sabato 26 novembre 2011

La fine del mondo(Racconto) di Ezio Scaramuzzino




Nella società agricolo-patriarcale di una volta era sufficiente che un buontempone incominciasse a diffondere la voce su una prossima fine del mondo e, nell’arco di pochi giorni, almeno a livello locale, il più era fatto. Molti si preparavano, o facevano finta di prepararsi, ad ogni evenienza, perché tutti gli uomini, chi più chi meno, avevano ed hanno una paura atavica per i novissimi.

Ricordo che al mio paese una delle ricorrenti voci su una prossima fine del mondo aveva fissato tale data alla mezzanotte tra il 14 ed il 15 Novembre del 1952. Non ricordo e non so per quale motivo fosse stata scelta proprio quella data: ero un bambino allora, andavo alle scuole elementari e la mia cognizione dell’evento è legata soprattutto ai ricordi e alle impressioni che me ne derivarono dal mondo degli adulti.

Quella mattina, a scuola, il maestro D’Alfonso notò con rammarico che mancavano parecchi alunni: era un Venerdì e la classe era più che dimezzata. Facemmo poco a scuola e il maestro ci fece notare che era una bella giornata autunnale, con un sole tiepido che indorava e riscaldava le fredde aule. In effetti non si avvertiva nemmeno la necessità di utilizzare la stufa a carbonella, che già da qualche giorno accendevamo per riscaldare le nostre mani e cercare di prevenire la sofferenza dei geloni che allora colpivano e tormentavano indistintamente tutti i bambini.

Verso le dieci il sole si nascose dietro una nuvola solitaria, ma non ci si fece caso più di tanto. Qualcuno notò che improvvisamente si era alzato il vento, ma anche questo fu considerato un fatto normale. Dopo un po’ altre nuvole nere coprirono il cielo, che ne fu completamente oscurato. Sembrava che dovesse piovere da un momento all’altro, ma caddero soltanto alcune gocce. I bambini eravamo un po’ preoccupati, ma anche contenti all’idea che in quelle circostanze difficilmente il maestro potesse assegnarci dei compiti, o, peggio, farci svolgere uno dei temutissimi esercizi di Analisi logica o di Aritmetica. Verso le undici però, all’improvviso, una strana luce giallognola riempì la nostra aula a pianterreno, una delle tante aule disseminate per il paese, al posto dell’edificio scolastico unico ancora considerato un lusso in quei tempi di ristrettezze. Un oh di meraviglia uscì dalla bocca di tutti noi, che istintivamente ci precipitammo alla finestra per cercare di capire l’origine di quella strana luce, mentre il maestro cercava inutilmente di farci ritornare ai nostri posti.

Il maestro D’Alfonso, il mitico maestro D’Alfonso, terrore degli alunni e al quale va la mia riconoscenza, per le tante cose che ho imparato sotto la sua guida. Quel giorno si arrese anche lui: cercò di tenerci calmi, di farci capire che quella strana luce gialla non era né tanto strana, né tanto gialla, ma fu tutto inutile. Avevamo paura. Dai discorsi degli adulti avevamo anche noi percepito qualcosa sulla imminente fine del mondo ed avevamo paura. Dopo un po’ alcune mamme si presentarono in classe per prelevare i figli ed il maestro non si oppose, anzi verso mezzogiorno decise di mandare tutti a casa e raccomandò ai pochi che eravamo rimasti di affrettarci sulla via del ritorno. Presi la mia pesante cartella e di buona lena mi diressi verso casa. Abitavo all’altro capo del paese e fui costretto ad attraversarlo quasi per intero.

Ad un crocicchio, all’uscita di una cantina, vidi Ciccio Larino, il più famoso ubriacone del paese. Zigzagava paurosamente, mentre la moglie cercava di tenerlo in piedi e di riportarlo a casa. Quel giorno Ciccio, per ubriacarsi, non aveva aspettato la sera, come era solito fare: aveva anticipato i tempi, nella paura che l’imminente fine del mondo potesse impedirgli l’ultima grande bevuta della sua vita. Mentre la moglie lo risospingeva verso casa, egli protestava ad alta voce, blaterando frasi sconnesse nelle quali si potevano distinguere solo alcune parole, “fine del mondo…ultima…ultima volta…mai più”.

Più in là incontrai Sandrino, un giovane buono e sempliciotto, con il quale ogni tanto mi intrattenevo, divertendomi anche a prenderlo in giro. Mi chiese dove fossi diretto così di fretta, perché tanto stava per arrivare la fine del mondo e saremmo morti tutti. Gli dissi che doveva cercare un riparo, che doveva mettersi in salvo. E lui, con il suo dire lento e strascicato, mi replicò:” Sì… sì, te la sai tu…vai, vai tu, che sei valente…Io non mi muovo. Se non c’è rimedio, perché preoccuparsi?... E se poi il rimedio c’è, perché preoccuparsi?”.

Il suo discorso forse non faceva una grinza, ma io avevo fretta di arrivare a casa e lo piantai in asso. Feci in tempo a vedere Mario Panza, tutto indaffarato a bussare alle porte dei vicini ed a chiedere notizie della figlia Luigina, che già allora aveva preso l’abitudine di sparire ogni tanto. Da lontano vidi mia madre che mi veniva incontro, mentre continue folate di vento le scompigliavano i capelli e lo scialle che teneva addosso. A casa trovai uno strano fermento. Franca, la donna di servizio che viveva con noi, mi abbracciò con trasporto e mi disse: “Zinnì,(così mi chiamava), non aver paura, ché ci sono io”. Ero il più piccolo di casa e forse proprio per questo ero trattato dagli altri con particolare affetto. I miei fratelli intanto guardavano all’insù attraverso i vetri della finestra e cercavano anche loro di capire il perché di quello strano chiarore giallastro.

Si pranzò di malavoglia quel giorno anche perché i nostri pensieri, se anche nessuno era disposto ad ammetterlo, erano tutti rivolti a quella benedetta o maledetta fine del mondo che sembrava preannunziarsi in modo cosi sinistro. Passarono le ore e solo dopo il tramonto quel chiarore giallastro si dissolse per lasciare il posto alle prime ombre della sera. Per le strade non si vedeva nessuno, perché tutti erano tappati in casa ad aspettare la mezzanotte. Anche gli animali erano partecipi della comune paura e sembravano spariti. Fritz, il nostro indimenticato e meraviglioso cane Fritz, se ne stava tutto mogio in un angolo, accanto al caminetto, e mugolava pietosamente. A sera mio padre, nel frattempo ritiratosi dalla campagna, cercò di risollevare inutilmente l’atmosfera triste che aleggiava intorno e durante la cena si consentì qualche battuta spiritosa, ma tutti i suoi tentativi caddero nel vuoto.

Si erano fatte le otto, poi le nove: mancavano solo tre ore alla fine del mondo. Tutt’intorno c’era un silenzio assoluto, interrotto soltanto dal sibilo del vento, che continuava a soffiare. Ad un certo punto si avvertì sulla strada un tramestio di passi, come di gente che si dirigesse in fretta da qualche parte. Mia madre si affacciò sulla porta per avere notizie, per capirci qualcosa, e delle donne in gruppo, con la corona del Rosario in mano, la invitarono ad andare con loro verso la piazza principale del paese, di fronte alla Chiesa madre. Quando mia madre ci comunicò la notizia, fu solo un attimo. Tutti, come se non aspettassimo altro, in fretta uscimmo di casa e, senza neppure richiudere l’uscio, ci accodammo. Man mano che avanzavamo, le file si ingrossavano e, quando arrivammo in piazza, ci si presentò davanti agli occhi uno spettacolo incredibile.

Centinaia di donne pregavano ad alta voce, imploravano la Madonna, piangevano. Uomini, che forse non avevano mai pregato in vita loro, in quelle ore si battevano il petto e recitavano il Rosario. Persone, che si erano sempre odiate nel corso della loro esistenza, stavano le une accanto alle altre, accomunate da un’unica paura e da un’unica speranza. Inimicizie secolari si erano improvvisamente dissolte. Ma non mancavano persone, per lo più uomini, che in un angolo della piazza pensavano a ben altre cose. Costoro avevano apparecchiato dei tavoli, ammonticchiandovi cibarie di ogni genere: vino, salsicce, soppressate, capicolli, formaggio pecorino, frutta. Molti, tra una preghiera e l’altra, andavano a rifocillarsi e tanti altri davano fondo alle loro capacità masticatorie per quella che, con tutta evidenza, consideravano l’ultima mangiata e l’ultima bevuta della loro vita.Verso le undici molti erano già avvinazzati e non mancavano di quelli che, ormai satolli ed incapaci di ingurgitare altro, si erano pure appisolati. La confusione, il tramestio, le voci biascicate, imploranti e preganti, le urla qualche volta, sembravano aver creato un’atmosfera da bolgia dantesca, ma, quando si appressò la mezzanotte, improvvisamente un silenzio spettrale ricoprì la piazza.

L’orologio della chiesa incominciò a battere i rintocchi. Uno, due, tre. Al sesto rintocco una voce solitaria implorò, gridando, il perdono di Dio. Sette, otto, nove, dieci, undici…dodici. Non era accaduto niente. Eravamo tutti lì a constatare che il mondo continuava come prima. Tutti piansero, gridarono, gioirono, si abbracciarono. Donne, che in vita loro non avevano mai baciato altro uomo, che non fosse il loro marito, si trovarono intrecciate e scambiarono baci con sconosciuti, con gente del popolo, con giovani invasati. Qualcun altro tirò fuori una fisarmonica e quelle stesse persone, che fino a poco prima si erano battute il petto ed avevano implorato la pietà divina, ora ballavano e si facevano trascinare dai ritmi giocosi di una tarantella.

Si ballò e si cantò a lungo quella notte, fino all’alba, mi pare di ricordare. Ricordo bene comunque, ed in maniera nitida, che il giorno successivo non si andò a scuola. Il mondo aveva rischiato di scomparire e, di fronte ad un fatto del genere, il maestro D’Alfonso poteva pure aspettare. La vita sarebbe continuata lo stesso ed avrebbe conservato il suo fascino, anche con qualche esercizio in meno di Analisi logica o di Aritmetica.

