domenica 26 giugno 2011

I giuochi della notte(Racconto) di Ezio Scaramuzzino

   
 
 Al paese, tra i frequentatori abituali del Bar Centrale ai tempi della mia giovinezza, c’era Leonardo Vasa, vigile urbano e sposato con una giovane donna, che quasi nessuno conosceva, tanto egli la teneva segregata a causa della sua gelosia. Giocava con accanimento a Terziglio, tra una pausa e l’altra del suo lavoro, che per altro lo impegnava molto poco, dato che il traffico automobilistico allora era quasi inesistente.
     Ma egli era immancabile soprattutto dopo cena, quando in qualche luogo privato si aprivano dei tavoli da poker.
     Io, che ero il più giovane della compagnia e che, soprattutto, non sempre disponevo dei soldi necessari, spesso mi limitavo ad assistere, osservando con immenso godimento gli sberleffi, gli sfottò, le maledizioni che tutti si scambiavano senza alcun ritegno. Giocavo solo di tanto in tanto, quando si creava un tavolo che mi andasse a genio e che fosse formato da elementi con i quali ritenevo che difficilmente avrei potuto perdere. Tra le mie vittime preferite c’era proprio Leonardo, natura perdente, con il quale si poteva giocare quasi ad occhi chiusi, tanto era facile vincere, ed al quale non disdegnavo di portar via un po’ dei soldi che mensilmente gli passava il Comune di Scandale.
     Solo una volta, a quanto ricordo, Leonardo riuscì a vincere una discreta somma. Era una notte orribile, con un temporale fortissimo che aveva provocato l’allagamento del magazzino nel quale stavamo giocando e che ci aveva costretti, pur di non smettere, ad appoggiare i piedi su degli sgabelli che fuoriuscivano dall’acqua. Quella sera Leonardo stava vincendo, incredibilmente. Non era abituato a vincere ed era convinto di aver trovato il sistema giusto con il conservare provvisoriamente nelle tasche, anziché lasciarle sul tavolo, le fiches più grandi, quelle che valevano diecimila lire l’una. Diceva che così poteva togliersi la iella di dosso, perché non alimentava l’invidia, semplicemente impedendo agli altri di vedere quanto vinceva.
     A fine partita ed a fine temporale ero riuscito a rientrare a casa con qualche difficoltà. Alle otto del mattino dormivo ancora saporitamente, quando mia madre venne ad avvertirmi che c’era di là Leonardo ad attendermi. Mi alzai con qualche imprecazione e lo trovai con due grandi fiches in mano, quelle che noi chiamavamo “tavelloni”: ne pretendeva il pagamento, perché se le era ritrovate in tasca a casa, dopo averle dimenticate la notte precedente a fine partita, senza essere stato pagato. Mi ci volle del buono per fargli capire che le fiches andavano cambiate a fine partita e che ormai era difficile stabilire chi non avesse pagato il suo debito. Leonardo, che era fondamentalmente buono e generoso, si convinse facilmente, ma gli rimase sempre il dubbio che io lo avessi fregato e dopo quell’episodio per un bel po’ di tempo si rifiutò di giocare con me, pur protestando la sua incrollabile amicizia nel miei confronti.
     Altro giocatore immancabile attorno a quei tavoli notturni era Carmine Aiello, allora studente universitario di Medicina, prima a Bari e poi a Milano. Figlio di un ricco proprietario terriero, disponeva di molti soldi, il che gli consentiva un atteggiamento spavaldo e guascone al tavolo da gioco, con forti rilanci che a volte lasciavano di stucco gli altri giocatori. Perdeva e vinceva con molta disinvoltura, senza deprimersi e senza esaltarsi, ma spesso si distraeva, come se seguisse un suo rovello interiore che sembrava trasportarlo lontano dal tavolo da gioco. Carmine sarebbe diventato un valente cardiologo e sarebbe poi morto prematuramente proprio per un infarto. Ricordo che una volta mi rivolsi a lui per un consulto, in un periodo della mia vita in cui temevo che il mio cuore avesse incominciato a fare i capricci. Mi visitò con cura, senza pretendere alcun compenso, e mi disse che il mio cuore non rivelava assolutamente niente di preoccupante. Concluse che potevo stare tranquillo e che tanto più potevo esserlo, in quanto una tale tranquillità potevano darla solo due persone al mondo: lui e Christian Barnard, il cardiochirurgo sudafricano allora famoso in tutto il mondo per i suoi trapianti.
