eravamo rimasti di affrettarci sulla via del ritorno. Presi la mia pesante cartella e di buona lena mi diressi verso casa. Abitavo all’altro capo del paese e fui costretto ad attraversarlo quasi per intero.

Ad un crocicchio, all’uscita di una cantina, vidi Ciccio Larino, il più famoso ubriacone del paese. Zigzagava paurosamente, mentre la moglie cercava di tenerlo in piedi e di riportarlo a casa. Quel giorno Ciccio, per ubriacarsi, non aveva aspettato la sera, come era solito fare: aveva anticipato i tempi, nella paura che l’imminente fine del mondo potesse impedirgli l’ultima grande bevuta della sua vita. Mentre la moglie lo risospingeva verso casa, egli protestava ad alta voce, blaterando frasi sconnesse nelle quali si potevano distinguere solo alcune parole, “fine del mondo…ultima…ultima volta…mai più”.

Più in là incontrai Sandrino, un giovane buono e sempliciotto, con il quale ogni tanto mi intrattenevo, divertendomi anche a prenderlo in giro. Mi chiese dove fossi diretto così di fretta, perché tanto stava per arrivare la fine del mondo e saremmo morti tutti. Gli dissi che doveva cercare un riparo, che doveva mettersi in salvo. E lui, con il suo dire lento e strascicato, mi replicò:” Sì… sì, te la sai tu…vai, vai tu, che sei valente…Io non mi muovo. Se non c’è rimedio, perché preoccuparsi?... E se poi il rimedio c’è, perché preoccuparsi?”.

Il suo discorso forse non faceva una grinza, ma io avevo fretta di arrivare a casa e lo piantai in asso. Feci in tempo a vedere Mario Panza, tutto indaffarato a bussare alle porte dei vicini ed a chiedere notizie della figlia Luigina, che già allora aveva preso l’abitudine di sparire ogni tanto. Da lontano vidi mia madre che mi veniva incontro, mentre continue folate di vento le scompigliavano i capelli e lo scialle che teneva addosso. A casa trovai uno strano fermento. Franca, la donna di servizio che viveva con noi, mi abbracciò con trasporto e mi disse: “Zinnì,(così mi chiamava), non aver paura, ché ci sono io”. Ero il più piccolo di casa e forse proprio per questo ero trattato dagli altri con particolare affetto. I miei fratelli intanto guardavano all’insù attraverso i vetri della finestra e cercavano anche loro di capire il perché di quello strano chiarore giallastro.

Si pranzò di malavoglia quel giorno anche perché i nostri pensieri, se anche nessuno era disposto ad ammetterlo, erano tutti rivolti a quella benedetta o maledetta fine del mondo che sembrava preannunziarsi in modo cosi sinistro. Passarono le ore e solo dopo il tramonto quel chiarore giallastro si dissolse per lasciare il posto alle prime ombre della sera. Per le strade non si vedeva nessuno, perché tutti erano tappati in casa ad aspettare la mezzanotte. Anche gli animali erano partecipi della comune paura e sembravano spariti. Fritz, il nostro indimenticato e meraviglioso cane Fritz, se ne stava tutto mogio in un angolo, accanto al caminetto, e mugolava pietosamente. A sera mio padre, nel frattempo ritiratosi dalla campagna, cercò di risollevare inutilmente l’atmosfera triste che aleggiava intorno e durante la cena si consentì qualche battuta spiritosa, ma tutti i suoi tentativi caddero nel vuoto.

Si erano fatte le otto, poi le nove: mancavano solo tre ore alla fine del mondo. Tutt’intorno c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal sibilo del vento, che continuava a soffiare. Ad un certo punto si avvertì sulla strada un tramestio di passi, come di gente che si dirigesse in fretta da qualche parte. Mia madre si affacciò sulla porta per avere notizie, per capirci qualcosa, e delle donne in gruppo, con la corona del Rosario in mano, la invitarono ad andare con loro verso la piazza principale del paese, di fronte alla Chiesa madre. Quando mia madre ci comunicò la notizia, fu solo un attimo. Tutti, come se non aspettassimo altro, in fretta uscimmo di casa e, senza neppure richiudere l’uscio, ci accodammo. Man mano che avanzavamo, le file si ingrossavano e, quando arrivammo in piazza, ci si presentò davanti agli occhi uno spettacolo incredibile.