Ezio Scaramuzzino

Quei poveri studenti ostaggio del test misura-ignoranza di Giorgio Israel

Ho sotto gli occhi un quiz volto ad addestrare gli studenti all’analisi dei testi letterari a scuola. È un esempio tra i tantissimi, rappresentativo di una tendenza generale.
Si elencano cinque verbi che indicherebbero tutti un «modo di ridere», ovvero un unico stato psicologico che si differenzia soltanto per intensità: 1. Sbellicarsi dalle risate; 2. Sorridere; 3. Ridacchiare; 4. Ridere; 5. Sghignazzare. Si chiede di metterli in «ordine crescente di intensità». La risposta è: 2, 3, 4, 5, 1. In tal modo l’alunno acquisirebbe la «competenza» di distinguere le «sfumature di significato».

Il dramma è che esista la necessità di spiegare perché sia profondamente idiota ritenere che queste cinque manifestazioni siano differenziazioni di intensità di un unico stato psicologico. Chi ha proposto questo quiz evidentemente non ha mai sentito parlare di un «sorriso amaro», di un «sorriso di simpatia», di un «sorriso ironico», e anche di un «triste sorriso». Nessuna relazione necessaria col ridere che, a sua volta, può esprimere tante cose: allegria conviviale, una reazione al comico ma anche sarcasmo, derisione. E se forse quest’ultimo atteggiamento ha qualcosa a che fare con lo sghignazzare, anche lo sghignazzare ricopre una gran varietà di atteggiamenti specifici. Forse soltanto lo sbellicarsi dalle risate può essere considerato un’intensificazione del ridere; non certamente il ridere un’intensificazione del ridacchiare.

Fermiamoci qui per chiederci quali giovani s’intende formare con un simile avvilente appiattimento della ricchezza del linguaggio che trasforma l’interpretazione dei testi nella compilazione di ordinamenti numerici che in me, matematico, suscita un moto di antipatia per l’aritmetica. La risposta è: macchine rincretinite. E si noti che l’esempio proposto non è isolato, bensì tipico.

Nei test Invalsi proposti ai licei si usava un brano di un racconto di Mario Rigoni Stern, in cui una ragazza cadeva sugli sci davanti a un soldato, che la risollevava e poi le chiedeva scusa mentre lei riprendeva la discesa «indispettita e crucciata», come dirà dopo, «arrabbiata per quella stupida caduta». Perché - chiede il quiz - la ragazza se ne va senza dire grazie? Mettere la crocetta su una di queste risposte: A. È seccata dall’invadenza del militare; B. Si vergogna del proprio aspetto; C. È irritata con se stessa per essere caduta; D. Si è fatta male cadendo. Mettiamo la crocetta su C? E perché non anche su A, e non anche un poco su B? Perché il suo stato psicologico non può essere visto come una miscela dei tre e anche di qualcos altro? Quale competenza misura un test del genere a risposta chiusa? Nessuna. Chi ha risposto in maniera «esatta» può essere un perfetto imbecille mentre chi non trova una sola risposta può essere la persona più capace di cogliere la ricchezza e l’ambiguità dell’analisi psicologica proposta da un testo letterario di autentico valore.

Del resto, quando l’uso dei test travalica la verifica di semplici capacità minimali - ortografia, regole grammaticali di base, capacità di far di conto - è inevitabile che si cada in queste miserie.
Risalta in modo evidente come, nel discorso programmatico del presidente del Consiglio, mentre anche sulle scelte più rilevanti in materia economica si sia mantenuta una notevole dose di ambiguità e di approssimazione, su un punto soltanto è stato fornito un riferimento preciso: sull’uso dei test Invalsi per «identificare i fabbisogni» scolastici, identificare le «aree in ritardo» (rispetto a che?), al fine generale di accrescere «i livelli d’istruzione della forza lavoro» e per «valorizzare il capitale umano». Non si dica poi che il sospetto di tecnocrazia è malizioso. Per una scuola che sta perdendo l’anima - declinando sempre più verso lo stato di carrozzone tormentato dal dirigismo burocratico in cui le ultime preoccupazioni sono la cultura, i contenuti, la dignità dell’insegnante e la formazione di soggetti consapevoli e motivati - non si trova di meglio che parlare di «test», nella cornice di un linguaggio economicista, a base di «capitale umano», «forza lavoro», «fabbisogni» e «aree in ritardo»? Invece di capire che ciò di cui ha bisogno l’istruzione è soprattutto la motivazione profonda e la restituzione del «senso» della propria missione? Davvero malinconico.

21 novembre 2011

giovedì 10 novembre 2011

Dieci lire per Ciccillo (Racconto) di Ezio Scaramuzzino

Ciccillo partiva da Mesoraca verso l’alba, per poter arrivare di primo mattino in uno dei paesi del Marchesato. Ma la sua meta preferita era Scandale, che egli visitava almeno una volta al mese. Viaggiava a piedi Ciccillo, un po’ perché allora i mezzi di comunicazione erano scarsi, ma anche perché, se pure ci fossero stati, egli non aveva i soldi per pagarsi un biglietto e, se anche li avesse avuti, avrebbe certamente preferito risparmarseli, evitando un viaggio in autobus, che considerava decisamente un lusso riservato a ben altre persone. Nel viaggio egli percorreva scorciatoie e sentieri che conosceva bene e solo di tanto in tanto, nei brevi tratti in cui si trovava su una strada pubblica, si azzardava a chiedere un passaggio a qualche contadino alla guida di un carretto.

Quando il passaggio gli veniva accordato, montava in fretta e faceva la prima sosta al bivio Lenza, dove una sorta di osteria a buon mercato costituiva una prima tappa obbligata per tutti coloro che si trovassero ad attraversare quelle strade. Qui Ciccillo non perdeva tempo. Si dava un’occhiata intorno e, se erano presenti almeno due o tre persone, saliva subito su una sedia, richiamava l’attenzione dei presenti e incominciava a recitare filastrocche e scioglilingua che solo lui conosceva.

Alla fine della recita scendeva dal suo piedistallo e chiedeva dieci lire. “M’e ‘ddu’ dece lire?”, diceva, non con l’aria di chi chiede l’elemosina, ma con l’atteggiamento di chi chiede il giusto compenso per un’ esibizione artistica.

Poi, se gli era possibile, proseguiva il viaggio sul carretto e verso le otto era in paese. Si fermava anche qui in un’osteria, si faceva offrire un bicchiere di vino, quasi a voler ritemprare le forze, e poi andava incontro al suo pubblico. La notizia del suo arrivo si diffondeva in un attimo. “E’ arrivato Ciccilluzzo”, si dicevano tutti. C’erano centinaia di Ciccilli nella zona, ma Ciccilluzzo era solo lui, unico ed inconfondibile.

Ciccillo avanzava, nella strada principale del paese, alla testa di un corteo formato per lo più da monelli, che durante tutto il tragitto lo spernacchiavano e lo tormentavano crudelmente, tirandogli dietro ciottoli, tirandolo per la giacca o facendogli lo sgambetto per cercare di farlo cadere. Tra quei monelli allora c’ero anche io.

Ma Ciccillo era impavido: resisteva ad ogni offensiva e, un po’ barcollando, un po’ zigzagando per evitare le trappole, riusciva a raggiungere la sua meta, che poi era la piazza principale del paese. Qui qualcuno andava a prendere una sedia, alla quale Ciccillo si avvicinava facendosi largo tra la folla sghignazzante. Una volta salito, egli dava fondo alle sue qualità di attore, recitando il meglio del suo repertorio.

La gente non lesinava gli applausi e si infervorava sempre di più. L’attore, da quella sedia che costituiva il suo palcoscenico, assecondava gli umori del pubblico e non si faceva pregare nel soddisfare le richieste. Ciccillo si accalorava, gesticolava, sudava, parlava, straparlava, ma immancabilmente, prima o poi, in un modo o nell’altro, arrivava a quello che era unanimemente considerato il suo pezzo forte, il suo cavallo di battaglia, il suo capolavoro.

Quando lui stesso preannunziava che stava per eseguire "A fimmina culinuda", la gente improvvisamente rimaneva zitta, perché non una parola doveva essere persa. In questo silenzio Ciccillo prima si rischiarava la voce, poi si dava una manata sulla coscia, come per darsi il tempo, ed infine attaccava, su un ritmo di tarantella, una specie di strambotto.


E quant’ è bella ‘a fimmina culinuda,
parà ‘na casa senza ceramidi,
ammenz’’i gambi cià ‘na grutta scura,
ci guardi cu ricriu e nu ci vidi.

E quant’ è bellu l’ominu culinudu,
parà ra casa di nu cavaleru,
ammenz’’i gambii tena ‘n’armatura,
fa strazi di li fimmini chi vida.


Alla fine della recita la folla andava immancabilmente in delirio. Ciccillo dal suo palcoscenico ringraziava con un inchino, stando ben attento a non ruzzolare, e poi chiedeva dieci lire ad ogni persona di buon cuore del gentile pubblico. Qualche carogna gli rispondeva con il lancio di ortaggi, ma non mancavano quelli che le dieci lire gliele davano davvero, anche se si divertivano a lanciargliele sulla testa. Ciccillo non si perdeva d’animo: si piegava per terra e si intrufolava tra le gambe della gente per raccogliere quelle sudatissime offerte.

Durante la mia infanzia, non c’era ancora la televisione, del cinema si sentiva solo parlare e gli unici divertimenti possibili erano quelli procurati da qualche scassatissimo circo equestre di passaggio e da qualche compagnia di attori girovaghi napoletani, oppure quelli offerti da Ciccillo. Ma il circo e gli attori girovaghi capitavano una volta ogni tanto, mentre Ciccillo era quasi un ospite fisso nella vita lenta e sonnacchiosa del paese.

