sabato 27 novembre 2010

A proposito di tradimenti

Il Cavaliere dice che chi non voterà la fiducia è un traditore. Fini respinge ogni accusa. E’ certo, in ogni caso, che nell’immaginario collettivo Fini e i suoi scagnozzi sono già considerati dei traditori a tutti gli effetti. Proprio in questi giorni, è stato pubblicato un interessante libro di tale Ghino di Punta degli Aldighieri, pseudonimo dietro il quale si nasconde probabilmente un originale osservatore delle vicende politiche nostrane. In questo libro, sulla falsariga della Commedia dantesca, si racconta il viaggio dell’autore in un oltretomba prossimo venturo.

Anno 2050, Inferno, IX cerchio, IV zona(Giudecca,dove sono puniti i traditori dei propri benefattori). Un viaggiatore solitario, Ghino di Punta degli Aldighieri, si trova a passare e scorge nella penombra i peccatori conficcati nel ghiaccio del fiume Cocito. Uno di questi è quasi completamente immerso: solo la testa gli fuoriesce ed egli la agita furiosamente, per richiamare l’attenzione del passante. E’ una testa oblunga, con fronte ristretta, occhi smorti e acquosi, naso aquilino. Ghino si piega a guardare con attenzione e riconosce quel volto, quegli occhi, quel naso, nonostante l’abbrutimento della dannazione eterna.

Così il fatto è raccontato nel poema “Delle cose notevoli occorse in Italia negli anni del Signore 1994-2020”, di Ghino di Punta degli Aldighieri, Milano, Mondadori 2060.

Poi mi rivolsi a lui e parla’ io
e cominciai: «Gianfranco, i tuoi martìri
a lagrimar mi fanno tristo e pio.

Ma dimmi: al tempo de’ dolci sospiri,
come nacque e poi fu che il tuo malore
al Cavaliere rompesse i disiri?».

E quello a me: «Nessun maggior dolore
che ricordarsi del tempo felice
ne la miseria; e ciò mi spezza il core.

Ma s’a conoscer la prima radice
dell’odio mio tu hai cotanto affetto,
dirò come colui che piange e dice.

Io mi trovavo un giorno per diletto
con Lisabetta, a cui amor mi strinse;
soli eravamo e sanza alcun sospetto.

Per più fïate li occhi ci sospinse
sulla TV e scolorocci il viso;
ma solo un fatto fu quel che mi vinse.

Quando arrivammo al punto ben preciso
che Canal cinque, allor tanto importante,
fece un servizio in modo assai deciso

sulla Tulliani, inver tutto tremante,
-Muoia Silvio, gridai, e chi lo elesse,
io mi vendicherò d’ora in avante->>.

martedì 23 novembre 2010

Fini e Di Pietro:che ci azzeccano?

E’ risaputo che, nell’attuale, confusa situazione politica, l’IDV di Di Pietro si caratterizza per la decisa preferenza accordata all’ipotesi di elezioni anticipate.

Se qualcuno si chiede il perché di tale decisa preferenza, non appare facile dare una risposta. L’IDV è elettoralmente stazionario e tutti i sondaggi gli attribuiscono un 6% di voti con tendenza al ribasso.

E allora perché Di Pietro smania per le elezioni anticipate, cosa che oltre tutto lo pone in contrasto con il PD che considera le elezioni anticipate come una grande iattura ?

Una spiegazione plausibile sarebbe la seguente.

Da quando è entrato in politica, Di Pietro ha fatto collezione di case. In pochi anni ne ha comprate una ventina, disseminate in tutta Italia. L’onorevole si è giustificato dicendo che si sente come una formichina, capace di accumulare soldino su soldino ed incline poi ad investire nell’acquisto di case.

Filippo Facci, in una biografia non autorizzata, ci fa sapere che tali acquisti coincidono quasi sempre con il periodo dei rimborsi elettorali, che il Di Pietro considera soldi privati e che amministra senza render conto a nessuno.