Centinaia di donne pregavano ad alta voce, imploravano la Madonna, piangevano. Uomini, che forse non avevano mai pregato in vita loro, in quelle ore si battevano il petto e recitavano il Rosario. Persone, che si erano sempre odiate nel corso della loro esistenza, stavano le une accanto alle altre, accomunate da un’unica paura e da un’unica speranza. Inimicizie secolari si erano improvvisamente dissolte. Ma non mancavano persone, per lo più uomini, che in un angolo della piazza pensavano a ben altre cose. Costoro avevano apparecchiato dei tavoli, ammonticchiandovi cibarie di ogni genere: vino, salsicce, soppressate, capicolli, formaggio pecorino, frutta. Molti, tra una preghiera e l’altra, andavano a rifocillarsi e tanti altri davano fondo alle loro capacità masticatorie per quella che, con tutta evidenza, consideravano l’ultima mangiata e l’ultima bevuta della loro vita.Verso le undici molti erano già avvinazzati e non mancavano di quelli che, ormai satolli ed incapaci di ingurgitare altro, si erano pure appisolati. La confusione, il tramestio, le voci biascicate, imploranti e preganti, le urla qualche volta, sembravano aver creato un’atmosfera da bolgia dantesca, ma, quando si appressò la mezzanotte, improvvisamente un silenzio spettrale ricoprì la piazza.

L’orologio della chiesa incominciò a battere i rintocchi. Uno, due, tre. Al sesto rintocco una voce solitaria implorò, gridando, il perdono di Dio. Sette, otto, nove, dieci, undici…dodici. Non era accaduto niente. Eravamo tutti lì a constatare che il mondo continuava come prima. Tutti piansero, gridarono, gioirono, si abbracciarono. Donne, che in vita loro non avevano mai baciato altro uomo, che non fosse il loro marito, si trovarono intrecciate e scambiarono baci con sconosciuti, con gente del popolo, con giovani invasati. Qualcun altro tirò fuori una fisarmonica e quelle stesse persone, che fino a poco prima si erano battute il petto ed avevano implorato la pietà divina, ora ballavano e si facevano trascinare dai ritmi giocosi di una tarantella.

Si ballò e si cantò a lungo quella notte, fino all’alba, mi pare di ricordare. Ricordo bene comunque, ed in maniera nitida, che il giorno successivo non si andò a scuola. Il mondo aveva rischiato di scomparire e, di fronte ad un fatto del genere, il maestro D’Alfonso poteva pure aspettare. La vita sarebbe continuata lo stesso ed avrebbe conservato il suo fascino, anche con qualche esercizio in meno di Analisi logica o di Aritmetica.

Ezio Scaramuzzino

Quei poveri studenti ostaggio del test misura-ignoranza di Giorgio Israel

Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all’analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale.
Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un «modo di ridere», ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in «ordine crescente di intensità». La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l’alunno acquisirebbe la «competenza» di distinguere le «sfumature di significato».

Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un «sorriso amaro», di un «sorriso di simpatia», di un «sorriso ironico», e anche di un «triste sorriso». Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest’ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un’intensificazione del ridere; non certamente il ridere un’intensificazione del ridacchiare.

Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s’intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l’interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l’aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l’esempio proposto non è isolato, bensì tipico.

Nei test Invalsi proposti ai licei si usava un brano di un racconto di Mario Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché - chiede il quiz - la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall’invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera «esatta» può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l’ambiguità dell’analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.

Del resto, quando l’uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali - ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto - è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull’uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d’istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l’anima - declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell’insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati - non si trova di meglio che parlare di «test», nella cornice di un linguaggio economicista, a base di «capitale umano», «forza lavoro», «fabbisogni» e «aree in ritardo»? Invece di capire che ciò di cui ha bisogno l’istruzione è soprattutto la motivazione profonda e la restituzione del «senso» della propria missione? Davvero malinconico.

21 novembre 2011

giovedì 10 novembre 2011

Dieci lire per Ciccillo (Racconto) di Ezio Scaramuzzino

Ciccillo partiva da Mesoraca verso l’alba, per poter arrivare di primo mattino in uno dei paesi del Marchesato. Ma la sua meta preferita era Scandale, che egli visitava almeno una volta al mese. Viaggiava a piedi Ciccillo, un po’ perché allora i mezzi di comunicazione erano scarsi, ma anche perché, se pure ci fossero stati, egli non aveva i soldi per pagarsi un biglietto e, se anche li avesse avuti, avrebbe certamente preferito risparmarseli, evitando un viaggio in autobus, che considerava decisamente un lusso riservato a ben altre persone. Nel viaggio egli percorreva scorciatoie e sentieri che conosceva bene e solo di tanto in tanto, nei brevi tratti in cui si trovava su una strada pubblica, si azzardava a chiedere un passaggio a qualche contadino alla guida di un carretto.

Quando il passaggio gli veniva accordato, montava in fretta e faceva la prima sosta al bivio Lenza, dove una sorta di osteria a buon mercato costituiva una prima tappa obbligata per tutti coloro che si trovassero ad attraversare quelle strade. Qui Ciccillo non perdeva tempo. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui conosceva.

Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per un’ esibizione artistica.