Passarono gli anni, tanti anni. In una calda Domenica di Giugno, mi ritrovai con alcuni amici a San Mauro Marchesato, in occasione della festa della Madonna del Soccorso, una delle più importanti e famose tra le tante feste religiose del circondario. Da Scandale eravamo andati a piedi, tanto era breve la distanza, e ci eravamo ritrovati davanti al santuario nel momento culminante delle celebrazioni. Il grande quadro con l’effigie della Madonna aveva appena iniziato il suo giro attraverso le strade del paese e, quando la folla cessò di sfilare, notai che ai due lati del portone d’ingresso del santuario due ciechi erano fermi a chiedere l’elemosina.

Uno dei due era di corporatura robusta, aveva occhiali neri, un cartello appeso al petto con la scritta "Cieco di guerra", un bastone nella mano destra, un cappello nella mano sinistra e chiedeva la carità con voce lamentosa e strascicata. L’altro, più gracile ed apparentemente più vecchio del primo, si limitava a protendere silenziosamente un piattino, sperando nella generosità dei passanti. Non aveva occhiali ed era possibile vedere che dalle sue orbite fuoriusciva un liquido giallastro, rappreso all’altezza degli zigomi.

La mia attenzione fu richiamata in particolare dal fatto che il primo cieco mal sopportava la presenza del secondo e lo invitava continuamente ad andarsene o almeno a spostarsi un po’ più lontano. Il secondo però oltre che cieco doveva essere anche sordo, perché proprio non ci sentiva da quell’orecchio e continuava imperterrito, senza profferire parola, a tenere il braccio teso con il piattino.

Ma fu un attimo: il primo cieco, che poi tanto cieco non doveva essere, prese una breve rincorsa, roteò il suo bastone e assestò con precisione una legnata sulla testa del rivale. Il quale barcollò un attimo e poi cadde per terra, mentre l’aggressore se la svignava, approfittando della ressa e della confusione.

Fui il primo ad accorrere ed a prestare soccorso al malcapitato. Riuscii anche a superare la mia istintiva repulsione per quel liquido giallastro che gli colava sul volto e lo sorressi, riuscendo a risollevarlo e a rimetterlo in piedi, mentre altre persone assistevano o collaboravano in qualche modo all’opera caritatevole. Egli si lamentava flebilmente per il colpo ricevuto e cercava di toccarsi con la mano una ficozza bluastra che già incominciava ad infiorare la sua testa calva. Mentre lo sorreggevo, vidi che anche sul didietro, lungo la gamba destra, gli colava quella secrezione giallastra che già aveva impiastricciato il suo volto. Notai che da una tasca posteriore penzolava un piccolo contenitore di plastica, che nella caduta si era spezzato in due e lasciava fuoriuscire qualcosa che con tutta evidenza si presentava come un miscuglio liquido di uova strapazzate. Poi mi soffermai a guardare bene il volto di quel “cieco” ed ebbi la netta impressione di averlo già visto da qualche parte, forse anche di conoscerlo.

Cercavo di far luce nella mia memoria, di ricordare dove e come l’avessi conosciuto, quando egli incominciò ad articolare le sue prime parole dopo la caduta e disse con chiarezza:“M’e ‘ddu’ dece lire?”. Era lui, era Ciccillo, invecchiato, malconcio, ancora più a mal partito rispetto a tanti anni prima, ma era lui, decisamente.

Erano passati tanti anni da allora, forse trenta. C’era stato il miracolo economico degli anni ’60 e poi c’era stata la crisi degli anni ‘70, che aveva impoverito tanta gente. In seguito c’era stata la ripresa degli anni ’80, la ripresa del periodo di Reagan, tanto per intenderci, ma Ciccillo tutte queste cose non le aveva mai sapute e certamente non le sapeva ancora. Egli continuava imperterrito a chiedere dieci lire, quelle dieci lire con le due spighe da una parte e l’aratro dall’altra, che ormai non venivano nemmeno più coniate ed erano sparite dalla circolazione.

Mi frugai nelle tasche e trovai una moneta di cinquecento lire. Gliela regalai con piacere, un po’ per ringraziarlo, seppur tardivamente, degli spassi che mi aveva procurato quando ero bambino, un po’ anche per chiedergli scusa delle tante afflizioni che gli avevo procurate allora, con gli altri monelli della mia età.

Ciccillo afferrò la moneta con un brusco movimento e si mise ad osservarla con gli occhi sgranati, con quegli stessi occhi che fino a qualche minuto prima egli aveva tenuti ostinatamente chiusi. Poi si allontanò, senza voltarsi, zoppicando leggermente e di tanto in tanto mettendosi una mano sulla ficozza, mentre con l’altra mano teneva stretto il suo piccolo tesoro.

Qualche anno fa, nel suo paese di origine, Ciccillo è morto durante una freddissima notte di Dicembre all’età di circa novanta anni. E’ morto in perfetta solitudine, come in perfetta solitudine era sempre vissuto. I vicini di casa, che vedevano da un paio di giorni l’uscio sempre chiuso, si erano insospettiti ed avevano dato l’allarme. I volontari della Misericordia, che sono andati a prelevarlo per provvedere alle esequie, lo hanno trovato completamente vestito ed infilato nel suo letto sotto una montagna di coperte. I suoi scarponi erano allineati davanti al letto e sul tavolo c’erano ancora gli avanzi della sua ultima cena di un paio di giorni prima: un pezzetto di pane, qualche oliva, una buccia di formaggio, una mezza cipolla, un bicchiere con residui di vino. Gli stessi volontari, mentre cercavano di raddrizzarlo per sistemarlo nella bara, hanno trovato in una tasca interna della sua giacca, strettamente legato con uno spago, un libretto di risparmio postale al portatore. Su di esso risultavano depositati 112.342,26 Euro a nome e per conto di Ierardi Francesco, nato a Mesoraca il 15 Gennaio 1911.
Ezio Scaramuzzino