Si dice in giro che, da qualche tempo, il nostro eroe sarebbe entrato in ambasce a causa del mancato acquisto di qualche immobile. E già, il momento è difficile anche per lui. E allora, per tirarsi fuori dalle ambasce, quale miglior soluzione delle elezioni anticipate con susseguenti rimborsi, da utilizzare subito?

Morale della favola: non c’è solo Gianfry Fini che utilizza il partito per procurare case alla propria famiglia.

Si dà il caso, inoltre, che di recente il nostro Gianfry ha promulgato una Carta dei valori e che anche il partito di Di Pietro si richiama ai valori.

Ma per caso i valori, di cui entrambi parlano, sono i valori immobiliari?

sabato 20 novembre 2010

La morte di Giacomo Leopardi di Pietro Citati


Leopardi morì con moltissima grazia, e in tono minore, come in tono minore aveva vissuto quasi tutta la sua vita, celando o velando i dolori, le angosce, la desolazione, le passioni, la solitudine, il dono di essere un genio immenso. Gli ultimi giorni furono lieti. Dimenticando la lettera al padre del 27 maggio 1837, Leopardi non pensava di essere vicino alla morte. Credeva che il corpo potesse opporre ancora resistenza, forse “non piccola”, alle forze che si agitavano e infuriavano dentro di lui.

Nel febbraio 1837 Leopardi e Ranieri tornarono a Napoli, in una pausa del colera che aveva ucciso decine di migliaia di persone, gettate nella fossa comune. Sembrava che il colera si fosse placato e si stesse spegnendo. Ma all’inizio di giugno riprese la sua furia e Ranieri decise di rientrare al più presto a Villa Ferrigni. I medici sostenevano che l’aria benefica di Torre del Greco avrebbe potuto, se non curare, alleviare l’idrotorace di cui soffriva Leopardi. In quei giorni egli non aveva voglia di muoversi: come Carlo Emilio Gadda, era maestro nell’arte del rinvio; e di giorno in giorno prorogò la partenza.

Si sentiva meglio. Dormiva senza essere torturato dall’asma e scherzava con i medici sulla sua malattia. Come sempre, sosteneva di essere malato di nervi e che né l’aria di Torre del Greco, né il latte d’asina, né le diete, né qualsiasi altro rimedio potevano nulla per lui. Soffriva soltanto di asma nervosa e gli asmatici, disse sorridendo a Ranieri, hanno una vita lunghissima. La partenza fu fissata per il 14 giugno. Il giorno prima Paolina gli regalò due cartocci di confetti cannellini, dei quali Leopardi era ghiottissimo. Il dolce non finiva di consolare il suo spirito e il suo organismo, che ne aveva bisogno. La sera la passò con Ranieri, a prendere il fresco sul balcone e a discorrere di filosofia.

Il 14 giugno Leopardi rimase a letto tutta la mattina, finendo di mangiare, a velocità prodigiosa, i confetti cannellini. Mentre Ranieri usciva di casa, verso le dieci, Leopardi bevve la sua cioccolata “con gran gusto, perché amava moltissimo quella bevanda”. Passò qualche ora: Leopardi preparò le sue cose per la partenza. Verso le diciassette, come era sua abitudine, si pose a pranzo. Era più gaio del solito. Prese due o tre cucchiaiate di minestra, poi chiese a Paolina un’abbondante limonata gelata che a Napoli chiamavano “granita”. Paolina gli portò una granita doppia. Leopardi ricominciò a mangiare la minestra, ma si arrestò all’improvviso e si rivolse a Ranieri che gli stava seduto vicino. “Mi sento un pochino crescere l’asma”, gli disse.”Si potrebbe riavere il dottore?” Ranieri si turbò, ma Leopardi riprese, dolcemente, il suo vecchio scherzo sulla lunga vita degli asmatici e disse a Paolina che solo la sua zia Paolina di Napoli gli rendeva possibile la lunga lontananza dalla Paolina di Recanati.