Poi, se gli era possibile, proseguiva il viaggio sul carretto e verso le otto era in paese. Si fermava anche qui in un’osteria, si faceva offrire un bicchiere di vino, quasi a voler ritemprare le forze, e poi andava incontro al suo pubblico. La notizia del suo arrivo si diffondeva in un attimo. “E’ arrivato Ciccilluzzo”, si dicevano tutti. C’erano centinaia di Ciccilli nella zona, ma Ciccilluzzo era solo lui, unico ed inconfondibile.

Ciccillo avanzava, nella strada principale del paese, alla testa di un corteo formato per lo più da monelli, che durante tutto il tragitto lo spernacchiavano e lo tormentavano crudelmente, tirandogli dietro ciottoli, tirandolo per la giacca o facendogli lo sgambetto per cercare di farlo cadere. Tra quei monelli allora c’ero anche io.

Ma Ciccillo era impavido: resisteva ad ogni offensiva e, un po’ barcollando, un po’ zigzagando per evitare le trappole, riusciva a raggiungere la sua meta, che poi era la piazza principale del paese. Qui qualcuno andava a prendere una sedia, alla quale Ciccillo si avvicinava facendosi largo tra la folla sghignazzante. Una volta salito, egli dava fondo alle sue qualità di attore, recitando il meglio del suo repertorio.

La gente non lesinava gli applausi e si infervorava sempre di più. L’attore, da quella sedia che costituiva il suo palcoscenico, assecondava gli umori del pubblico e non si faceva pregare nel soddisfare le richieste. Ciccillo si accalorava, gesticolava, sudava, parlava, straparlava, ma immancabilmente, prima o poi, in un modo o nell’altro, arrivava a quello che era unanimemente considerato il suo pezzo forte, il suo cavallo di battaglia, il suo capolavoro.

Quando lui stesso preannunziava che stava per eseguire "A fimmina culinuda", la gente improvvisamente rimaneva zitta, perché non una parola doveva essere persa. In questo silenzio Ciccillo prima si rischiarava la voce, poi si dava una manata sulla coscia, come per darsi il tempo, ed infine attaccava, su un ritmo di tarantella, una specie di strambotto.


E quant’ è bella ‘a fimmina culinuda,
parà ‘na casa senza ceramidi,
ammenz’’i gambi cià ‘na grutta scura,
ci guardi cu ricriu e nu ci vidi.

E quant’ è bellu l’ominu culinudu,
parà ra casa di nu cavaleru,
ammenz’’i gambii tena ‘n’armatura,
fa strazi di li fimmini chi vida.


Alla fine della recita la folla andava immancabilmente in delirio. Ciccillo dal suo palcoscenico ringraziava con un inchino, stando ben attento a non ruzzolare, e poi chiedeva dieci lire ad ogni persona di buon cuore del gentile pubblico. Qualche carogna gli rispondeva con il lancio di ortaggi, ma non mancavano quelli che le dieci lire gliele davano davvero, anche se si divertivano a lanciargliele sulla testa. Ciccillo non si perdeva d’animo: si piegava per terra e si intrufolava tra le gambe della gente per raccogliere quelle sudatissime offerte.

Durante la mia infanzia, non c’era ancora la televisione, del cinema si sentiva solo parlare e gli unici divertimenti possibili erano quelli procurati da qualche scassatissimo circo equestre di passaggio e da qualche compagnia di attori girovaghi napoletani, oppure quelli offerti da Ciccillo. Ma il circo e gli attori girovaghi capitavano una volta ogni tanto, mentre Ciccillo era quasi un ospite fisso nella vita lenta e sonnacchiosa del paese.

Passarono gli anni, tanti anni. In una calda Domenica di Giugno, mi ritrovai con alcuni amici a San Mauro Marchesato, in occasione della festa della Madonna del Soccorso, una delle più importanti e famose tra le tante feste religiose del circondario. Da Scandale eravamo andati a piedi, tanto era breve la distanza, e ci eravamo ritrovati davanti al santuario nel momento culminante delle celebrazioni. Il grande quadro con l’effigie della Madonna aveva appena iniziato il suo giro attraverso le strade del paese e, quando la folla cessò di sfilare, notai che ai due lati del portone d’ingresso del santuario due ciechi erano fermi a chiedere l’elemosina.

Uno dei due era di corporatura robusta, aveva occhiali neri, un cartello appeso al petto con la scritta "Cieco di guerra", un bastone nella mano destra, un cappello nella mano sinistra e chiedeva la carità con voce lamentosa e strascicata. L’altro, più gracile ed apparentemente più vecchio del primo, si limitava a protendere silenziosamente un piattino, sperando nella generosità dei passanti. Non aveva occhiali ed era possibile vedere che dalle sue orbite fuoriusciva un liquido giallastro, rappreso all’altezza degli zigomi.