domenica 25 settembre 2011

Polvere di stelle (Racconto) di Ezio Scaramuzzino

Renato Castellani

Un giorno di Aprile dei primi anni sessanta, qualcuno al Bar Centrale diede la notizia che entro qualche mese, a Scandale, sarebbe stato girato un film, Il brigante. Si trattava di un film sull’occupazione delle terre nell’immediato secondo dopoguerra, tratto da un bel romanzo di Giuseppe Berto.
L’attesa era spasmodica e ai primi di Giugno arrivarono i camion con le attrezzature, arrivarono i tecnici e soprattutto arrivò il regista del quale tanto si parlava, il famoso Renato Castellani, e poi gli attori protagonisti, Adelmo Di Fraia e Serena Vergano, due giovani promesse di cui si raccontavano mirabilia. Di Castellani già allora si diceva che fosse omosessuale, cosa non infrequente nel mondo del cinema, e qualcuno dava per sicuro che il giovane attore protagonista fosse il suo amante segreto, il che solleticava ulteriormente la curiosità della gente. Aiuto regista era un giovane con i baffetti, che calzava sempre degli stivali, con qualunque tempo, un certo Eriprando Visconti, del tutto sconosciuto, ma che ai più informati evocava il nome del grande Luchino Visconti, del quale in effetti il giovane era nipote, come si venne a sapere subito.
In una piazza fu allestito il set e la vita del piccolo paese fu sconvolta: c’era da passare il tempo e inoltre, cosa che non guastava, c’era da guadagnare qualche soldino, che avrebbe fatto comodo alle nostre tasche in perenne crisi di astinenza. La produzione, a quel che si diceva, pagava bene e molti venivano sottoposti a provini per qualche particina secondaria o, in alternativa, per le scene di massa, che si preannunziavano spettacolari e numerose.
L’anno scolastico intanto era giunto al termine ed anche io mi preparavo a lasciarmi coinvolgere da quell’avventura. L’incipiente consumismo non costringeva ancora la gente a partire per le vacanze e, se qualcuno aveva voglia di un po’ di mare, si limitava a scendere a Crotone per mezza giornata e a sistemare un ombrellone su un tratto di spiaggia libera. Il film si preannunziava come un interessante ed elettrizzante diversivo in un’estate che non sarebbe quindi trascorsa come tutte le altre che l’avevano preceduta.
Per la prima volta nella mia vita potei vedere come si girava un film, conoscere i trucchi del cinema ed assistere dal vivo alle riprese di quelle scene che fino ad allora avevo potuto guardare solo nel chiuso e nel buio di una sala cinematografica. Al mattino, verso le otto, ero già pronto a sistemarmi in una posizione comoda per assistere alle riprese. Conobbi le macchine della pioggia e le macchine del vento, con il lancio di terra davanti alle loro enormi pale per simulare la polvere delle strade. Conobbi il trucco di sistemare dei mortaretti in una traccia sotto terra per simulare i colpi dei mitra e delle pistole. Conobbi l’uso della salsa di pomodoro che simulava il sangue dei morti e dei feriti. Vidi, con mia grande meraviglia, che alcuni attori, quando dovevano dire qualcosa, si limitavano ad elencare dei numeri senza senso, perché il sonoro sarebbe poi stato montato a parte nel chiuso degli studi cinematografici. Assistetti alla ripresa di scene di massa, in cui i contadini del luogo si muovevano seguendo gli ordini impartiti dal regista attraverso un megafono.
Assistetti incantato alle riprese di alcune scene in cui recitava la giovane attrice protagonista, che interpretava il ruolo della donna del brigante, destinata a morire tragicamente nello scontro a fuoco finale con i carabinieri. Quella giovane attrice a me sembrava particolarmente brava e bella e per qualche tempo essa alimentò i miei sogni di adolescente. Immaginai di poter recitare anche io e per qualche tempo sperai che la fortuna, o il caso, mi consentisse di dire almeno qualche battuta davanti alla macchina da presa accanto a lei. Decisi di sottopormi a dei provini, ma fui inesorabilmente scartato, con mio grande rammarico.
Miglior fortuna riusciva ad avere nel frattempo il sarto Giovanni Parrilla, mio amico anche se alquanto più grande di me, che aveva avuto qualche esperienza di lavoro nella sartoria del Teatro alla Scala di Milano e che già da qualche tempo, per motivi di salute, era ritornato al paese, dove aveva aperto una sua bottega artigiana. Nei primi giorni di lavorazione si era offerto di collaborare con le maestranze e, richiesto di qualche ritocco ai costumi di scena, aveva saputo farsi apprezzare, tanto che il regista a un certo punto gli chiese di creare un intero costume da contadina, da far indossare alla protagonista nell’ultima e drammatica scena del film.
Un giorno Giovanni mi informò, quasi senza riuscire a contenersi per la gioia, che l’indomani Serena Vergano sarebbe venuta nella sua bottega per delle prove e per le misure del costume che lui avrebbe dovuto creare. Lo pregai, lo implorai quasi di farmi partecipare all’evento in qualche modo e lui, in nome della vecchia amicizia, mi assunse seduta stante come semplice aiutante, fornendomi le necessarie ed indispensabili istruzioni.
Il giorno dopo la Vergano, accompagnata da Renato Castellani, verso mezzogiorno faceva il suo ingresso nella bottega artigiana del mio amico. L’attrice, che era una ragazza piuttosto semplice e con atteggiamenti tutt’altro che da diva, non si perse in preamboli e, seguendo le istruzioni del regista, si spogliò subito, rimanendo in sottoveste.
Io avevo l’incarico di avvolgerle le spalle con degli scampoli di velluto, fino alla scelta di quello definitivo, che, su indicazione del sarto, il quale osservava un po’ discosto , avrei dovuto richiudere con una spilla da balia.
Ero emozionato ed un po’ incerto nei movimenti, ma riuscii a nascondere il mio segreto turbamento. Quando sarto e regista concordarono nella scelta della stoffa ed io fui invitato a bloccarla con la spilla, la Vergano, forse per una sua disattenzione, forse per consentire una migliore aderenza della stoffa sulle sue spalle nude, con un gesto improvviso lasciò cadere la sottoveste, che prima sembrò impigliarsi nelle dita della sua mano e poi, scivolando dolcemente lungo i fianchi, andò a posarsi ai suoi piedi, afflosciandosi inerte.
Risollevai lo sguardo, che aveva seguito le evoluzioni della sottoveste, e vidi il petto della ragazza, candidissimo, completamente nudo.
Dovevo richiudere la stoffa con la spilla, ma probabilmente mi misi ad armeggiare con imperizia ed in maniera disarticolata e convulsa. Si sentì solo un grido acutissimo e subito dopo si vide la Vergano coprirsi il seno con una mano, mentre alcune gocce di sangue gocciolavano tra le sue dita.
Mentre Castellani imprecava contro di me, lanciandomi una pedata che mi colpì di striscio, qualcuno provvide a portare di corsa l’attrice dal medico Mauro, che la curò, iniettandole un’antitetanica, disinfettando la ferita e applicandovi una garza e un cerotto.
Qualche giorno dopo si stava girando una scena di massa sotto una pioggia artificiale. C’era molta confusione sul set e Castellani impartiva ordini, gridando in un megafono con la sua vocetta stridula, come fosse spiritato. Mi avvicinai a lui, approfittando della confusione, e mi fermai alle sue spalle. Studiai le sue mosse e, come mi accorsi che stava prendendo la rincorsa per precipitarsi chissà dove, infilai il mio piedino destro in mezzo ai suoi.
Il famoso regista, che era un ometto basso e magro, fece dapprima una capriola su se stesso, riuscendo quasi miracolosamente a rimanere in piedi, ma poi perse definitivamente l’equilibrio, navigò scivolando per un paio di metri in un mare di fango e cadde bocconi, lungo disteso sulla strada.
Chi lo soccorse e lo stesso Castellani, quasi irriconoscibile per il fango limaccioso che gli ricopriva il volto, erano convinti che la caduta fosse da addebitarsi alla concitazione del momento. Io intanto, sgattaiolando tra la gente, riuscivo ad allontanarmi. Mi ero vendicato della mancata assunzione come figurante e, soprattutto, cosa che mi bruciava particolarmente, mi ero vendicato della pedata di qualche giorno prima. Eravamo pari, finalmente, anzi, forse, potevo anche mettere in conto un piccolo, ma significativo vantaggio su di lui.
Ezio Scaramuzzino

mercoledì 17 agosto 2011

La provincia di Crotone

Caro Direttore, mi è capitato l’altra sera di seguire su una TV locale la prima seduta del nuovo consiglio provinciale. Ho sentito le dichiarazioni di tanti personaggi più o meno conosciuti, ne ho tratto un’unica conclusione. E la conclusione è che questi personaggi sono ben lontani dal principio del “primo non nuocere” e che anzi, ripieni di tante “belle intenzioni”, si rivelano in tutta la loro pericolosità. Uno diceva “farò questo”, un altro, al plurale, “faremo questo e quest’altro”: sembrava una gara a chi avrebbe fatto di più e a chi la sparava più grossa.
Il consiglio si è concluso con la sola nomina del suo presidente. Stanislao Zurlo ha rinviato ad altra data la presentazione della giunta e delle dichiarazioni programmatiche. Ora io non ho la pretesa di insegnare niente a nessuno, ma mi farebbe piacere che il neo eletto presidente della giunta tra qualche tempo facesse dichiarazioni più o meno del seguente tenore.
"Cari concittadini di Crotone e della provincia di Crotone, oggi presenterò la giunta che mi assisterà nel lavoro di amministratore che voi, con il vostro voto, mi avete affidato. Ma, prima di procedere alla presentazione della giunta, mi preme fare alcune dichiarazioni che io ritengo della massima importanza. Orbene tengo a dirvi che finora abbiamo scherzato e che proprio per questo non mi va di continuare a prendervi per i fondelli. Voi sapete che la provincia di Crotone ha accumulato negli anni un deficit di qualche milione di Euro che solo lo stato, cioè tutti voi con i vostri soldi, dovrete pagare prima o poi. Unica consolazione è che la provincia di Crotone non è l’unica nel nostro Paese a trovarsi in tali condizioni,ma proprio per questo avverto l’esigenza che qualcuno incominci a dare l’esempio.
Per questo motivo sono qui ad annunziarvi che intendiamo procedere all’abolizione, per quanto dipende da noi, non della Provincia di Crotone,ma dell’assemblea provinciale di Crotone, pur consapevoli del fatto che l’abolizione di tali enti intermedi richiede un non facile processo di revisione costituzionale. Nel frattempo, potrà sembrarvi strano ma è così, noi come giunta e come singoli consiglieri provinciali non potremo rinunziare alle nostre indennità. Tali indennità saranno però ridotte al minimo previsto dalla legge, in attesa di studiare una soluzione che ne consenta la totale abolizione.
Inutile dirvi che paralizzare l’attività del consiglio provinciale e della giunta non comporterà danni per la popolazione, anche perché siamo convinti del fatto che in certe circostanze meno si opera, meno danni si procurano. Già adesso la legge prevede per i consigli provinciali pochi settori di competenza. In poche parole oggi tali enti provvedono solo a riparazioni varie in qualche istituto scolastico superiore(non in tutte le scuole);provvedono poi alla sistemazione delle pochissime strade provinciali esistenti e di qualche mulattiera;provvedono alla gestione del mercato del lavoro(che non c’è) ;provvedono a istituire e finanziare qualche sagra;provvedono infine ad assegnare consulenze, ad affidare incarichi fantasma, a creare clientele.
Come ben vedete, i pochi compiti utili possono benissimo essere affidati alle amministrazioni comunali, senza creare alcun disagio, se non alla categoria dei parassiti,ed anzi contribuendo alla semplificazione amministrativa e contribuendo in modo significativo alla riduzione di quel deficit, che,non mi stanco di ripeterlo, prima o poi voi dovrete pagare con i vostri soldi.
In conseguenza di quanto detto, comunico che la giunta sarà composta da soli tre assessori, oltre al presidente che vi parla. Il primo avrà il compito di provvedere alla normale amministrazione, il secondo avrà l’esclusivo compito di controllare e possibilmente ridurre il deficit di bilancio, il terzo avrà il compito di provvedere alla liquidazione del consiglio provinciale, avvalendosi di quanto la legge attualmente consente e nei limiti da essa previsti.
Tanto abbiamo deciso a livello di maggioranza . Confido che anche l’opposizione,dopo le necessarie riflessioni, possa essere d’accordo."
Caro Direttore, sentiremo mai un politico nel nostro Paese esprimersi così?
Da Il Crotonese del 19/07/2009 
 Ezio Scaramuzzino