Mentre Ranieri usciva per cercare il medico, Leopardi si adagiò vestito sul letto; ma era inquieto e volle rialzarsi, cercando di riprendere il pranzo, malgrado la resistenza di Paolina. Quando giunsero il dottore e Ranieri, Leopardi stava disteso sulla sponda del letto, sostenuto da guanciali posti di traverso. Sorrise e si rimise a chiacchierare col medico intorno agli argomenti che entrambi amavano: il benefico soggiorno a Torre del Greco, l’aria limpida, il male di nervi, il latte d’asina, i piaceri che lo attendevano a Villa Ferrigni. La voce era più fioca e più spezzata del solito, ma tutto sembrava normale, come se di lì a poco Leopardi dovesse alzarsi, salire sulla carrozza, raggiungere il luogo dove aveva appena finito di scrivere "Il tramonto della luna", immaginando il ritorno dell’inondazione luminosa sul mondo. Paolina gli sosteneva il capo e gli asciugava il sudore, che incominciava a scendere a gocce dalla sua amplissima fronte.

Quando sembrò turbato da un “infausto e tenebroso stupore”, Ranieri cercò di ridestarlo con degli eccitanti alcolici. Leopardi aprì gli occhi più del solito: guardò fisso verso Ranieri e gli disse sospirando: “Io non ti veggo più”, oppure “Apri quella finestra, fammi vedere la luce”, oppure “Addio, Totonno, non vedo più la luce”. Il polso salì lentamente, poi si spense, e Leopardi smise di respirare.
Giacomo Leopardi morente(ritratto di G.Turchi da un calco in gesso)

La prima camelia dell'inverno

La prima camelia dell'inverno. E' apparsa stamattina sul mio balcone...La camelia...il fiore romantico...il fiore di Violetta Valery, di Emma Bovary, di Anna Karenina...La camelia...la offro alle donne che hanno contato e che contano qualcosa nella mia vita...

giovedì 18 novembre 2010

Chi è veramente Roberto Saviano


Saviano ha scritto un solo libro nella sua vita. Gomorra. In quel libro, scopiazzato in molte parti da quotidiani locali, egli non si limita a fare un generica denuncia contro la camorra, ma fa nomi e cognomi. Ed è questo il suo unico merito.

Per il resto il libro è una povera cosa e solo i redattori della Mondadori hanno potuto dargli una forma dignitosa e renderlo interessante.

Saviano non era nessuno prima della pubblicazione. Per la prima volta nella sua vita egli si trovava di fronte ad un bivio: correre qualche rischio con la camorra e cercare di diventare famoso, oppure non correre rischi ma continuare ad essere nessuno. Scelse la prima strada e gli andò bene.

Da allora Saviano è accompagnato da una scorta, è diventato ricco, è impegnato nel cinema e nella televisione, è diventato un’icona della sinistra. Osservatelo bene mentre parla: fa continue pause, ingoia spesso a vuoto, strabuzza gli occhi, si esprime con aria ispirata e solenne. E’ evidente che si prende sul serio. Alla pari di tanti altri che gravitano nella sua compagnia di giro, egli si considera un martire o un perseguitato, come Salman Rushdie o Alexander Solgenitsin.

Molti glielo fanno credere ed egli non si accorge di essere diventato ormai quello che le sue ultime vicende televisive hanno messo malinconicamente a nudo: un trombone, un povero trombone, oltretutto sfiatato e stonato.

sabato 13 novembre 2010

I fascisti di sempre di S.de Sismondi

I fascisti di sempre
venerdì 12 novembre 2010


Diversamente da quanto pensa il suo fondatore e il clan di avventurieri e pretoriani che si radunano entusiasticamente attorno a lui, la vicenda di Futuro e Libertà non costituisce alcuna novità ma certifica il fallimento politico e culturale e la mancata trasformazione di parte della destra italiana da partito fascistoide ed estremista a partito di governo capace di interpretare le ampie e complesse esigenze di un gran paese o quanto meno di un paese grande. Governare, ragionare politicamente è molto difficile e faticoso: occorre studio, coerenza politica capacità di gestione di realtà ed esigenze molto diverse. Occorre rispettare processi decisionali e patti interni ed esterni, quali quelli che si instaurano in alleanze e coalizioni. Occorre in altre parole una cultura di governo, un senso vasto e profondo dei bisogni del paese e delle sue istituzioni.