     E poi c’era Salvatore Roma, il più bravo di tutti, autentico terrore al tavolo da gioco. Rilanciava con una sorta di divina indifferenza ed era quasi impossibile coglierlo in bluff. Vinceva quasi sempre e tutti gli riconoscevano, cavallerescamente, una certa superiorità, cosa di cui egli non menava vanto, modestamente ammettendo che forse era solo una questione di fortuna.
     A notte fonda, dopo quelle interminabili partite a poker, spesso eravamo ancora tutti assieme e ci attardavamo nell’ennesimo giro notturno lungo le strade deserte del paese, in attesa che il primo di noi prendesse la via di casa, dando quasi il segnale di ritirata generale a tutti gli altri. In questo girovagare spesso si univano a noi persone occasionali, che magari si trovavano in giro per qualche modesto e innocente traffico notturno. Nessuno disdegnava la nostra compagnia, perché tutti erano sicuri di ritrovarvi il piacere di vivere e nessuno di noi d’altra parte si sognava di protestare per queste innocue invasioni di campo, che servivano ad alimentare il gruppo, annullando ogni differenza di età, sociale o culturale tra di noi. Poi, tutti assieme, ci fermavamo su un muretto basso nei pressi della villetta ed era il momento dei racconti e dei ricordi.
     Era il momento in cui protagonista del gruppo diventava l’avvocato Barca. Gran narratore dei fatti della sua vita, che egli aveva trascorso per lo più a Milano, era capace di attirare l’attenzione di tutti per delle ore, che a volte trascorrevano senza che noi ce ne accorgessimo. Raccontava gran fatti di donne, di carte e di soldi, come un grande attore, e tutti lo ascoltavamo in silenzio. A volte, alla fine della sua recita, lo applaudivamo come a teatro ed egli, come un grande attore, si piegava in un inchino e poi faceva segno di cessare l’applauso, perché aveva qualcos’altro da raccontare. E noi eravamo ancora pronti all’ascolto, in un susseguirsi di racconti e di applausi, che avremmo voluto non finisse mai.
     A volte, specie in estate, quando le finestre delle case attorno erano aperte a causa del caldo, qualcuno era disturbato dal nostro chiasso e soprattutto dai nostri applausi. Capitava spesso che qualcuno si affacciasse, invitandoci in malo modo ad andar via ed a lasciar dormire la gente. Il più delle volte non ci curavamo di queste proteste e continuavamo con quelle nostre abitudini, che ci sembravano le uniche con cui la vita fosse degna di essere vissuta.
     Una sera l’avvocato Barca sembrava più in forma del solito. Quella sera egli aveva dato fondo a tutte le sue risorse e a tutte le sue capacità di fabulatore e di attore, raccontandoci un’avvincente storia di ladri e di furfanti in cui era rimasto coinvolto. Tutti lo stavamo ascoltando in silenzio, ma io, a differenza degli altri, mi trovavo in una posizione più defilata. Ebbi modo di vedere che proprio sulla testa dell’avvocato, ad un balcone al primo piano di una casa, due persone si stavano silenziosamente affacciando, appoggiandosi poi ad una ringhiera. Lì per lì non riuscii a capire il perché di quella improvvisa apparizione. Capii tutto quando improvvisamente, nelle mani di quei due, vidi apparire due giganteschi vasi da notte, il cui contenuto fu rovesciato in un baleno sul gruppo che stava di sotto. Riuscii a gridare, ma non in tempo utile perché gli altri si salvassero. Quei vasi da notte certamente erano stati preparati da più giorni, perché il loro contenuto era talmente abbondante, da provocare gli effetti di uno tsunami. Solo pochi riuscirono a scansarsi in tempo, l’avvocato Barca invece fu colpito in pieno. Ma lui non se ne diede per inteso e, mentre gli escrementi gli pendevano da tutti i lati del volto, come un grande attore consapevole del fatto che lo spettacolo deve comunque continuare, proseguì il suo racconto. La sua maschera tragica e comica nello stesso tempo ci mandò tutti in delirio e alla fine egli raccolse non un applauso, ma un’autentica ovazione.
     Lo aiutammo a ripulirsi almeno in parte e tutti, nessuno escluso, lo riaccompagnammo a casa, come in una specie di trionfo. Ci sentivamo anche noi quella sera compartecipi di un qualche segreto della vita e dell’arte, riservato solo a pochi eletti e da cui erano escluse le persone volgari, specie quelle che, invece di applaudire, svuotavano i vasi da notte sulla testa dei grandi attori.
Ezio Scaramuzzino