mercoledì 3 agosto 2011

Mistica follia(Racconto) di Ezio Scaramuzzino

        
        Al paese si cominciò a mormorare che la figlia del Maestro s’era “chiusa”, nel senso che era entrata in un convento per diventare suora. Ma come era possibile? Era la più bella delle sei figlie, la più istruita e corteggiata. Probabilmente aveva avuto una delusione d’amore e voleva così rompere ogni legame con il passato. E invece no, semplicemente, seppur nella confusione della grande casa che accoglieva la famiglia Fioravanti, la tenera Agnese, nel silenzio della sua anima, in una notte di un Gennaio particolarmente rigido aveva udito un richiamo chiaro e perentorio che non le lasciava scampo.
        Così partì per un convento di Crotone, abbandonando senza rimpianti una vita felice e spensierata, una famiglia che l’amava e che l’aveva custodita e protetta soprattutto da lei stessa, dal suo animo ingenuo e puro. Agnese fu accolta, per il noviziato, in un convento di suore che si occupavano di bambini sordomuti, ai quali ella si dedicò con tutta l’anima, non facendo neppure caso alle piccole malvagità di cui era spesso fatta bersaglio da parte delle consorelle.
        Il convento si trovava su una collina che dominava la spianata di Capocolonna e da alcuni punti, lungo le mura, consentiva di vedere il mare che si stendeva tutt’intorno. Lo sguardo poteva spaziare dalla chiesetta sino al centro abitato della città, poi sul giardino, grande e silenzioso, lindo e profumato della lavanda che le suore raccoglievano d’estate. Le giornate, scandite dalla regolarità della vita religiosa, iniziavano prestissimo con la recita del Mattutino e terminavano altrettanto presto con la Compieta.
        Il vento della Guerra sembrava non raggiungere il convento, salvo che nella ristrettezza del cibo e nel numero sempre maggiore di persone che venivano a bussare in cerca di aiuto. Si intensificavano le preghiere a quel Dio Sposo inspiegabilmente sordo al tetro rombare degli aerei, che venivano a sganciare le loro bombe sempre più di frequente e in posti di giorno in giorno più vicini . Negli ultimi tempi gli aerei avevano intensificato le loro incursioni e capitava di frequente che essi scendessero a bassa quota per mitragliare da vicino la popolazione civile sempre più atterrita.
        I contatti con le famiglie si erano diradati e Suor Agnese, abbandonato l’abito secolare, anche se non aveva ancora preso i voti, si sentiva già parte di quella Comunità che l’aveva accolta. Il suo carattere mite e ligio alle Regole, che imponevano l’assoluta obbedienza, aveva consentito alle sue consorelle di approfittare della sua disponibilità e di chiederle quindi un impegno sempre più grande, nella scuola per i bambini sordomuti e nelle incombenze di tutti i giorni. Chissà se il ciliegio nel giardino della grande casa era già fiorito, chissà se le sorelle ogni tanto pensavano a lei… E la mamma? Così gracile e provata dalla fatica, nelle innumerevoli incombenze della famiglia e del lavoro, come aveva superato l’inverno? Le notizie erano sempre più scarne, ma lei, presa com’era dalla nuova vita, si soffermava solo di rado in queste riflessioni.
        Il cibo scarseggiava sempre di più e la Vocazione, che inizialmente l’aveva fatta decidere al grande passo, in quell’ambiente metodico e chiuso si stava pian piano trasformando in una vera e propria ossessione: le continue privazioni erano da lei esaltate e sublimate in un mistico esercizio di ascesi, l’obbedienza era applicata fino alle estreme conseguenze della sudditanza e della mortificazione, la sofferenza per il freddo delle celle era da lei considerata un’ offerta a Dio in espiazione dei peccati dell’intera umanità. Perfino le consorelle, anche se poco attente, intuirono che una volontà di autoannientamento si stava impadronendo di lei. Ma ormai era troppo tardi.
        Tutto cominciò con un deperimento fisico accompagnato da un repentino cambiamento dello stile di vita, che oggi si sarebbe definito stato depressivo o maniacale religioso e che allora fu invece tragicamente diagnosticato come schizofrenia. E allora Agnese, la bella, la colta, la mite, fu rinchiusa, stavolta non per sua volontà, in un altro mondo, nel mondo dei matti. Durante una fredda mattina di Febbraio, un’auto adattata alla meglio la portò al manicomio di Girifalco.
        Inizialmente lei non riuscì a capire bene né perché si trovasse lì, né per quanto tempo sarebbe stato necessario restarci. In seguito, stordita dai farmaci e dall’elettroshock, ebbe idee ancora più confuse sulla sua condizione. Allora non si faceva molta differenza tra la follia e una sindrome maniacale depressiva: entrambe venivano “curate” con gli stessi sistemi.
        Le persone, addette alla cura dei ricoverati, erano talmente abbrutite dall’ambiente in cui operavano che consideravano normale lavare i malati con acqua gelida o tenerli in ambienti sporchi e malsani. Quando Agnese entrò in manicomio, prima di sprofondare nel limbo provocato dagli psicofarmaci, ebbe il tempo di guardarsi un po’ attorno e di vedere l’anticamera dell’inferno. Il microcosmo del manicomio era separato dal mondo dei “normali” da sbarre, inferriate e chiavistelli, che servivano a contenere ed arginare la furia della forza fisica scaturita dal delirio della mente. Chi era “dentro” perdeva la propria identità, vivendo in un eterno sottofondo di urla e discorsi vaneggianti.
        Intanto a casa, oltre alla preoccupazione per la malattia di Agnese, si doveva far fronte alle spese per il suo ricovero ed ai viaggi per le visite, sempre più difficoltose a causa della guerra. Quando la mamma andava a trovare Agnese, tornava svuotata di ogni energia, non solo per le condizioni in cui trovava la figlia, ma anche per la realtà con la quale veniva a contatto. Giovani donne scarmigliate erano spesso rinchiuse in celle di contenimento per evitare, nei momenti di crisi estrema, che potessero far del male a sé stesse ed agli altri. Donne giovanissime, quasi delle bambine, vivevano lì, dimenticate ed abbandonate dalle famiglie, senza speranza e senza futuro.
        Ma un giorno Agnese guarì, o si credette che fosse guarita. Avvenne quando la superiora del convento andò a trovarla nel manicomio e lei parlò lucidamente della sua malattia e dei problemi che questa le aveva procurato. La superiora si convinse che l’ammalata non era più tale e con il permesso dei medici se la riportò in convento, dove ripresero anche le visite della madre, di giovedì, come prevedevano le regole .
        Agnese conservava un ricordo confuso di queste visite materne, ma le aspettava con trepidazione e dava segni di irrequietezza, quando le visite tardavano o, qualche volta, saltavano. Nell’attesa, di tanto in tanto, le capitava di sorridere, pregustando la dolcezza di quegli incontri. Un giovedì aspettò inutilmente per tutta la giornata. Ma anche la settimana successiva la giornata trascorse in una vana attesa e così avvenne per un po’ di tempo. Agnese aveva preso a sbiadire ancora di più i suoi ricordi e le precedenti visite della madre, nella sua mente confusa, incominciavano ad assumere le parvenze di un sogno destinato a non più ripetersi. Lei partecipava in maniera discontinua alla vita comune e, quando si trovava sola nella sua cella, talvolta si trascinava stancamente verso una sedia che ne costituiva l’unico arredamento assieme ad un inginocchiatoio.
        Un giorno, mentre stava pregando con un fervore che credeva di avere smarrito ormai da tanto tempo, sentì un cigolio alla porta della cella. Si girò incuriosita e vide che la maniglia girava su se stessa, inspiegabilmente, mentre la porta si apriva, lentamente. Apparve una signora, che lei non aveva mai visto. La sconosciuta avanzò, quasi scivolando, sul pavimento della cella, andò a fermarsi vicino al letto e le fece segno di avvicinarsi. Poi le strinse le mani fredde e Agnese avvertì un tepore che quasi non ricordava più. Le disse che non doveva più aspettare la mamma, perché la sua mamma ormai non c’era più. Poi, sorridendo, ritornò sui suoi passi, silenziosamente, e sparì oltre la porta, che si richiuse con uno scatto sommesso. Lei riprese le sue preghiere e si accorse che lacrime calde stavano rigando il suo volto.
        Qualche mese dopo, durante una delle rare visite a casa concesse dal regolamento, le sorelle ritennero giunto il momento di rivelare ad Agnese la morte della madre. In precedenza, per ovvi motivi di opportunità, avevano deciso di non dirle nulla, né avevano ritenuto di incaricarne qualcuno. Ma lei le precedette, dicendo che sapeva già tutto. Raccontò tutti i particolari di quella morte, ripeté addirittura le ultime parole della madre pochi istanti prima che cessasse di vivere. Le sorelle, sbalordite, non osarono chiedere spiegazioni, convinte che qualcosa di straordinario, quasi di incredibile, si fosse verificato nella loro famiglia. Il giorno dopo, abbracciate le sorelle per l’ultima volta, Agnese ritornò in convento, dal quale non sarebbe ritornata mai più.
        Oggi Agnese riposa nel piccolo cimitero del convento, che dall’alto della collina continua a dominare il paesaggio della spianata di Capocolonna. Il cimitero, posto in un angolo di quel giardino profumato di lavanda, è anche diventato troppo angusto ed ha subito nel corso degli anni varie sistemazioni e riadattamenti. Ma chi volge lo sguardo verso un cespuglio di ginestra, lasciato crescere fino a occuparne un breve tratto, può scorgere, dietro i suoi fiori odorosi, una piccola lapide che fuoriesce dal terreno e che riporta soltanto un nome e due date: Agnese Fioravanti, 1/5/1921 – 11/1/2007.
Ezio Scaramuzzino

giovedì 7 luglio 2011

Cavaliere, addio!

        Spiace dirlo, ma, con il varo dell'ultima manovra finanziaria, l'avventura politica di Berlusconi può considerarsi finita. Un governo che pretendeva di essere liberale e che, per fare cassa, invece di abbattere i costi della politica ed i privilegi della casta, si mette a tosare le pensioni e i risparmi, evidentemente non ha più niente da dire agli Italiani e in particolare non ha più niente da dire nemmeno agli elettori che gli hanno dato il voto. Bastavano Prodi e Visco per portare avanti questo tipo di politica.
        Alla fine dell'avventura, è il caso di riflettere un po' sul pesante bilancio politico, personale e umano del Cavaliere. In tutti questi anni egli è stato sbeffeggiato, svillaneggiato e insultato e non è da escludere che alla fine del suo impegno politico possa ritrovarsi anche depredato, in tutto o in parte, dei suoi averi. Eppure ancora oggi qualcuno dice che egli è entrato in politica per tutelare i suoi interessi. Il fatto poi che ogni tanto egli ci abbia messo del suo e che in varie circostanze egli abbia favorito i suoi nemici con qualche comportamento discutibile, non attenua il senso di amarezza che provano quelli che avevano avuto fiducia in lui.

domenica 26 giugno 2011

I giuochi della notte(Racconto) di Ezio Scaramuzzino

   
 