Rispetto ad un partito di governo, i caratteri del piccolo gruppo estremista sono completamente diversi: la sua organizzazione e il suo comportamento sono simili a quelli di una piccola gang di quartiere. Si tratta di un insieme di persone, legate al proprio capo da un solidarismo gerarchico-cameratesco. Al suo interno, non vi sono ovviamente processi decisionali istituzionalizati, ma la maggiore o minore autorevolezza dei suoi membri è determinata solo dalla capacità di intuire le vere intenzioni del capo, dalla abnegazione e dallo spirito di sacrificio con cui le favoriscono. Come ogni piccola banda criminale o gang di quartiere che si rispetti, il piccolo partitello estremista ha un rapporto contrastato ma non necessariamente conflittuale con l’ambiente in cui opera. Non vi sono soltanto coloro che lo avversano o lo temono, la maggioranza, ma anche quelli che per vari motivi ne sono attratti. Questi ultimi sono coloro che sono o si sentono esclusi, o vivono in una condizione di marginalità e di frustrazione, e quindi sono attratti dallo spirito solidale e cameratesco della piccola gang, in cui possono pensare di contare qualcosa. Tutto ciò spiega molto bene il potere di attrazione nei confronti di parte di numerosi parlamentari del centro destra, e non solo, da parte del partitello di Tulliani. Questi vedono nella sua gang l’occasione per uscire da una situazione di marginalità e di subalternità.



Rispetto alla guida di un grande partito moderato e all’attività di governo, la pratica dell’estremismo politico con il connesso spirito di corpo è molto più semplice, e forse più divertente. Per molti, la riduzione della complessità della vita sociale all’elementarità dell’istinto gregario che qui domina è una forma di rassicurazione. Oltre a questo, lo spirito di gang è particolarmente attraente perché esercita una forte suggestione adolescenziale. E’ come una forma di ringiovanimento, il recupero di una pienezza esistenziale, in cui la vita, che le scelte e la grigia routine dell’età adulta limitano irrimediabilmente, può ancora apparire come una grande avventura. Il vitalismo distruttivo crea poi in chi lo pratica un sentimento di importanza, fa sentire padroni del mondo. Questo spiega molto bene la forte attrazione esercitata da tutte le forme di reducismo e l’entusiasmo puramente distruttivo dei nuovi e vecchi pretoriani che si raccolgono attorno all’On. Tulliani-Fini.



La pratica dell’estremismo politico e della conseguente logica della piccola gang è indubbiamente lecita e in un sistema democratico e può ottenere forme variabili di consensi. Tuttavia, quello che non deve in alcun modo essere fatto è pensare che questa sia una forma di organizzazione politica universalmente valida: applicare la logica del piccolo gruppo, e quindi della gang, a realtà complesse, come partiti o coalizioni, che hanno responsabilità di governo è semplicemente distruttivo e ridicolo.



Questo si vede molto bene dalle gesta ridicole della "band" finiana in questi ultimi mesi.