La mia attenzione fu richiamata in particolare dal fatto che il primo cieco mal sopportava la presenza del secondo e lo invitava continuamente ad andarsene o almeno a spostarsi un po’ più lontano. Il secondo però oltre che cieco doveva essere anche sordo, perché proprio non ci sentiva da quell’orecchio e continuava imperterrito, senza profferire parola, a tenere il braccio teso con il piattino.

Ma fu un attimo: il primo cieco, che poi tanto cieco non doveva essere, prese una breve rincorsa, roteò il suo bastone e assestò con precisione una legnata sulla testa del rivale. Il quale barcollò un attimo e poi cadde per terra, mentre l’aggressore se la svignava, approfittando della ressa e della confusione.

Fui il primo ad accorrere ed a prestare soccorso al malcapitato. Riuscii anche a superare la mia istintiva repulsione per quel liquido giallastro che gli colava sul volto e lo sorressi, riuscendo a risollevarlo e a rimetterlo in piedi, mentre altre persone assistevano o collaboravano in qualche modo all’opera caritatevole. Egli si lamentava flebilmente per il colpo ricevuto e cercava di toccarsi con la mano una ficozza bluastra che già incominciava ad infiorare la sua testa calva. Mentre lo sorreggevo, vidi che anche sul didietro, lungo la gamba destra, gli colava quella secrezione giallastra che già aveva impiastricciato il suo volto. Notai che da una tasca posteriore penzolava un piccolo contenitore di plastica, che nella caduta si era spezzato in due e lasciava fuoriuscire qualcosa che con tutta evidenza si presentava come un miscuglio liquido di uova strapazzate. Poi mi soffermai a guardare bene il volto di quel “cieco” ed ebbi la netta impressione di averlo già visto da qualche parte, forse anche di conoscerlo.

Cercavo di far luce nella mia memoria, di ricordare dove e come l’avessi conosciuto, quando egli incominciò ad articolare le sue prime parole dopo la caduta e disse con chiarezza:“M’e ‘ddu’ dece lire?”. Era lui, era Ciccillo, invecchiato, malconcio, ancora più a mal partito rispetto a tanti anni prima, ma era lui, decisamente.

Erano passati tanti anni da allora, forse trenta. C’era stato il miracolo economico degli anni ’60 e poi c’era stata la crisi degli anni ‘70, che aveva impoverito tanta gente. In seguito c’era stata la ripresa degli anni ’80, la ripresa del periodo di Reagan, tanto per intenderci, ma Ciccillo tutte queste cose non le aveva mai sapute e certamente non le sapeva ancora. Egli continuava imperterrito a chiedere dieci lire, quelle dieci lire con le due spighe da una parte e l’aratro dall’altra, che ormai non venivano nemmeno più coniate ed erano sparite dalla circolazione.

Mi frugai nelle tasche e trovai una moneta di cinquecento lire. Gliela regalai con piacere, un po’ per ringraziarlo, seppur tardivamente, degli spassi che mi aveva procurato quando ero bambino, un po’ anche per chiedergli scusa delle tante afflizioni che gli avevo procurate allora, con gli altri monelli della mia età.

Ciccillo afferrò la moneta con un brusco movimento e si mise ad osservarla con gli occhi sgranati, con quegli stessi occhi che fino a qualche minuto prima egli aveva tenuti ostinatamente chiusi. Poi si allontanò, senza voltarsi, zoppicando leggermente e di tanto in tanto mettendosi una mano sulla ficozza, mentre con l’altra mano teneva stretto il suo piccolo tesoro.

Qualche anno fa, nel suo paese di origine, Ciccillo è morto durante una freddissima notte di Dicembre all’età di circa novanta anni. E’ morto in perfetta solitudine, come in perfetta solitudine era sempre vissuto. I vicini di casa, che vedevano da un paio di giorni l’uscio sempre chiuso, si erano insospettiti ed avevano dato l’allarme. I volontari della Misericordia, che sono andati a prelevarlo per provvedere alle esequie, lo hanno trovato completamente vestito ed infilato nel suo letto sotto una montagna di coperte. I suoi scarponi erano allineati davanti al letto e sul tavolo c’erano ancora gli avanzi della sua ultima cena di un paio di giorni prima: un pezzetto di pane, qualche oliva, una buccia di formaggio, una mezza cipolla, un bicchiere con residui di vino. Gli stessi volontari, mentre cercavano di raddrizzarlo per sistemarlo nella bara, hanno trovato in una tasca interna della sua giacca, strettamente legato con uno spago, un libretto di risparmio postale al portatore. Su di esso risultavano depositati 112.342,26 Euro a nome e per conto di Ierardi Francesco, nato a Mesoraca il 15 Gennaio 1911.
Ezio Scaramuzzino