 Al paese, tra i frequentatori abituali del Bar Centrale ai tempi della mia giovinezza, c’era Leonardo Vasa, vigile urbano e sposato con una giovane donna, che quasi nessuno conosceva, tanto egli la teneva segregata a causa della sua gelosia. Giocava con accanimento a Terziglio, tra una pausa e l’altra del suo lavoro, che per altro lo impegnava molto poco, dato che il traffico automobilistico allora era quasi inesistente.
     Ma egli era immancabile soprattutto dopo cena, quando in qualche luogo privato si aprivano dei tavoli da poker.
     Io, che ero il più giovane della compagnia e che, soprattutto, non sempre disponevo dei soldi necessari, spesso mi limitavo ad assistere, osservando con immenso godimento gli sberleffi, gli sfottò, le maledizioni che tutti si scambiavano senza alcun ritegno. Giocavo solo di tanto in tanto, quando si creava un tavolo che mi andasse a genio e che fosse formato da elementi con i quali ritenevo che difficilmente avrei potuto perdere. Tra le mie vittime preferite c’era proprio Leonardo, natura perdente, con il quale si poteva giocare quasi ad occhi chiusi, tanto era facile vincere, ed al quale non disdegnavo di portar via un po’ dei soldi che mensilmente gli passava il Comune di Scandale.
     Solo una volta, a quanto ricordo, Leonardo riuscì a vincere una discreta somma. Era una notte orribile, con un temporale fortissimo che aveva provocato l’allagamento del magazzino nel quale stavamo giocando e che ci aveva costretti, pur di non smettere, ad appoggiare i piedi su degli sgabelli che fuoriuscivano dall’acqua. Quella sera Leonardo stava vincendo, incredibilmente. Non era abituato a vincere ed era convinto di aver trovato il sistema giusto con il conservare provvisoriamente nelle tasche, anziché lasciarle sul tavolo, le fiches più grandi, quelle che valevano diecimila lire l’una. Diceva che così poteva togliersi la iella di dosso, perché non alimentava l’invidia, semplicemente impedendo agli altri di vedere quanto vinceva.
     A fine partita ed a fine temporale ero riuscito a rientrare a casa con qualche difficoltà. Alle otto del mattino dormivo ancora saporitamente, quando mia madre venne ad avvertirmi che c’era di là Leonardo ad attendermi. Mi alzai con qualche imprecazione e lo trovai con due grandi fiches in mano, quelle che noi chiamavamo “tavelloni”: ne pretendeva il pagamento, perché se le era ritrovate in tasca a casa, dopo averle dimenticate la notte precedente a fine partita, senza essere stato pagato. Mi ci volle del buono per fargli capire che le fiches andavano cambiate a fine partita e che ormai era difficile stabilire chi non avesse pagato il suo debito. Leonardo, che era fondamentalmente buono e generoso, si convinse facilmente, ma gli rimase sempre il dubbio che io lo avessi fregato e dopo quell’episodio per un bel po’ di tempo si rifiutò di giocare con me, pur protestando la sua incrollabile amicizia nel miei confronti.
     Altro giocatore immancabile attorno a quei tavoli notturni era Carmine Aiello, allora studente universitario di Medicina, prima a Bari e poi a Milano. Figlio di un ricco proprietario terriero, disponeva di molti soldi, il che gli consentiva un atteggiamento spavaldo e guascone al tavolo da gioco, con forti rilanci che a volte lasciavano di stucco gli altri giocatori. Perdeva e vinceva con molta disinvoltura, senza deprimersi e senza esaltarsi, ma spesso si distraeva, come se seguisse un suo rovello interiore che sembrava trasportarlo lontano dal tavolo da gioco. Carmine sarebbe diventato un valente cardiologo e sarebbe poi morto prematuramente proprio per un infarto. Ricordo che una volta mi rivolsi a lui per un consulto, in un periodo della mia vita in cui temevo che il mio cuore avesse incominciato a fare i capricci. Mi visitò con cura, senza pretendere alcun compenso, e mi disse che il mio cuore non rivelava assolutamente niente di preoccupante. Concluse che potevo stare tranquillo e che tanto più potevo esserlo, in quanto una tale tranquillità potevano darla solo due persone al mondo: lui e Christian Barnard, il cardiochirurgo sudafricano allora famoso in tutto il mondo per i suoi trapianti.
     E poi c’era Salvatore Roma, il più bravo di tutti, autentico terrore al tavolo da gioco. Rilanciava con una sorta di divina indifferenza ed era quasi impossibile coglierlo in bluff. Vinceva quasi sempre e tutti gli riconoscevano, cavallerescamente, una certa superiorità, cosa di cui egli non menava vanto, modestamente ammettendo che forse era solo una questione di fortuna.
     A notte fonda, dopo quelle interminabili partite a poker, spesso eravamo ancora tutti assieme e ci attardavamo nell’ennesimo giro notturno lungo le strade deserte del paese, in attesa che il primo di noi prendesse la via di casa, dando quasi il segnale di ritirata generale a tutti gli altri. In questo girovagare spesso si univano a noi persone occasionali, che magari si trovavano in giro per qualche modesto e innocente traffico notturno. Nessuno disdegnava la nostra compagnia, perché tutti erano sicuri di ritrovarvi il piacere di vivere e nessuno di noi d’altra parte si sognava di protestare per queste innocue invasioni di campo, che servivano ad alimentare il gruppo, annullando ogni differenza di età, sociale o culturale tra di noi. Poi, tutti assieme, ci fermavamo su un muretto basso nei pressi della villetta ed era il momento dei racconti e dei ricordi.
     Era il momento in cui protagonista del gruppo diventava l’avvocato Barca. Gran narratore dei fatti della sua vita, che egli aveva trascorso per lo più a Milano, era capace di attirare l’attenzione di tutti per delle ore, che a volte trascorrevano senza che noi ce ne accorgessimo. Raccontava gran fatti di donne, di carte e di soldi, come un grande attore, e tutti lo ascoltavamo in silenzio. A volte, alla fine della sua recita, lo applaudivamo come a teatro ed egli, come un grande attore, si piegava in un inchino e poi faceva segno di cessare l’applauso, perché aveva qualcos’altro da raccontare. E noi eravamo ancora pronti all’ascolto, in un susseguirsi di racconti e di applausi, che avremmo voluto non finisse mai.
     A volte, specie in estate, quando le finestre delle case attorno erano aperte a causa del caldo, qualcuno era disturbato dal nostro chiasso e soprattutto dai nostri applausi. Capitava spesso che qualcuno si affacciasse, invitandoci in malo modo ad andar via ed a lasciar dormire la gente. Il più delle volte non ci curavamo di queste proteste e continuavamo con quelle nostre abitudini, che ci sembravano le uniche con cui la vita fosse degna di essere vissuta.
     Una sera l’avvocato Barca sembrava più in forma del solito. Quella sera egli aveva dato fondo a tutte le sue risorse e a tutte le sue capacità di fabulatore e di attore, raccontandoci un’avvincente storia di ladri e di furfanti in cui era rimasto coinvolto. Tutti lo stavamo ascoltando in silenzio, ma io, a differenza degli altri, mi trovavo in una posizione più defilata. Ebbi modo di vedere che proprio sulla testa dell’avvocato, ad un balcone al primo piano di una casa, due persone si stavano silenziosamente affacciando, appoggiandosi poi ad una ringhiera. Lì per lì non riuscii a capire il perché di quella improvvisa apparizione. Capii tutto quando improvvisamente, nelle mani di quei due, vidi apparire due giganteschi vasi da notte, il cui contenuto fu rovesciato in un baleno sul gruppo che stava di sotto. Riuscii a gridare, ma non in tempo utile perché gli altri si salvassero. Quei vasi da notte certamente erano stati preparati da più giorni, perché il loro contenuto era talmente abbondante, da provocare gli effetti di uno tsunami. Solo pochi riuscirono a scansarsi in tempo, l’avvocato Barca invece fu colpito in pieno. Ma lui non se ne diede per inteso e, mentre gli escrementi gli pendevano da tutti i lati del volto, come un grande attore consapevole del fatto che lo spettacolo deve comunque continuare, proseguì il suo racconto. La sua maschera tragica e comica nello stesso tempo ci mandò tutti in delirio e alla fine egli raccolse non un applauso, ma un’autentica ovazione.
     Lo aiutammo a ripulirsi almeno in parte e tutti, nessuno escluso, lo riaccompagnammo a casa, come in una specie di trionfo. Ci sentivamo anche noi quella sera compartecipi di un qualche segreto della vita e dell’arte, riservato solo a pochi eletti e da cui erano escluse le persone volgari, specie quelle che, invece di applaudire, svuotavano i vasi da notte sulla testa dei grandi attori.
Ezio Scaramuzzino