E’ perfettamente normale che il capo di una gang concepisca la lotta per il dominio del quartiere in termini puramente muscolari e “rusticani” con i suoi rivali. Ed è altrettanto comprensibile che questa lo segua, obbedendogli ciecamente. Tuttavia, è frutto di ingenuità o –se vogliamo- di stupidità politica credere che un vasto corpo elettorale assuma lo stesso atteggiamento, per cieco fideismo, a prescindere da impegni e dai programmi sottoscritti. Non si possono mutare impegni precisi presi in materia di immigrazione, politica della famiglia (quella costituzionale) e riforma della giustizia, allo stesso modo in cui una gang cambia divisa, per puro e velleitario desiderio di distinguersi da altri. Non tenere conto dei programmi e degli impegni presi con l’elettorato, può sembrare ai fan del piccolo gruppetto teppista un atto di grande strategia politica e di forza. Ma è facile pensare che alla gran parte degli elettori, che votano tenendone conto, questo sembri semplicemente un volgare gioco delle tre carte, un atteggiamento da imbonitore da mercatino rionale, e una grave menomazione dei loro diritti politici. Se poi questa volgare truffa politico- elettorale, questa sceneggiata da voltagabbana al servizio di tutto e di tutti, tranne che dei semplici cittadini è assecondata da un intero establishment politico- amministrativo e addirittura dalle alte cariche dello stato, ciò determina una grave erosione della legittimità e della credibilità delle istituzioni di un paese. Allo stesso modo, la scena dei ministri (per altro pessimi e insignificanti) che depongono i loro mandati nelle mani del capetto che guida la camera dei deputati, può essere una scena entusiasmante per la piccola gang: nella realtà è una forma grottesca di disprezzo delle istituzioni, ridotte ben peggio del bivacco di manipoli di mussoliniana memoria. E stupisce non poco che i vari apostoli e difensori della centralità del parlamento non abbiano avuto nulla da ridire, al riguardo.



Trascurare, se non addirittura disprezzare, questi fondamentali valori non è puramente un gioco a somma zero. Esiste, infatti, per la legittimità delle isituzoni di un paese, un punto di non ritorno, un punto in cui, per dirla con Cicerone, “res publica nulla est”, lo stato cessa di esistere. Un parlamento autoreferenziale, che persegue solo gli interessi e le mediocri ambizioni di gruppi e gruppuscoli, che compensano la mancanza di legittimità effettiva, che solo un rapporto coerente e lineare con il mandato popolare può garantire, con l’appoggio di un imprecisato numero di lobby nazionali e internazionali, dei vari e supposti poteri forti o deboli che siano, perde la sua fondamentale funzione di espressione e di mediazione degli interessi e dei conflitti di un paese. Non trovando sbocco in parlamento, questi saranno necessariamente perseguiti in forma extraparlamentare e extra-istituzionale. Il bellissimo risultati di questi zelanti fautori del “ritorno alla politica”, non potrà essere altro che l’ulteriore allargamento dell’area dell’antipolitica e dell’astensione se non la piena legittimazione di un ribellismo che potrebbe assumere forme violente. Indubbiamente, un modo degno e nobile di festeggiare l’imminente centocinquantenario dell’unità d’Italia.

martedì 2 novembre 2010

Noi non ci stiamo(come Scalfaro)

Teniamoci pronti. Quel che si temeva ormai è ad un passo dal realizzarsi. La situazione è confusa, il PDL è alla frutta, il Cavaliere è con le spalle al muro, i poteri forti che vogliono il ribaltone sono euforici, la crisi è alle porte, il governo “tecnico” è incombente, il colpo di stato sta per realizzarsi.

Al punto in cui siamo arrivati è inutile dire di chi è la colpa dell’attuale situazione. La colpa non è di Ruby, come non è di Fini, come non è di Napolitano, come non è di Tremonti o di Bersani.

Certo Berlusconi ci ha messo del suo, ma non è il caso di farsi illusioni. E’ talmente vasto e variegato il fronte antiberlusconiano che, se non ci fosse stata Ruby, si sarebbe trovata un’altra scusa per far fuori il Cav..

Il quale una volta almeno lottava, mentre adesso appare rassegnato, abulico, stanco, in balia degli eventi.

E’ chiaro che così non si può continuare.
Per parte nostra, possiamo almeno far sentire la nostra voce e dire chiaramente che noi, elettori del centrodestra, questa volta al colpo di stato non ci rassegneremo. Napolitano lo sappia: “NOI NON CI STIAMO”.