domenica 22 maggio 2011

La valigia dei miei sogni(Racconto) di Ezio Scaramuzzino



      Chi oggi si trova ad affrontare la strada che lungo la Sila porta da Crotone a Cosenza, se volge lo sguardo sulle fiancate dei ponti che collegano i vari tratti, può vedervi scritto a caratteri giganteschi CIDONIO SPA. Quel nome non è per me senza rilievo e talora mi induce, quando mi ritrovo a guidare su quei tornanti, a riandare con la mente ad una vicenda di tanti anni fa.
Era una prima di Ottobre e, all’età di diciannove anni, alle otto del mattino, varcai il portone della Scuola Media di Scandale. Non andavo a frequentare le lezioni. Vi andavo invece ad insegnare i fondamenti della poesia e della letteratura ai ragazzi e alle ragazze del paese. Non c’erano allora molti laureati in giro ed il Preside della scuola mi aveva affidato un incarico annuale, nonostante fossi solo uno studente universitario.
Con qualche emozione affrontai le  prime ore di insegnamento della mia vita. Verso le dieci, a causa di un buco nell’orario, mi diressi verso la sala docenti, che, nel suo grigiore e nel suo abbandono, dava  l’idea di una sala d’attesa di terza classe nelle stazioni ferroviarie di una volta.
C’era lì, seduta intorno ad un tavolo, una giovane donna, che a me sembrò subito bellissima. Saluti, presentazioni ed ogni mio interrogativo venne subito chiarito. Marilù Properzio, così si chiamava, con quello strano cognome che ricordava il grande poeta latino, era una Pugliese di Taranto, anche lei universitaria e con un incarico annuale. Era già sposata, senza figli, e con il marito ingegnere, che lavorava con l’impresa Cidonio nella costruzione della nuova strada Silana-Crotonese, si era stabilita in una villetta alla periferia del paese. Poi tirò fuori un pacchetto di sigarette, me ne offrì una e, tra una boccata e l’altra, incominciò a lamentarsi della vita che, già da qualche giorno, stava conducendo al paese. Non conosceva ancora nessuno, mi disse, non parlava mai con nessuno, tranne che con qualche esercente di bottega, dove andava a fare la spesa. Finì con l’invitarmi a casa sua, “a prendere il caffè” tenne a precisare sorridendo, cosa che non mi feci ripetere due volte, anche se il mio piacere fu in parte attenuato dalla sua ultima precisazione:“ Ovviamente verrai al Sabato pomeriggio, verso le cinque, quando ci sarà pure mio marito”.
La rividi, con molto piacere, il giorno successivo a scuola e poi ancora il Sabato mattina, quando l’invito fu riconfermato. Aspettavo con ansia mista a curiosità quel pomeriggio e mi accorsi che mi capitava, più di una volta, di pensare a lei. La rivedevo mentre parlava, mentre fumava, mentre accavallava le gambe, cosa che faceva di frequente, ed ero costretto ad ammettere che sì, era proprio una bella donna e che, soprattutto, mi piaceva. Forse nel suo atteggiamento c’era qualcosa di affettato, ma l’attribuii al fatto che, a quanto lei stessa mi aveva detto, poter recitare su un palcoscenico era stato uno dei grandi sogni della sua vita e quindi, almeno per il momento, si limitava a recitare un pochino sul grande palcoscenico della vita.
Quel Sabato pomeriggio, prima di recarmi da lei, mi fermai un po’ al Bar Centrale, ove il mio amico Romano Cizza mi vide e mi disse che mi trovava un po’ teso. Certamente aveva ragione, ma io non gli rivelai nulla di quanto occupava la mia mente.
Alle ore diciassette e qualche minuto, con la mia Cinquecento, ero davanti al portone della villetta. Mi accorsi che i coniugi mi stavano aspettando, perché li intravidi dietro le tendine spostate di una finestra al piano superiore. Dopo un po’ il portone si aprì automaticamente ed io affrontai una piccola rampa di scale. Sul pianerottolo tutti e due mi accolsero con un sorriso e potei vedere per la prima volta il marito. Era un signore che dimostrava molti più anni della moglie, con i capelli lunghi alla nazarena e una barba incolta, venata di qualche filo grigio. Si chiamava Vladimiro Lenin Delgado ed era di Napoli. Una volta seduti in salotto, mi invitò subito a dargli del tu e tenne a precisare che i suoi antenati erano baroni di discendenza spagnola, trapiantati in Italia nel Settecento. Aggiunse che da un bel po’ ormai il titolo non era più usato in famiglia e che anzi suo padre gli aveva dato il nome del famoso rivoluzionario russo e lui stesso si sentiva impegnato a professare ideali progressisti, se non proprio rivoluzionari.
Poi prendemmo il caffè e insomma trascorsi un piacevole pomeriggio. Da parte mia feci di tutto per compiacerli. Recitai la parte dell’ascoltatore attento, mi dissi genericamente d’accordo, seppur con qualche distinguo, con i suoi ideali progressisti, apprezzai il caffè e finsi di interessarmi ad una collezione di monete antiche, che egli volle farmi vedere ad ogni costo. In particolare mi interessai, ma questo non mi costò alcuno sforzo, ad una incredibile collezione di dischi in vinile nei quali era raccolta l’intera storia della canzone napoletana. Ad un certo punto anzi egli mise sul giradischi una versione di Core ‘ngrato interpretata  da Enrico Caruso e si mise a canticchiare, dimostrando una discreta voce tenorile. Poi allacciò la moglie e con lei si esibì in alcuni passi di danza. Infine si fermò, riattaccò il disco e mi invitò a fare altrettanto con la moglie. Mi sentivo in imbarazzo, anche perché ballare non mi attraeva già allora e non mi avrebbe mai attratto per il resto della vita. Ma lui insistette, mi costrinse, mi spinse quasi tra le braccia della moglie, sorridendo e un po’ maledicendo la ritrosia dei Calabresi.
Ad una certa ora, mentre eravamo ancora accaldati e vagamente eccitati dall’euforia, fui invitato a pranzo per una delle domeniche successive. Poi fui invitato un’altra volta ancora, poi un’altra. Finii col diventare quasi uno di famiglia e le mie visite aumentarono quando io e Marilù decidemmo di preparare insieme un esame di Latino.
In un  pomeriggio di Marzo io e lei eravamo seduti intorno ad un tavolo, intenti a tradurre un brano di Ovidio. Era, mi pare, la seconda volta che ci ritrovavamo insieme, da soli, in assenza del marito. Era una bella giornata, si avvertivano i primi tepori della Primavera ed io, tra una ricerca e l’altra sul dizionario, cercavo di stare comodo su quella sedia. Mentre ricercavo questa comodità, che una strana irrequietezza quel giorno non mi consentiva di raggiungere a pieno, appoggiai il ginocchio ad una gamba del tavolo. Dopo un po’ feci leva con il ginocchio per spostare la sedia, ma mi accorsi che quella gamba si muoveva, anzi aveva preso a dondolare leggermente. Rimasi come paralizzato, incapace di venir fuori da quella situazione imbarazzante in cui mi ero, seppur involontariamente, cacciato. Ci pensò Marilù a risolvere ogni problema: si alzò; mi mise una mano sulla fronte, stranamente, perché non aveva mai fatto una cosa del genere; infine notò un insolito rossore sul mio volto e mi chiese se mi sentivo bene. Notai, o credetti di notare, un certo tono canzonatorio nelle sue parole e mi sentii perduto. Capii chiaramente che cosa si intende quando si dice che il ridicolo uccide e che quello, che lei poteva ritenere un mio goffo tentativo di “provarci”, avrebbe potuto distruggere la nostra amicizia. Ma lei capì il mio imbarazzo, il mio sgomento quasi, e volle tranquillizzarmi. Allungò dolcemente la mano dietro la mia nuca e mi attirò a sé. L’irreparabile si consumò di lì a poco, su un divano posto lungo la parete, mentre i libri e i dizionari sul tavolo sembravano oggetti sprecati nella loro inutilità, come delle nature morte in un quadro di Morandi.
A circa cinquanta chilometri di distanza, nello stesso momento, in un cantiere dell’impresa Cidonio lungo la Silana Crotonese, l’ingegner  Delgado stava consultando una cartina topografica. Qualcuno gli aveva portato un caffè e lui, inavvertitamente, con un movimento brusco ne aveva fatto cadere una parte sulla cartina. Si affrettò a ripulire le macchie e, a operazione ultimata, non poté fare a meno di notare che l’alone lasciato dal caffè aveva una strana rassomiglianza con la testa di un cervo. Poi andò a seguire alcuni lavori nel cantiere, tranquillo come sempre e forse inconsapevole del fatto che le grandi tragedie della vita  possono verificarsi nei momenti più impensati, mentre tutto, intorno a noi, sembra svolgersi nella più disarmante e insignificante banalità.
Quando entrambi ci rialzammo e ci ricomponemmo, notai su una sveglia che erano le cinque del pomeriggio. Bisognava sbrigarsi, perché l’ingegnere poteva rientrare da un momento all’altro.
Da quel giorno i nostri incontri diventarono più frequenti, mentre noi diventavamo sempre più temerari, quasi che la pacchia fosse ormai un diritto acquisito e che la fine non dovesse mai arrivare. E invece arrivò, come per tutte le cose di questo mondo. Eravamo a Giugno ormai, verso la fine dell’anno scolastico, e un pomeriggio Vladimiro, forse messo all’erta da qualcuno, forse inseguendo un suo rovello interiore che gli aveva fatto intuire qualcosa, alle tre del pomeriggio era già con la sua auto davanti al portone di casa. Diversamente da quanto aveva fatto in altre circostanze simili, non aveva preavvertito la moglie per telefono.
Noi, dal piano superiore, forse storditi, forse solo incoscienti, non sentimmo l’arrivo dell’auto, non sentimmo lui che, silenziosamente, saliva lungo le scale. Vladimiro arrivò all’improvviso, aprì bruscamente la porta e ci colse sul fatto, in atteggiamento inequivocabile. Avrebbe potuto gridare e inveire, Vladimiro, ma non lo fece. Del resto non poteva rinnegare platealmente, con una scenata piccolo borghese, i suoi ideali progressisti, se non proprio rivoluzionari. Non disse una parola, anzi sembrò quasi chiedere scusa per il disturbo; si diresse verso un’altra stanza e richiuse la porta dietro di sé.
Rividi Marilù solo dopo qualche giorno, a scuola. Mi comunicò che il marito aveva deciso di trasferirsi, tanto più che il suo lavoro presso l’impresa Cidonio era ormai agli sgoccioli, e che la partenza era fissata per la fine del mese, alla chiusura dell’anno scolastico.
Una mattina di Giugno, mi ritrovai davanti alla loro villetta a salutare i due che partivano. Avevano riempito ogni più piccolo spazio dell’auto, nella quale non entrava più niente, e anzi mi lasciavano in custodia una valigia, che avrei dovuto spedire loro in seguito. Al momento dei saluti, Marilù mi abbracciò con trasporto, Vladimiro si limitò a stringermi la mano. Sapevo che non li avrei più rivisti.
A distanza di qualche mese, rovistando in un armadio, vidi la valigia che avrei dovuto spedire. La cosa, chissà perché, m’era del tutto passata di mente e d’altra parte nessuno me l’aveva più richiesta. Avvertii una stretta e capii, se mai ce ne fosse stato bisogno, che Marilù, che pure era passata come una meteora, aveva contato più di qualcosa nella mia vita e che il suo ricordo continuava a bruciarmi. Armeggiando con un temperino, riuscii ad aprire la valigia, curioso di vedere che cosa ci fosse dentro. Vi trovai dei libri, un mazzo di cartoline illustrate legate con un nastro, una busta che conteneva un paio di calze da donna e un rossetto, altre cianfrusaglie. Credetti di capire che quella valigia, quegli oggetti, mi legavano ancora ad un ricordo che mi faceva soffrire. Credetti di capire che, per non soffrire più, dovevo compiere un gesto, anche simbolico, di liberazione.
Misi la valigia nella mia Cinquecento e mi diressi a Crotone. Andai verso il mare alla ricerca di un punto solitario della spiaggia. Era da poco tramontato il sole, una nuvolaglia nera incominciava a ricoprire il cielo e c’era un fortissimo vento di tramontana, che spazzava via ogni cosa. Aprii la valigia sulla spiaggia e attesi. Il vento incominciò a disperdere le buste, poi singole pagine, poi i libri, poi le altre cose. Alla fine anche la valigia, alleggerita del suo peso, fu sollevata in aria, roteò tante volte su se stessa, si richiuse come per magia e finì col posarsi, come la bottiglia di un naufrago, sulla distesa infinita del mare.
Ezio Scaramuzzino













domenica 17 aprile 2011

La visita (Racconto) di Ezio Scaramuzzino


I miei vecchi riposano, già da tanto tempo, nel piccolo cimitero di Scandale. Ci vado ogni anno, come tutti, nel periodo della commemorazione dei defunti. Evito di andarci nei momenti di maggiore ressa e di solito faccio passare qualche giorno. Quando arrivo, vado diritto alle tombe, depongo qualche fiore nei vasi già pieni per precedenti visite di altri familiari e poi mi soffermo un po’, davanti agli ovali dei loro volti con lo sguardo perso nel vuoto.
Infine faccio un giro tra i viali solitari del cimitero, incontro qualche sconosciuto, più raramente qualche vecchio amico con cui scambio un saluto affettuoso, mi soffermo con attenzione ad osservare le tombe dei trapassati dell’ultimo anno. E’ una rassegna a volte meravigliata, a volte curiosa, a volte dolorosa: mi scorrono davanti agli occhi i volti di persone  sconosciute, oppure amiche e familiari.
L’ultima volta, già da lontano, ho intravisto un volto noto, quello di Mario Panza. La foto lo rappresentava sorridente e d’altra parte egli aveva sempre sorriso nel corso della sua vita, anzi si può dire che fosse  vissuto ridendo o sorridendo. Avvicinatomi, ho letto la data di nascita, 29 Febbraio 1936, ma ho visto che mancava quella della morte. Non sapevo spiegarmi la cosa, ma, girando intorno alla tomba, ho notato un lato non rifinito, in mattoni grezzi. Ho capito che il caro, vecchio Mario non era per nulla scomparso e che soltanto, secondo  un’abitudine molto diffusa dalle nostre parti, si era già preparata la tomba, per eliminare, o ridurre al minimo, il fastidio dei superstiti.
Mario Panza abitava vicino casa mia ed era un abile cercatore di funghi, di verdura selvatica e di tutto ciò che cresce in natura. Raccogliendo e rivendendo funghi, lumache e cicoria aveva mantenuto una famiglia, moglie e una figlia. Di quest’ultima si diceva che non fosse veramente sua figlia e comunque essa si dava arie da cittadina e disdegnava i modi rustici e contadineschi dei genitori.
Ricordo che una volta, avevo forse una decina d’anni, Mario mi portò con sé a cercar funghi. Egli mi guidava attraverso gli anfratti ed avevamo già fatto una buona raccolta, quando, dietro un cespuglio, trovammo due persone allacciate ed una di queste era la figlia. A sera, ritornato a casa, gridò ed imprecò a lungo contro quella figlia e fu forse l’unica volta della sua vita, perché per il resto egli aveva un eterno sorriso stampato sulle labbra. Sorrideva di quella sua strana data di nascita, 29 Febbraio, anno bisestile, che lo induceva a dire che in realtà egli faceva un anno di età ogni quattro anni. Sorrideva di quel suo strano mestiere, che  riteneva un po’ comico, per via del fatto che, come diceva, egli si limitava a vendere ciò che la natura produceva spontaneamente e che chiunque, con un po’ di buona volontà, avrebbe potuto raccogliere da solo.
Lo scorso Novembre, ultimato il giro al cimitero, mi è venuta voglia di andare a dare uno sguardo alla casa paterna, ormai disabitata da anni. L’ho trovata, come era facile attendersi, in evidente stato di incuria. Ho aperto con difficoltà e con qualche esitazione, poi ho fatto un giro .
In una stanza, impolverato, ho ritrovato il vecchio tavolo su cui studiavo tanti anni fa. Su quel tavolo, da bambino, scrivevo le lettere di zia Mariuzza. Vedova e con tutti i figli emigrati per il mondo, dal Canada al Brasile, veniva da me a farsi scrivere le lettere di risposta ai figli, che periodicamente le mandavano qualche dollaro e qualche cruzeiro acclusi nelle buste, nella speranza che i soldi potessero sfuggire alle grinfie degli impiegati postali di due continenti, cosa che non sempre avveniva. La zia Mariuzza mi diceva quel che io dovevo scrivere , ma più spesso parlava direttamente con i figli, come se li avesse a qualche metro di distanza. Spesso si lasciava prendere dalla commozione, parlava singhiozzando ed io, che non sempre riuscivo a dare un senso alle sue lacrime, la guardavo incuriosito. Lei si accorgeva della mia sorpresa, si ricomponeva e mi sorrideva.
Dietro i vetri di quella finestra, spesso appariva zia Elena, vicina di casa. Anche lei vedova, veniva a riportare a casa l’una o l’altra delle numerose figlie, che amavano di tanto in tanto  trascorrere un po’ di tempo a casa nostra, in compagnia dei cugini. Non stava bene allora questa promiscuità, anche tra parenti, perché così  si viveva allora e così  si pensava che bisognasse vivere, specie quando si avevano in casa ragazze da marito e la gente, fuori, era sempre pronta a tagliuzzare. La stessa cosa del resto succedeva a me, che amavo stare con le mie cuginette e spesso con una scusa mi recavo a casa loro. Zia Elena tollerava per qualche tempo, poi, inesorabilmente, mi rispediva a casa ed io, un po’ mogio e con la coda tra le gambe, mi ritiravo, con il dubbio e la sensazione di aver compiuto chissà quale misfatto.
Su quella sedia, in cucina, spesso si sedeva zio Amedeo. Tra i tanti fratelli di mio padre, era il solo ad avere studiato fino alla  licenza media e faceva quindi un lavoro intellettuale per quei tempi: era l’unico dipendente della locale esattoria comunale. Di ritorno dalle sue solitarie passeggiate, durante le quali si spingeva fino alle ultime case del paese, amava fermarsi a casa nostra. Afflitto da leggera balbuzie, non era di certo un gran parlatore, ma immancabilmente trovava il modo di chiedermi qualcosa sui miei studi. Non appena io accennavo una risposta, egli trovava il pretesto per parlare dei suoi studi e di come la scuola fosse cambiata in peggio, con i professori che ormai non insegnavano più nulla.
Ad un angolo del focolare, su quella sedia che ora appare un po’ sbilenca, durante le lunghe e fredde sere d’Inverno, si sedeva ogni tanto zia Silvia, unica non sposata della numerosa famiglia e che con il suo malinconico sorriso sembrava come rassegnata alla sua condizione di eterna zitella. E’ morta qualche anno fa zia Silvia, ultima dei tanti fratelli e sorelle, e negli ultimi tempi della sua vita, mentre era ricoverata in ospedale, sono andato spesso a trovarla, ad alleviare la sua solitudine. E lei mi accoglieva sempre con il suo eterno, malinconico sorriso, per dimostrarmi la sua gratitudine e talvolta mi faceva trovare pure dei pasticcini, che io fingevo di apprezzare e che conservavo, dicendole che li avrei mangiati a casa la sera.
Le stanze spoglie e mute sembrano ancora risuonare delle loro voci, ormai dissolte dal tempo. Mentre giro per la casa, mi ritrovo nella stanza dei miei genitori. C’è ancora un vecchio letto a baldacchino, solenne come un catafalco. Apro istintivamente un comodino, ne tiro fuori un vecchio pitale arrugginito, che resiste quasi come a volere sfidare il tempo, mentre tante altre cose sono sparite o comunque non ci sono più. Ogni volta che ritorno in quella casa, trovo che mancano alcune cose, piccole e povere cose per lo più, come il resto dei mobili che sarebbe troppo costoso restaurare o trasportare altrove.
Era una vita semplice quella portata avanti dai miei vecchi. Mia madre, figlia di un farmacista di Casabona, si era trasferita nel nuovo paese dopo il matrimonio con mio padre, che era un piccolo possidente agricolo. Qui si era trovata bene ed era  benvoluta, cosa non infrequente nel mio paese, dove tutti hanno una naturale propensione ed un istintivo rispetto per quelli che vengono da “fuori”, come ancora oggi si usa dire.
Ho ancora l’impressione di risentirli, di rivederli, come una volta, quando entrambi si facevano segno di parlare a bassa voce, per non disturbare me, che dovevo studiare e non dovevo perdere tempo. Mia madre, in particolare, nutriva grandi progetti su di me e nelle sue parole si avvertiva tutto l’orgoglio possibile, quando  con amici e parenti parlava di me e dei miei successi scolastici.
Ora la rivedo quasi, mentre insieme con mio padre sembra incamminarsi su una strada che non conosco. Ogni tanto si volta verso di me e mi fa un cenno con la mano, invitandomi chiaramente a non seguirla. Poi riappaiono anche zia Mariuzza, zia Elena, zio Amedeo, zia Silvia. Tutti insieme continuano su quella strada, parlottano insieme a bassa voce, come un tempo, svoltano l’angolo e si dissolvono nel nulla.
Ezio Scaramuzzino